venerdì 4 aprile 2008

Come siamo... come saremo...


Prendo spunto da un post pubblicato sul blog di Angelo Ferillo per trascrivere, in una specie di flusso di coscienza non filtrato e non ordinato, le riflessioni che mi sono passate per la testa navigando nelle pagine dedicate alla mostra Life before death in corso fino al 18 maggio a Londra presso la Wellcome Collection. Si tratta di ritratti che l'ultrasettantenne fotografo tedesco Walter Schels ha realizzato a soggetti terminali relativamente pochi giorni prima della morte e subito dopo il decesso. Per dire un'ovvia banalità credo che non basterebbe una vita intera per affrontare le problematiche che pone una mostra di questo tipo. Il semplice fatto che l'approccio con la morte sia da sempre una argomento a dir poco inflazionato, ce lo testimoniano le numerose opere che costellano tanto la storia dell'arte quanto quella della fotografia.

Anche se hanno affrontato il tema da angolazioni completamente differenti, per associazione di idee, mi vengono in mente alcuni lavori di Andres Serrano e Peter Joel Witkin, due autori che con altrettanta forza ci hanno posto di fronte a ineluttabili e pesanti interrogativi sulla morte utilizzando lo strumento fotografico.
Credo che non occorrano particolari conoscenze per comprendere come il meccanismo primario che scatta in presenza di immagini di questo tipo sia quello dell'identificazione con il soggetto, in quanto tutti sappiamo per certo che si tratta di un destino che ci riguarda in toto, di cui semplicemente non conosceremo le modalità di realizzazione finché non ci troveremo ad affrontarle. Di sicuro operazioni come questa costringono a farsi delle domande sulla propria esistenza e proprio in questo, a mio avviso, risiede lo loro forza. Io spero che dietro tutto questo ci sia un reale percorso umano e, se mi si passa il termine da non intendersi in senso religioso, spirituale. Di fatto però non posso fare a meno di chiedermi se in realtà non ci possa esser dietro un'oculata e cinicamente spietata operazione di speculazione commerciale. Nel senso che è facile prevedere a priori che affrontare argomenti direttamente connessi alla morte e farlo in modo così poco velato, porterà a far parlare del proprio lavoro accrescendone il valore. Mi rendo conto che si tratta un mio limite personale, ma mi piacerebbe che mostre e lavori come questo nascessero da un'insopprimibile esigenza personale e non da un calcolo di profitti presunti e possibili. Di fatto in un'economia di medio e lungo termine si tratta di un ragionamento ininfluente, perché il tempo provvederà a depurare dalle scorie commerciali i lavori davvero incisivi, lasciando spazio solo a quelli portatori di un senso profondo.

Credo che la forza principale di questo lavoro di Schels possa risiedere nell'aver scelto la strada del confronto tra una dimensione che conosciamo in parte, quella della vita, e il dopo. Dico conosciamo in parte, perché se non siamo coinvolti direttamente nell'esperienza del malato terminale possiamo solo supporre cosa si provi sapendo di dover morire di qui a pochi giorni o ore. Guardando un po' di immagini devo dire che il germe del sospetto sopra adombrato tende ad accrescersi un po', perché in tutte le fotografie che ho visto compare un qualcosa di rassicurante. Premesso che altrimenti si potrebbe leggere in ciò anche una forma di profondo rispetto da parte di Schels nei confronti dei suoi soggetti, cercherò di spiegare cosa intendo. Tutti i vivi non mostrano il naturale terrore che ci si aspetterebbe in relazione alla loro condizione.

Mi viene in mente a questo proposito l'intensità dell'autoritratto che Robert Mapplethorpe realizzò nel 1988 sapendo di aver contratto una malattia incurabile o quella presente nel ritratto del padre malato di cancro fatto da Richard Avedon nel 1973 dove il terrore, la disperazione per la fine imminente sono di una umanissima, agghiacciante evidenza.

I vivi di Schels (almeno nelle immagini che ho potuto vedere) sono sereni, quasi non sembrano per nulla turbati dalla loro condizione. Nulla ci indica il loro stato iconograficamente. A dirci che sono prossimi alla morte è solo il contesto espositivo e il contenuto delle note didascaliche. I morti invece sono quasi... rassicuranti. Sembra che dormano al più e solo in pochi si notano quei tratti scavati che avvicinano la pelle al teschio annunciando quello che sarà l’esito finale della decomposizione.
Possiamo leggere tutto questo come l‘esorcizzazione del terrore dell’essere umano, incarnato dal lavoro dell’autore, nei confronti della propria fine. Ma volendo possiamo trovarci anche un tentativo un po' meschino di non turbare eccessivamente il pubblico, ponendo in essere una rappresentazione in fine dei conti rassicurante.

Chi lavora o ha avuto contatti con l’editoria del resto sa bene come tutta una serie di servizi fotografici venga rifiutata perché troppo triste. Ovviamente queste sono solo di ipotesi e non c’è pretesa alcuna di fornire verità in merito, ma solo la voglia di rifletterci su e possibilmente suscitare altre riflessioni.
Di sicuro però mi infastidiscono alcuni commenti che ho letto e postulano l’accettabilità del lavoro quando riguarda persone che hanno fatto un percorso sufficientemente lungo nella vita, mentre la mettono in discussione quando le immagini riguardano bambini piccolissimi. Nessuno evidentemente metterebbe mai in dubbio il dramma umano vissuto dai genitori, ma mi sembra che fare commenti del genere non tenga in considerazione che la vita, purtroppo, è anche questo. D'altra parte mi pare che facendo affermazioni del genere lascino solo spazio ad un buonismo d’accatto più o meno consolatorio e disarmante nella sua tautologica ovvietà. Il che ovviamente nulla toglie al fatto che se ne possa rimanere colpiti.

Per concludere credo che valga la pena di spendere due parole per l'operazione compiuta da Repubblica.it nel presentare la mostra. Il sito prevede una galleria con ben ventidue immagini, montate in dittico, per un totale di quarantadue ritratti. Ma come?, direte, ventidue per due fa quarantaquattro! In effetti se la matematica, o meglio l'aritmetica, non è cambiata da quando frequentavo l'istituzione scolastica obbligatoria, la tesi sarebbe inoppugnabile. A meno che non si preveda il consueto timor panico della stampa italiana di irritare, offendere o sconvolgere il lettore (perdendolo come conseguenza) per cui si provvede a fare in modo che la prima immagine sia un... avviso ai naviganti circa i contenuti scabrosi e in grado di urtare la nostra sensibilità. Come dire: andate avanti che qui c'è roba forte! Da notare poi che nella versione di Repubblica.it sono scomparse le didascalie che sono evidentemente parte fondante del lavoro di Schels. Per poterle leggere consiglio di collegarsi al sito del Guardian.co.uk nelle pagine dedicate alla mostra. Qui per altro non sono presenti avvisi, timorosi e benpensanti, relativi ai possibili effetti prodotti sull'incauto visitatore dalla visione delle imagini. Chissà, forse se ne sono dimenticati...
Dal mio punto di vista gli estensori del sito nostrano hanno, ancora una volta, colto al volo l'ennesima occasione per dimostrare di non capire gran che degli argomenti di cui si occupano.
Ma lasciatemi citare anche un passo dell'articolo firmato da Massimo Razzi: «Il risultato è straordinario e 50 mila persone sono state attratte dal fascino di questa mostra nella prima esposizione organizzata al Deutsches Hygiene-Museum di Dresda. Le immagini mostrano una vera folla nei lunghi saloni alle cui pareti sono appese, a due a due, le fotografie di Schels. Sono persone qualsiasi, persino famiglie con bambini, che guardano con rapita attenzione il mistero squadernato davanti ai loro occhi». La domanda che mi pongo leggendolo queste righe è: il risultato è straordinario perché cinquantamila persone sono andate a vedere al mostra, o è straordinario perché Schels è realmente riuscito a fare un ottimo lavoro? Mi auguro che Razzi intendesse il secondo significato, al di là del fatto che possa essere o meno condivisibile. In ogni caso trovo sempre intrigante l'ambiguità di certe affermazioni.

Infine mi sembra tragicamente comico l'effetto del banner pubblicitario che troneggia alternando inserzioni sulle immagini di Schels... certo ripensando all'avviso presente all'inizio della galleria e all'effeto curiosità morbosa che può scatenare mentre coccola qualche illuminata mente benpensante... beh, forse quel tragicamente comico potevo anche risparmiarmelo. Tragico sarebbe stato più che sufficiente.



La mostra
Life before death foto di Walter Schels
Wellcome Collection
183 Euston Road, Londra, NW1 2BE
Date: Fino al 18 maggio 2008
Orari: dalle 10,00 alle 18,00; giovedì dalle 10,00 alle 22,00, chiuso il lunedì
Ingresso: libero
Tel. +44(0)20-76112222
E-mail: info@wellcomecollection.org
Mappa


Dall'alto:
Peter Kelling, 64, First portrait: November 29 2003 - Second portrait: December 22 2003. Foto di Walter Schels/Wellcome Trust. Schermata dal sito di Repubblica.it.

The Morgue (Infectious Pneumonia)
, foto di Andres Serrano. Stampa cibachrome, silicone, plexiglas, 1992, Courtesy dell’artista e di Paula Cooper Gallery, New York.

Glassman, New Mexixo, 1994, foto di Peter Joel Witkin.

Rita Schoffler, 62, First portrait: February 17 2004 - Second portrait: May 10 2004. Foto di Walter Schels/Wellcome Trust. Schermata dal sito di Repubblica.it.

Selfportrait, 1988. Foto di Robert Mapplethorpe.

Ritratto del padre di Richard Avedon, 1973. Foto di Richard Avend.

Heiner Schmitz, 52, First portrait: November 19 2003 - Second portrait: December 14 2003. Foto di Walter Schels/Wellcome Trust. Schermata dal sito di Repubblica.it.

La pagina iniziale della galleria fotografica dedicata da Repubblica.it alla mostra di Walter Schels.

Il banner pubblicitario sulle pagine di Repubblica.it dedicate alla mostra di Walter Schels.



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5 commenti:

Anonimo ha detto...

Volete una verità provocatoria? Avevo immaginato lo stesso tema (e quasi il medesimo modo di realizzarlo fotograficamente)da sviluppare in una mostra, parecchi anni fa. Liberi di non credermi e passare al prossimo commento. Perchè non l'ho fatto? beh, ci sono milioni di ragioni, ma sono tutte terribilmente false. La verità è che non ne sono capace (per ora), ho lacune tecniche ed espressive troppo vaste per cimentarmici con onestà. Perchè lo dico in questo blog? perchè credo sia interessante. Credo che l'aspetto peculiare di molti lavori fotografici e di arte in genere sia che si sottopongono a talmente tante interpretazioni egualmente plausibili che spesso c'è da chiedersi: "si ma l'autore cosa voleva comunicare con questo lavoro? (ammesso che volesse comunicare qualcosa)". Iovine scrive: "Io spero che dietro tutto questo ci sia un reale percorso umano", confermando che anche in questo caso le ragioni dell’autore non sono chiaramente evidenziate. Potrà perciò sembrarle stupida vanità (spero non sia cosi) ma per dare un contributo all'infinito vortice di non risposte che questa sua speranza può soltanto generare, posso umilmente svelare cosa mi spinse anni fa alla formulazione di quelle immagini mentali mai tradotte in realtà cosicchè il mio umile esempio possa essere fonte di ragionamento altrui, e magari di una sua soddisfazione. Dunque, in fondo è molto semplice, da sempre mi sono interrogato su quale sia la differenza tra un uomo vivo e un uomo morto. Che uno è vivo e l’altro no ad esempio, dirà qualcuno. Eh già, ma le cose più ovvie nascondono spesso atroci interrogativi irrisolvibili, perlomeno per uno abituato a pensare troppo. Allora continuo a chiedermelo e cosi facendo all’infinito mi rendo conto che la verità è il silenzio. Cioè che nessuno ha la risposta, al di là dell’ovvieta di quelle più immediate e banali. Cosa cambia tra il secondo prima della morte e il secondo dopo? Ora non posso dilungarmi in pensieri assai più elaborati e noiosi ma questa candida domanda, naturalmente volutamente semplice e provocatoria, è in realtà davvero la matrice del dubbio umano e della nostra condizione. Da questo punto nascono molteplici perché, molteplici punti oscuri, ma non c’è bisogno di sezionarli e dichiararli tutti in quanto sono più zone d’ombra della coscienza piuttosto che di un pensiero riportabile in parole, tant’è che la forza di queste foto sta nel bisogno umano per eccellenza di sondare l’insondabile, comune a tutti, o quasi. A vedere la mostra ci andranno persone di tutti i tipi, culture, religioni e gusti estetici. Io non penso che ognuna di loro abbia pensato alla morte a tal punto da formulare teorie sulla stessa ma chissà come, chissà perché, tutti sono li, e guardano le foto partecipi del medesimo senso di…attrazione. D’altronde non tutto si può spiegare a parole ed è veramente illusorio pretendere di farlo, a mio avviso. Partendo da questo presupposto giungo alla visione mentale di fotografie che ritraggono persone prima e dopo la morte, supponendo peraltro che tra le due condizioni trascorra il minor tempo possibile. Proprio per questo. Per afferrare. Afferrare la verità? No, Afferrare il dubbio.
Cosa osservavano le tante persone “affascinate dal mistero” citate da Razzi? Io credo osservassero questo, osservavano il proprio dubbio nascondersi tra il bianco ed il nero di un viso ritratto, sapendo che non l’avrebbero mai svelato, sapendo che l’insondabile attrazione verso le immagini di morte si esaurisce nella speranza di cogliervi una risposta di qualche tipo con la paura sottile ma voluta, di trovarsela davanti. Per questo motivo trovo il lavoro di Walter Schels più esauriente rispetto a quello di Andres Serrano (di cui ho visto gli scatti in questione in mostra a Milano), per la presenza, a mio modo di vedere imprenscindibile, del confronto. Della contrapposizione.
Ma naturalmente anche in questo caso sarebbe interessante avere il parere degli autori stessi.

Anonimo ha detto...

Carissimo Pan, non solo sono assolutamente credibili le tue idee, ma sono anche ampiamente condivisibili.
La morte è un argomento che tocca tutti, come ha detto Iovine, e non tutti sono pronti ad affrontarlo.
Personalmente mi sono trovato davanti alla morte circa 1 anno fa, in una saletta del pronto soccorso di un ospedale, dove da poco si trovava mio padre.
Era li, "quasi dormiente" eppure poche ore, pochi minuti prima, era "quasi dormiente e respirante".
Di sicuro non mi preoccupavo di documentare quell'istante fondamentale della vita, ma per la prima volta mi trovavo a viverlo di persona.
Niente è stato uguale dopo.
Il progetto fotografico che ne è seguito (scusate, ma non concepisco la mia vita senza la fotografia) è partito proprio da quell'istante... dal passo che ci separa tra l'essere e il non essere ... lasciando chi resta nell'incombenza di ricordare chi non c'è più.
Autori come Witkin (che ammiro da secoli) forse cercano anche l'appagamento estetico (e probabilmente commerciale), ma comunque sono mossi nella loro opera da considerazioni analoghe alle mie (e a quelle di Pan).
Forse la morte ci affascina proprio per quest'ambiguo aspetto e la sua rappresentazione fotografica, o addirittura solo la sua interpretazione, giustifica ampiamente l'abuso ti tante immagini che fanno leva proprio su queste ineluttabili considerazioni.
Credo che la nostra voglia di demonizzare, e quindi sfuggire, questa realtà, ci spinga a sbirciare attraverso le fessure che certi autori sono riusciti a creare nella pacata realtà quotidiana.
Ciò che vediamo, ad ogni modo, è solo l'interpretazione che questi autori hanno voluto dare alla loro visione.
La realtà sarà sempre un freddo viso di papà, disteso tra le verdi tende di un pronto soccorso, la mattina del primo novembre ... giorno dei morti.

ezio turus

Anonimo ha detto...

Mi piacerebbe poter leggere le didascalie e le date di tutte le foto... Vedendo le espressioni di pace mi vien da pensare che il fotografo, ultra settantenne, abbia trovato la motivazione nel cercare una rassicurazione personale. Non credo che all'età di 70 anni uno si metta in testa di fare qualcosa di commerciale per guadagnare soldi, l'avesse fatto a 30 40 anni magari avrei potuto crederlo più facilmente. Però arrivati a quella età il pensiero della morte o della vita che sta per terminare, magari diventa più presente. Onestamente non conoscevo Walter Schels, magari leggendo la sua biografia e gli altri lavori si potrebbe capire di più sulle motivazioni che l'hanno spinto ad affrontare questo argomento in questo modo. E, forse ancora, il successo riportato dipende dal fatto che anche le persone che hanno visto la mostra in qualche modo abbiano trovato nelle espressioni dei volti ritratti un senso di sollievo. Anche se sono certo che la maggior parte della gente sia andata a vederle per altre motivazioni.
Nigula

:: haku :: ha detto...

Per chi non abbia trovato come leggere le "didascalie" da pagina 7 di questo pdf si possono trovare completi questi brevi scritti di Lakotta, ma anche le date degli scatti che compongono ogni dittico, sebbene già fosse possibile dal link del the guardian segnalato da Sandro Iovine nel post.

Non sono informata se in Italia esista un Museo della Salute o una Collezione in cui vengano esposti materiali e lavori inerenti studi di medicina e studi scientifici relativi alla condizione della salute. Mi pare però che sia interessante notare come sia in Germania (a Dresda) sia nel Regno Unito l'esposizione abbia sede in questo tipo di strutture. La Wellcome Collection | Medicine | Life | Art, che comprende oltre ad aspetti inevitabilmente commerciali una libreria di testi di medicina dai tempi degli Egizi ad oggi. Secondo quanto dichiarato la Collezione: «It brings to life Sir Henry Wellcome's vision of a place where people could learn more about the development of medicine through the ages and across cultures».
Se questo lavoro rimanesse entro queste strutture mi pare potrebbe anche mantenere e giustificare il suo intento, che per la mia povera preparazione e per la sensazione che mi trasmette, trovo perfettamente allineato con la irriducibile tendenza alla catalogazione che incontriamo nei lavori non solo fotografici di ambito teutonico. (Diverso sarà se questo lavoro entrerà in gallerie d'arte. Molto diverso.)
L'idea stessa del dittico credo in questo caso entri prepotentemente nel genere della catalogazione: assume almeno formalmente una portata dimostrativa dell'"accompagnamento" del malato. Negli impeccabili scatti di Schels trovo poca pietas ma molto senso della catalogazione, appunto.
Una forma di razionalizzante distanza, che personalmente non trovai in The Morgue di Serrano, lavoro certamente discutibile per molti e svariati motivi, ma semmai responsabile di seduzione estetica... se qualcuno riesca a trovare estetizzanti particolari di corpi umani sottoposti ad autopsia...
Una seduzione estetizzante con giustificazioni culturali ed intellettuali trovo invece ben clamorosa in Witkin, che esibisce teatri macabri di straordinaria potenza, di impeccabile tecnica, che però lasciano un senso di eccitazione lugubremente incerto. Personalmente trovo la forza di Witkin risieda altrove, nella provocazione per l'ostentazione di concentrati di "inaccettabilità" sociale e culturale, montati in una "forma" che invece rientra precisamente nei canoni di una tradizione.
Tra tutti trovo, almeno per la mia sensibilità personale, che coloro che si avvicinano ai morti con spietata umanità dichiarando il disagio, il dubbio e LA domanda alla morte stessa, siano Serrano e Avedon in modi e momenti diversi, e soprattutto con soggetti agli antipodi per coinvolgimento emotivo dell'autore. E proprio per questo trovo anche che Avedon sia qui, come Mappelthorpe, in una posizione totalmente differente da quella degli altri fotografi citati. Dolorosamente "privilegiata" per il coinvolgimento personale che provoca la proiezione dell'esperienza diretta sul fotogramma. In un caso con la creazione di una struttura simbolizzante, nell'altro con la spoliazione da... tutto tranne che dall'incisione dalla morsura del dolore della malattia definitiva.
Ma è davvero difficile scrivere di queste cose che suscitano certamente ricordi ed esperienze personali molto diversi per ognuno di noi...

Anonimo ha detto...

Prima della visione delle immagini la mia sensazione e' stata quasi di fastidio. Scorrendo le immagini una ad una, scrutando le rughe, gli occhi, le forme del volto, i capelli, alla ricerca di una traccia della morte, di questa entita' cosi' potente e sconosciuta, forse per esperirla, per essere pronta a riconoscerla nel momento in cui si presentera', sono rimasta delusa... Non c'e' niente di terribile, niente di ineluttabile nelle foto post mortem. I visi tesi, stanchi i cui muscoli sono quasi spasimanti nel sostenere la vita, dopo morti sono sereni, tranquilli, deposti. Un messaggio positivo? Chissa'.
Il ritratto di Mapplethorpe, uno dei miei ritratti preferiti, in cui non ci si arrende a questa "signora", ma la si sfida, non contiene in se' quello che c'e' nei ritratti di Schels, solo perche' il percorso non e' compiuto: e' il ritratto di un vivo, con la vita che caparbiamente e in modo affaticato sostiene nervi, muscoli e spinge il sangue.

Per Haku: a Torino dovrebbe esserci qualcosa di simile al Museo della salute a Torino, alMuseo di Anatomia.