Lo so il paragone è blasfemo, delirante e provocatorio, ma a volte ho la sensazione che certe grandi manifestazioni territorio di comune conoscenza da parte di un pubblico esteso, finiscano più o meno tutte per essere soggette a quella che definirei la sindrome di Sanremo. Quella per cui una canzone vince, ma è regolarmente un'altra a scalare le classifiche di vendita. Quest’anno mi pare sia toccata al World Press Photo, almeno a quanto è dato di giudicare facendo un giro nella vox populi espressa dalla rete. Chi si occupa delle immagini di Pellegrin, chi si lamenta che il fotogiornalismo si interessa solo alle tragedie dell'umanità perché morti e disgrazie fanno share come direbbero in televisione, chi ancora si fa ammaliare dall'estetica delle immagini sportive del nostro Max Rossi ai Mondiali di ginnastica in Danimarca. Ma pochi si chiedono, o perlomeno non lo manifestano, se abbia ancora senso parlare di fotogiornalismo, quando un riferimento internazionale come il World Press Photo, propone dei modelli che, volenti o nolenti, finiranno per diventare una sotterranea linea guida del lavoro fotogiornalistico internazionale. La fotografia premiata come fotografia dell'anno poi sembra abbastanza trascurata da tutti. Perché? Forse perché non ci sono morti squartati per utilizzare l'espressione usata come chiave di ricerca da qualcuno per raggiungere questo blog? Non ho risposte ovviamente, mi limito a fare solo alcune considerazioni partendo da alcune affermazioni riportate da Elvira Serra in un articolo pubblicato su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2007. Nell'articolo l'attenzione per l'immagine di Spencer Platt viene liquidata da Oliviero Toscani con la seguente considerazione «La foto che ha vinto è riuscita bene, in un secondo aggancia la coscienza di chi la guarda. Però sarebbe stata premiata se su quella vettura non ci fossero state quattro belle ragazze, se quell'auto non fosse stata di un rosso così intenso, se l'insieme non avesse avuto un particolare senso estetico?». A parte che sarebbe facile ironizzare sulla tautologia iniziale: possiamo dir tutto del World Press Photo e della sua giuria, ma spero che almeno siano in grado di riconoscere un’immagine riuscita bene. Interessante poi che poco prima nell'articolo venisse riportata l'opinione del presidente della giuria del World Press Photo Michel McNally «Non ci si stanca mai di guardarla, contiene le complessità e le contraddizioni della vita vera in mezzo al caos». Un'affermazione sicuramente Cicero pro domo sua che difende le scelte fatte, ma almeno introduce ad una chiave di lettura meno qualunquista, forzata e dalla rilevanza discutibile.
La forza di questa immagine sta a mio avviso proprio nella capacità di mettere in immediata relazione l'aspetto surreale dell'atteggiamento dei giovani il cui aspetto suggerisce uno status decisamente agiato, in cui la cura del vestire che si risolve poi nell'elegante se pur sobria bellezza delle fanciulle e la fantomatica auto di un rosso così intenso costituiscono l'indispensabile elemento di contrasto per dare un senso all'intera immagine. Il senso di normalità dei gesti e degli atteggiamenti che ci rimandano a un clima da gita spensierata e l'inquadratura sobria e priva di accenti e forzature, inducono a una tranquillità che vacilla non appena l'occhio si sposta sullo sfondo di macerie. Colpisce nel complesso il senso di naturale indifferenza verso tanta devastazione da parte dei personaggi che passano in secondo piano. Mentre per le giovani in macchina il tutto si riduce a un'attrazione turistica da riprendere con il telefonino.
Condivido quanto dice McNally quando afferma che non ci si stanca di guardare un'immagine come questa che presenta senza urlare, quasi in punta di piedi la molteplicità di approccio dell'essere umano ai fatti della vita. Credo però che un'immagine del genere abbia bisogno di un po' di tempo per essere metabolizzata, in quanto non è costruita solo per stupire e sconvolgere al primo sguardo, ma anche per far pensare, per quanto sia facile intuire il non poco mestiere messo in gioco dal fotografo.
Interessante entrare poi nell'immagine e scoprire nel riflesso sugli occhiali della ragazza seduta a fianco del guidatore, una specularità imbarazzante con quanto mostrato sullo sfondo: macerie dietro e macerie davanti agli occhi degli osservatori. Ma macerie anche davanti e dietro agli occhi delle giovani di quella che possiamo presumere essere la Beirut bene. E questo naturalmente sottolinea la sensazione di indifferenza dei giovani che si ha quasi la sensazione si aggirino tra i set di un reality show.
Soprattutto la ragazza intenta a riprendere la scena davanti ai suoi occhi con il cellulare, colpisce per la tensione espressa dal volto che non pare tanto provocata dal contenuto della scena, quanto piuttosto dalla difficoltà della ripresa da mostrare in un secondo momento agli amici. Imbarazza comunque la si voglia leggere questa visione. Se da una parte infatti possiamo intuire all'interno di questa scena l'indifferenza e la scarsa capacità di distinguere il reale dalla finzione, dall'altra possiamo anche vedere a quale incredibile livello di assuefazione possa essere indotto l'essere umano dalle difficoltà dell'ambiente in cui vive. Considerazione davvero non meno drammatica, anzi...
Sinceramente però la mia tendenza è quella di aderire alla prima delle due letture citate in quanto mi sembra sottolineata dall'ostentazione di benessere implicita sia nel mezzo di trasporto sia nell'estrema cura dell'abbigliamento dei singoli personaggi raffigurati. Una cura e una precisione/perfezione che mal si accompagna con lo scenario di devastazione presente sullo sfondo e nel riflesso. E come se ancora una volta si volesse sottolineare che quei giovani non sono toccati dalla tragedia in corso. Qualcuno ha voluto poi leggere nel particolare della ragazza con il volto coperto da un fazzoletto la volontà di proteggersi dal cattivo odore. Impossibile dire qualcosa di definitivo nonessendo stati presenti sul luogo dello scatto al momento dello stesso, ma osservando il gesto mi sembra più probabile che la ragazza si stia semplicemente soffianco il naso. Un gesto di quotidianità che ancora una volta evidenzia la surrealtà della situazione.
Senza nulla togliere al buon lavoro di Spencer Platt, non riesco però a non farmi tornare in mente una fotografia di qualche anno fa scattata da Lauren Greenfield nell'ambito di un lavoro sulle influenze dei modelli holywoodiani sulla gioventù di Los Angeles. La struttura iconografica è soprendentemente simile: primo piano con bella gioventù agiata in macchina ripresa leggermente dall'alto. Sullo sfondo un'altra auto non proprio con l'aspetto dell'utilitaria, rosso fiammante, con buona pace di Oliviero Toscani, sostituisce le macerie, ma sottolinea una comunicazione fatiscente tra i due gruppi di giovani edonisti.
Ma andiamo ancora un pochino indietro. Siamo negli anni sessanta, nel 1964 per la precisione, René Burri racconta la Germania. In primo piano ancora giovani di buona famiglia, l'inquadratura è scesa, pur restando ad un'altezza superiore a quella dei soggetti, e non è più forzata dall'alto come nel caso della Greenfield, sullo sfondo Berlino Est e i suoi palazzi in costruzione. Volendo ben vedere simbolo di una devastazione moralmente non inferiore a quella fisica e reale di Beirut. L'ingresso da destra dell'auto rende il tutto inquietante.
Di fatto per una catena di associazioni mentali sulla forma dell'immagine, dalla fotografia della Greenfield, sono passato a quella di Burri e ora non riesco a non citare un'immagine di Robert Frank scattata tra il 1955 e il 1956 nei pressi di Detroit nell'ambito del celeberrimo The Americans. Ancora una volta un'auto cabriolet con giovani (e non solo) a bordo. Il senso dell'immagine inserita in tutt'altro contesto di ricerca è differente, ma è difficile pensare che la catena di suggestioni visive che ha coinvolto sia la Greenfield sia Platt non veda tra i suoi anelli anche questa storica immagine.
Se poi vogliamo divertirci ad andare ancora più indietro cambiando totalmente genere fotografico e procedendo per pure associazioni di forma possiamo ritrovare embrioni degli scatti precedenti in un'immagine realizzata tra il 1934 e il 1935 da Robert Doisneau allora fotografo della Renault, un impiego di durata relativamente breve grazie alle intemperanze caratteriali e l'insofferenza al rispetto di certi dettami disciplinari di quel grande e ironico narratore dell'anima di Parigi. Siamo in un altro contesto e in un'altra epoca. L'immagine ha destinazione commerciale e non si propone di raccontare nulla che non sia la creazione di un'immagine positiva e piacevole di un'autovettura. Per questo vengono impiegati degli stilemi che rimarranno: la ripresa dall'alto, il senso di marcia rassicurante da sinistra verso destra, la sensazione di libertà da vento nei capelli.
La forza di questa immagine sta a mio avviso proprio nella capacità di mettere in immediata relazione l'aspetto surreale dell'atteggiamento dei giovani il cui aspetto suggerisce uno status decisamente agiato, in cui la cura del vestire che si risolve poi nell'elegante se pur sobria bellezza delle fanciulle e la fantomatica auto di un rosso così intenso costituiscono l'indispensabile elemento di contrasto per dare un senso all'intera immagine. Il senso di normalità dei gesti e degli atteggiamenti che ci rimandano a un clima da gita spensierata e l'inquadratura sobria e priva di accenti e forzature, inducono a una tranquillità che vacilla non appena l'occhio si sposta sullo sfondo di macerie. Colpisce nel complesso il senso di naturale indifferenza verso tanta devastazione da parte dei personaggi che passano in secondo piano. Mentre per le giovani in macchina il tutto si riduce a un'attrazione turistica da riprendere con il telefonino.
Condivido quanto dice McNally quando afferma che non ci si stanca di guardare un'immagine come questa che presenta senza urlare, quasi in punta di piedi la molteplicità di approccio dell'essere umano ai fatti della vita. Credo però che un'immagine del genere abbia bisogno di un po' di tempo per essere metabolizzata, in quanto non è costruita solo per stupire e sconvolgere al primo sguardo, ma anche per far pensare, per quanto sia facile intuire il non poco mestiere messo in gioco dal fotografo.
Interessante entrare poi nell'immagine e scoprire nel riflesso sugli occhiali della ragazza seduta a fianco del guidatore, una specularità imbarazzante con quanto mostrato sullo sfondo: macerie dietro e macerie davanti agli occhi degli osservatori. Ma macerie anche davanti e dietro agli occhi delle giovani di quella che possiamo presumere essere la Beirut bene. E questo naturalmente sottolinea la sensazione di indifferenza dei giovani che si ha quasi la sensazione si aggirino tra i set di un reality show.
Soprattutto la ragazza intenta a riprendere la scena davanti ai suoi occhi con il cellulare, colpisce per la tensione espressa dal volto che non pare tanto provocata dal contenuto della scena, quanto piuttosto dalla difficoltà della ripresa da mostrare in un secondo momento agli amici. Imbarazza comunque la si voglia leggere questa visione. Se da una parte infatti possiamo intuire all'interno di questa scena l'indifferenza e la scarsa capacità di distinguere il reale dalla finzione, dall'altra possiamo anche vedere a quale incredibile livello di assuefazione possa essere indotto l'essere umano dalle difficoltà dell'ambiente in cui vive. Considerazione davvero non meno drammatica, anzi...
Sinceramente però la mia tendenza è quella di aderire alla prima delle due letture citate in quanto mi sembra sottolineata dall'ostentazione di benessere implicita sia nel mezzo di trasporto sia nell'estrema cura dell'abbigliamento dei singoli personaggi raffigurati. Una cura e una precisione/perfezione che mal si accompagna con lo scenario di devastazione presente sullo sfondo e nel riflesso. E come se ancora una volta si volesse sottolineare che quei giovani non sono toccati dalla tragedia in corso. Qualcuno ha voluto poi leggere nel particolare della ragazza con il volto coperto da un fazzoletto la volontà di proteggersi dal cattivo odore. Impossibile dire qualcosa di definitivo nonessendo stati presenti sul luogo dello scatto al momento dello stesso, ma osservando il gesto mi sembra più probabile che la ragazza si stia semplicemente soffianco il naso. Un gesto di quotidianità che ancora una volta evidenzia la surrealtà della situazione.
Senza nulla togliere al buon lavoro di Spencer Platt, non riesco però a non farmi tornare in mente una fotografia di qualche anno fa scattata da Lauren Greenfield nell'ambito di un lavoro sulle influenze dei modelli holywoodiani sulla gioventù di Los Angeles. La struttura iconografica è soprendentemente simile: primo piano con bella gioventù agiata in macchina ripresa leggermente dall'alto. Sullo sfondo un'altra auto non proprio con l'aspetto dell'utilitaria, rosso fiammante, con buona pace di Oliviero Toscani, sostituisce le macerie, ma sottolinea una comunicazione fatiscente tra i due gruppi di giovani edonisti.
Ma andiamo ancora un pochino indietro. Siamo negli anni sessanta, nel 1964 per la precisione, René Burri racconta la Germania. In primo piano ancora giovani di buona famiglia, l'inquadratura è scesa, pur restando ad un'altezza superiore a quella dei soggetti, e non è più forzata dall'alto come nel caso della Greenfield, sullo sfondo Berlino Est e i suoi palazzi in costruzione. Volendo ben vedere simbolo di una devastazione moralmente non inferiore a quella fisica e reale di Beirut. L'ingresso da destra dell'auto rende il tutto inquietante.
Di fatto per una catena di associazioni mentali sulla forma dell'immagine, dalla fotografia della Greenfield, sono passato a quella di Burri e ora non riesco a non citare un'immagine di Robert Frank scattata tra il 1955 e il 1956 nei pressi di Detroit nell'ambito del celeberrimo The Americans. Ancora una volta un'auto cabriolet con giovani (e non solo) a bordo. Il senso dell'immagine inserita in tutt'altro contesto di ricerca è differente, ma è difficile pensare che la catena di suggestioni visive che ha coinvolto sia la Greenfield sia Platt non veda tra i suoi anelli anche questa storica immagine.
Se poi vogliamo divertirci ad andare ancora più indietro cambiando totalmente genere fotografico e procedendo per pure associazioni di forma possiamo ritrovare embrioni degli scatti precedenti in un'immagine realizzata tra il 1934 e il 1935 da Robert Doisneau allora fotografo della Renault, un impiego di durata relativamente breve grazie alle intemperanze caratteriali e l'insofferenza al rispetto di certi dettami disciplinari di quel grande e ironico narratore dell'anima di Parigi. Siamo in un altro contesto e in un'altra epoca. L'immagine ha destinazione commerciale e non si propone di raccontare nulla che non sia la creazione di un'immagine positiva e piacevole di un'autovettura. Per questo vengono impiegati degli stilemi che rimarranno: la ripresa dall'alto, il senso di marcia rassicurante da sinistra verso destra, la sensazione di libertà da vento nei capelli.
Un ultimo volo pindarico per arrivare ad André Kertész, ancora una rappresentazione tra l'illustrativo e il pubblicitario per una copertina di Vu del 1928. Qualcosa in embrione rispetto all'immagine rielaborata qualche anno dopo da Doisneau in altro ambito, c'è già.
In conclusione tutto questo discorso se rifatto al contrario segna una serie di passaggi, sicuramente arbitrari, incompleti e senza pretesa alcuna di scientificità, che ci permettono di farci un'idea di come alcuni schemi si siano sviluppati seguendo differenti esigenze interpretative e narrative per arrivare fino alla fotografia di Spencer Platt, che è sicuramente di grande interesse fotogiornalistico, ma altrettanto certamente deve molto ad illustri precedenti più o meno consapevolmente.
Ringrazio per la collaborazione Porzia Ballotta, Stefania Biamonti e Laura Marcolini.
Dall'alto verso il basso:
Young Lebanese drive through devastated neighborhood of South Beirut, 15 August foto di Spencer Platt, USA, Getty Images, 2006, World Press Photo of the Year 2006.
Young Lebanese drive through devastated neighborhood of South Beirut, 15 August (particolare) foto di Spencer Platt, USA, Getty Images, 2006, World Press Photo of the Year 2006.
Young Lebanese drive through devastated neighborhood of South Beirut, 15 August (particolare) foto di Spencer Platt, USA, Getty Images, 2006, World Press Photo of the Year 2006.
Young Lebanese drive through devastated neighborhood of South Beirut, 15 August (particolare) foto di Spencer Platt, USA, Getty Images, 2006, World Press Photo of the Year 2006.
Mijanou and friends from Beverly Hills High School spending their Senior Beach Day at Will Rogers State Beach in Los Angeles. Mijanou won the title of 'best physique' at Beverly Hills High foto di Laurev Greenfiled, USA, Seven.
Westdeutsche Besucher in der Stalinallee, Berlin/Ost, foto di René Burri/Magnum, 1964.
Belle Isle, Detroit foto di Robert Frank, 1955-56.
23-PS Sechszylinder Cabriolet Vivasport foto di Robert Doisneau, 1934 (1935).
Vu copertina del numero speciale per il Salone dell'Automobile, 3 ottobre 1928, foto di André Kertész.
Fast Forward: Growing Up in the Shadow of Hollywood
di Lauren Greenfield
Bargain - Paperback
Bargain - Paperback
Die Deutschen Photographien
di René Burri
Schirmer/Mosel
Schirmer/Mosel
The Americans
di Robert Frank
Scalo
Scalo
Renault, Die Dreißiger Jahre
di Robert Doisneau
Nishen
Nishen
Un autoritratto: André Kertész
con un saggio di Carlo Bertelli
Art&
Art&
24 commenti:
Ahhh...( pronunziato in tono acuto, prolungato e quasi cantilenante, come a dire : lo vedete? ora ci siamo, pane per i dentini non ci manca)
Complimenti capopifferaio Iovine, la classe non e' acqua!
e ora come facciamo a piagnucolare e lamentarci? manca la materia del contendere, ma noi simpatici eroi troveremo come eviscerare la TEORIA e la FILOSOFIA dalle budella delle foto. lamentandoci e indignandoci di qualcosa.
C'e' invece veramente di che lamentarsi, io della mia scarsa cultura fotografica, che mi impedisce questi bei voli pindarici assolutamente stimolanti.
era quello che cercavo.
C'e' da studiare tante cose, per es. l'influenza dell'immaginario personale ( i lavori degli altri fotografi, che, conosciuti per lavoro, per studio, per passione, sono incosciamente nei nostri occhi e nella nostra testa) al momento di uno scatto.
grazie, vado a zufolare contento.
calogero
Guardando questa immagine non posso che trovare delle analogie con quello che quotidianamente e più volte al giorno capita anche nelle nostre case, sicuramente nella mia. Siamo continuamente esposti a immagini che parlano di devastazione, morte e atrocità che si accompagnano ai nostri pranzi e cene, mentre parliamo di come sia andata la giornata scolastica di nostro figlio o se si sia pagata l'ultima bolletta in scadenza. Non mi sono visto molto differente da quei giovani che attraversano distratti una città in macerie.
Non mi sorprendo quando mio figlio mentre sta imviando l'ennesimo messaggino mi invita più o meno gentilmente a "girare" su MTV per ascoltare i suoi rappers preferiti.
Mi sembra di essere anestetizzato a immagini anche atroci che passano di volta in volta sugli schermi. Ma la cosa che mi turba maggiormente è quella di non capire come queste immagini attraversino gli occhi e la mente di un giovane sedicenne come mio figlio. Molto probabilmente con la stessa apparente indifferenza con la quale i giovani dell'auto attraversano quella strada, spettatori estranei
di una realtà che non li riguarda. Dal mio punto di vista la forza di questa immagine sta nel farci da specchio, tranquilli e rassicurati dal fatto di essere solo spettatori di qualche cosa che non ci capiterà mai e che con la sola pressione di un tasto possiamo far non esistere, sintonizzandoci sulle onde video di MTV... quando va bene.
per cortesia, perdonatemi la domanda, ma è da oggi che ci penso.
per quale regola sono considerate più accettabili le foto in cui l'auto si muove da sinistra verso destra e non viceversa? (mi sono resa conto che al mio occhio è più gradito il movimento nella foto di Berlino, mentre le altre mi disturbano proprio per la direzione; perchè non riconosco quella che pare una convenzione accettata?).
In linea di massima movimenti o vettori orientati da sinistra verso destra vengono percepiti come naturali in quanto assecondano il normale senso di lettura, all’interno di ambienti culturali caratterizzati da sistemi di scrittura il cui orientamento sia appunto sinistra-destra, . Contrariamente quanto arriva da destra tende ad essere percepito in modo meno rassicurante, poiché si oppone alle abitudini di lettura. Ovviamente in base a questa teoria, culture che hanno scritture che si sviluppano in senso contrario, come l’arabo o il giapponese in una delle sue possibili modalità di scrittura, tendono a percepire la direzione del movimento insenso contrario. Esiste poi una seconda teoria che si fonda sul concetto di lateralizzazione. All’interno di questa ipotesi ci sono sostenitori della tesi che la direzione di lettura sarebbe conseguenza del predominio dell'emisfero cerebrale sinistro, responsabile del linguaggio verbale. Altri studiosi sembrano invece orientati a ricondurre tutto alla specializzazione visiva dell'emisfero destro. Osservazioni sulla direzione di lettura privilegiata nelle immagini sono stati fatti da Arheim, Wölfflin e Kandinsky e sono interessanti anche le osservazioni di Hochberg sulla visione.
In ogni caso non si parlava affatto di accettabilità quanto piuttosto delle sensazioni che possono derivare ad un'osservatore in rapporto alla direzione del movimento nelle immagini.
Guardando la foto di cui sopra mi viene da chiedermi: -che non possa essere un primo passaggio dalle solite foto con morti ammazzati a uno sguardo più critico su noi stessi e sulla nostra società??!- Dopotutto anche se non ci sono cadaveri sventrati riversi a terra, comunque sullo sfondo abbiamo un bel cumulo di macerie e una "località di guerra" (quindi una continuità con la classica foto di guerra c'è), mentre guardando il primo piano non si può non accorgersi di quanto ormai noi occidentali (e nel termine comprendo anche quelli che occidentali non sono, ma occidentalizzati si)riusciamo a rimanere indifferenti a ciò che ci circonda, che sia a migliaia di km, o semplicemente alle nostre spalle (discorso che più o meno già è stato fatto da Martin Parr in alcune immagini di "The last resort" vedi famigliole contente su spiaggie discarica). Comunque chissà che in futuro non possa diventare realtà vedere vincere il wwp sia le vecchie care foto di guerra, sempre utili a ricordarci la piccolezza del genere umano, ma anche qualche foto che sia una visione un po' più approfondita e critica di noi stessi!
non lo so anchio sono abbstanza soddisfatto che il primo premio sia andato quella foto però è basstanza assurdo che in altre sezioni abbiano vinto foto come questa:
http://www.worldpressphoto.org/index.php?option=com_photogallery&task=view&id=831&Itemid=146&bandwidth=high
cioè questa è pura violenza gratuita a mio parere.grazie. allora chiunque ha la "fortuna" di fotografare un esecuzione rischia di vincere un premio prestigioso? io qua ci vedo solo la speculazione sulla morte di una persona ma in se la foto non mi dice nulla di nuovo...già lo so che in guerra muiono delle persone me lo dicono tutti i giorni in tv, non ho bisogno di vederlo credo.
Sono d'accordo, e tra l'altro anche fotograficamente mi sembra che non si vada molto più in là della semplice cronaca. Miente che mi faccia pensare ad una riflessione particolarmente interessante. Quello che mi viene da pensare invece è: siamo sicuri che questa esecuzione sommaria non sia avenuta magari proprio perché c'era lì un fotografo pronto ad immortalare e a dare risalto alla situazione??
non lo so aldo ma è possibile...renderebbe tutto ancora più squallido.però questo nn possiamo saperlo quindi mi fermo a cioò che vedo.
per quanto riguarda la qualità della foto sono d'accordo. non ha nessun segno stilistico particolare il che fa capire ancora di più che l'unico motivo per cui è stata premiata è per l'azione dell'esecuzione fine a se stessa
Certo ci sono tanti aspetti da considerare, tanti spunti di riflessione su cui esercitare ogni possibile critica costruttiva.
La bellezza e l’ utilita’ della rete consistono nella possibilita’ di vedere come fotografano gli altri ( i grandi e i meno grandi) in un unico grande quadro di insieme, senza necessita’ di possedere e sfogliare libri e riviste.
Attivando il link del WPP c’e’ l’elenco di tutti i vincitori a partire dal 1955.
E’ una carrellata istruttiva sull’orientamento del gusto, diverso nel tempo, sia del pubblico che di fotogiornalisti e giurie.
Volendo tuffarmi in una specie di disamina fatta alla luce del senno di poi, noto che, nei primi anni dall’istituzione del premio, veniva premiata la spettacolarita’ ( 1955 – 1958 ), segno della volonta’, forse, di dimenticare la tragedia della wwII ; e la cronaca ( foto fino al ’60 ) relativa ai problemi sociali e politici che ancora bollivano in pentola . In particolare, le foto premiate nel ’56 – ’57 – ’60 parlavano poco da sole, perche’ dobbiamo considerarle inserite in un contesto storico contingente che veniva illustrato e spiegato sui giornali dell’epoca : il dramma dei prigionieri tedeschi di ritorno dalla Russia o le discriminazioni razziali erano problemi che necessitavano di un racconto con le parole, oltre che con le immagini, per sollecitare l’opinione pubblica alla solidarieta’ o allo sdegno partecipe.
Con la foto del 1962 inizia secondo me una svolta, parallela all’escalation della violenza nel mondo, ancora non soddisfatto degli olocausti precedenti a causa di focolai mai sopiti.
Se colpisce proprio questa del ’62, per la forza espressiva che ci fa capire il rischio affrontato dagli attori della scena ( il fotografo, il prete e il soldato ferito, contemporaneamente esposti alle schegge e ai proiettili ) , ecco che con quella del 1963 inizia il raccapriccio, non fine a se stesso pero' perche’ era importante in quei giorni testimoniare come fosse calpestata la liberta’ di religione in quei posti.
Solo una cosa mi indigna, che sia stata tramandata la notazione che l’autore consumo’ 4 rulli per fotografare il monaco, praticamente non contento fin quando non lo vide ridotto a mucchietto di cenere : se non avete mai sentito la puzza di carne umana bruciata vi consiglio di neanche pensarci.
Stesse considerazioni faccio per la foto del 1966 : certe atrocita’ vanno documentate perche’ si sollevi un problema, perche’ si tocchi con mano il grado di degenerazione cui possiamo arrivare noi uomini. Interessante l’about di questa immagine.
Quella del 1965 mi fa imbestialire : andrei a cercare Sawada se e’ ancora vivo per rompergli il naso : dico, sei a un passo da quei disgraziati, e allora tendi una mano, invece di aspettare di intercettarne lo sguardo per scattare! Mi ricorda il video amatoriale che ritrae le due bambine sulla spiaggia, ignare dell’onda di tsunami che le sta per raggiungere, e quello scemo mentecatto invece di farle correre continua a riprendere la scena, vi ricordate? Era su tutti i tg.
L’esecuzione premiata nel 1968 potrebbe associarsi a quella vincitrice il 3° posto quest’anno nella sezione Spot News. C’e’ una differenza pero’, allora eravamo nel fabulous ’68, c’era la presa di coscienza dei giovani di tutto il mondo, c’erano i Beatles e i Rolling, c’era fatelamorenonfatela guerra, c’erano i figli dei fiori e le divise militari indossate per esorcizzare la guerra e l’incertezza dell’oggi e del domani : c’era una storia lontano dall’occidente che bisognava far conoscere.
Ma il raffronto con l’odierna, premiata, esecuzione voglio farlo dopo, riflettendoci assieme a voi.
Quelle del 1971, ’73, ’75 , ’76, ’77, ’78, ‘81 come quella del 1960, sono foto di “banale” cronaca,’ importante era la notizia
ad esse relativa, piuttosto che la foto: l’unico merito dell’autore senza dubbio era quello di trovarsi al momento giusto in condizioni di scattare. In ’77 e ’78 c’e’ un potenziamento del messaggio-documento tramite il segno grafico, il taglio dell’inquadratura, la composizione,la scelta del momento di scatto.
La ’72 e’ densa di umanita’, fa partecipare e soffrire perche’ vediamo bambini, atterriti senza sapere perche’ , e poi mi piace il fatto che l’autore se li sia portati in salvo ( vedi about ).
Sentimentalismo? Sicuramente si’ di fronte a tali immagini, pero’ io penso che siamo sempre pronti a bistrattare il fotogiornalista di turno perche’ rischia per ambizione, (certo chi non sarebbe contento di fare la foto dell’anno); pero’ e’ gente che continuamente sta a contatto con la violenza e la morte, le sofferenze e i soprusi, e sono sicuro che a questo mestiere non si fa il callo tanto facilmente, lo so perche’ nel mio mestiere, sicuramente non rischioso per la vita come in quello, ma per altri fatti, anche l’assuefazione e il cinismo non impediscono di portarsi a casa immagini che non fanno bene alla salute. E allora in una foto scattata in situazioni critiche di sofferenza e di guerra, non solo questa che colpisce subito e “prende” dentro, pensiamo , dobbiamo pensare alle reazioni del fotografo, che vuole documentare, interpretare, riuscire a sintetizzare quello che vede e quel che sente nell’anima, portandosi non necessariamente come trofeo l’immagine che e’ la materializzazione di quel vedere, in quel momento, in quel posto ( hic et nunc? ), e di quel sentire.
Per questo - faccio una digressione dall’ excursus che mi ha preso la mano - foto prese nell’ambito di teatri drammatici sono sicuramente sminuite dall’esposizione come riempimento delle colonne di giornale, o in tv. Vorrei che si potessero gustare-esaminare-penetrare in un contesto che tenesse conto della situazione spaziotemporale in cui sono nate, possibilmente con il corredo di tutti gli scatti scartati ( ma chi e’ che fa vedere i propri scarti! ), ma sicuramente accompagnate da tutte le immagini della sequenza portata a casa dopo l’avventura. Come del resto vediamo su WPP relativamente alle sezioni Stories, General news e People in the news.
Con la foto vincitrice nel 1974 sale alla ribalta il tema della fame nel mondo e del sottosviluppo, e , nonostante la tragedia conti un numero di vittime non inferiore alla guerra, la fotografia sembra orientarsi verso un atteggiamento intimista, il segno da pugnonellocchio diventa simbolo, icona.
Altrettanto penso della ’79 e ’80 : la prima essenziale, testimone della sintesi precisa di occhio cuore e mente che piaceva a HCB, finalmente a colori, senza vergogna dell’uso del colore, in un mondo, professionale ed amatoriale, che ritiene da sempre il colore banale e dilettantesco.
Nelle ’82, ’83, ’84 e ’85 c’e’, come mi sembra, il trionfo della morbosita’ dello sguardo: Perche’ furono premiate? Quali foto concorrevano in quegli anni? Il gusto cominciava a deteriorarsi, il “messaggio” truculento serviva a tenere deste le coscienze, oppure cominciava ad anestetizzarle, assuefarle a certi spettacoli? Certo in quegli anni venivano diffusi anche in Italia documentari che svelavano i retroscena della guerra del Vietnam, fatti di atrocita’; erano gia’ in auge i film di Bruce Lee, e 5,10, 100 dita di violenza occhieggiavano dagli schermi e dai manifesti. Perche’ l’orgia di violenza non ebbe un “effetto arancia meccanica” ?
La ’86 mi ricorda i cartelloni della Benetton; in questo genere di foto vedo solo il messaggio provocatorio e benemerito ai fini della presa di coscienza di una realta’, il fatto che l’immagine sia fotografica non cambia nulla, pero’ ricordiamo che il premio va al fotogiornalista, non al fotografo sic et simpliciter, la cosa cambia e dovremmo tenerlo presente giudicando una o piu’ fotografie.
Stesso discorso, con connotazioni differenti, per la grande foto dell’89, un mito, vero totem, carico di simboli e moniti : sempre e dovunque potremo trovare un davide che si erge nella sua piccolezza davanti al golia di turno.
La ’90, ’93, e ’97 mi ricordano tanto la Letizia Battaglia deteriore (secondo me), quella che metteva in mano ai bambini palermitani le pistole giocattolo per poi fotografarli; scene che sembrano realizzate in studio, dove il segno del dolore e’ mortificato dall’attenta ed elegante composizione, dalle luci caravaggesche ben orchestrate ecc. Laddove quella del 2000 mi ricorda la Letizia Battaglia migliore ( secondo me e secondo tutti ), quella che sapeva entrare in un attimo in sintonia con gli interlocutori, metterli a proprio agio dinanzi la fotocamera, tanto che questa scompariva paradossalmente dalla scena, e la foto nasceva cosi’ semplicemente, cogliendo una realta’ genuina ,espressione di un mondo e di un modo di vivere.
Della ’91 penso che metta in risalto il fatto che anche i forti e i potenti piangono, che la morte e la guerra non guardano in faccia nessuno: vincitori e vinti, buoni e cattivi , forti e deboli sono accomunati dalla fotografia, che ne ruba l’anima per renderla pubblica, per svelare quello che non si dice o non si vuole dire. Un premio indubbiamente sia alla foto per quel che indica, e al fotogiornalista che seppe cogliere nel turbine di spari e ali di elicottero e puzza di paura cio’ che in quel momento era’ piu pregnante piuttosto che le solite scene belliche.
Su Zizola e Nachtewey no comment, non trovo parole, se non banalissime, per scrivere della loro grandezza e capacita’ di sintesi, sicuramente perche’ ho negli occhi tante altre immagini dei due.
Una nota infine per approfondire le foto premiate negli ultimi 4 anni , accomunate da :
uso del colore
eleganza della composizione
taglio sintetico dell’inquadratura
pregnanza della connotazione, del messaggio, senza ridondanze ne’ concessioni al gusto del truculento. Dove il segno significa veramente.
In fin dei conti la foto di Pellegrin premiata non manca di questi elementi, che in atto, a meno che mi facciate ricredere, ho cercato di sviscerare da una gustosa serata passata al mac.
Che nonostante tutto sia in corso un’altra oscillazione del gusto? Che le nostre preoccupazioni sul parere di certe giurie siano infondate?
Certo che questi giurati quest’anno, come negli ultimi anni addietro, non hanno poi sfigurato.
E allora mi pongo un’ulteriore quesito : l’overdose di violenza forse non e’ a carico dei fotogiornalisti, lo e’di piu’ nella testa dell’uomo comune, e quindi nelle strumentalizzazioni mediatiche. Se la gran mole di quello che succede nel mondo e’ tragedia e violenza, perche’ non deve essere rappresentato, trasfigurato e stigmatizzato dalla fotografia?
Sono pero’ sicuro che sia meglio un reportage di guerra, anche se fa vedere il sangue, ma fa aprire le menti non ottenebrate, piuttosto che mille foto di vallettopoli .
In conclusione : pensieri e suggestioni personali davanti all’immagine, che mi piacerebbe rifare in vostra compagnia davanti a una birraccia.
oratore, grazie del kilometrico ma gradito apporto, pero'
pero' il mio zufolo e io non capiamo una cosa
vuoi dire che in un certo senso giustifichi la sovrabbondanza di foto cruente? e come collochi allora tutti i discorsi che avete fatto tutti voi contro questa "moda"?
quaerere, non petere, malum non est
Piffero, costringi solo me a scrivere, e io non riesco a non essere prolisso, peggio per te.
La moda delle foto sanguinolente ormai e' una realta', non si discute, l'ho sempre sostenuto; e rimane un modello cui tanti si ispirano, se non fattivamente, perche' non tutti corrispondenti di guerra, almeno ideologicamente.
In tanti ambienti fotografici si sostiene, come unico e alto programma cui attenersi, il reportage sociale, fatto di volti sofferenti e di situazioni al limite del livello civilmente accettabile.
L'avallo a questa moda imperante e' costituito dalla mole di foto di tal genre immesse sul mercato delle immagini, rivestite di un mantello di prestigio e di alta connotazione morale ( di denuncia, di partecipazione, di polemica politica ecc ).
pero' ricordiamo che la maggior parte dei premi internazionali si rivolgono al FOTOGIORNALISMO, che e' solo una delle maniere di fare fotografia.
Potreste tutti obiettare che non sia sostenibile la differenziazione in "stili" fotografici ( ritratto, ritratto ambientato, moda, still life, food, sport, people e via dicendo ) in quanto una foto bella -espressiva - pregna di significato ecc e' tale indipendentemente dallo schedario dove la si voglia forzatamente classificare e contenere; ma questo e' un discorso che conviene fare separatamente, per non perdere il filo.
I giornalisti della press-photography ( press in senso di Stampa, cioe' informazione) inseguono le notizie, che sono quasi sempre bilanci numerici di morti e feriti, corredandole di foto-documento o foto-simbolo, che avvalorino il racconto e l'interpretazione dei fatti.
Che poi le parole e le immagini vengano abusate e strumentalizzate e' una conseguenza mediatica da imputare al fatto che il mercato delle notizie e' una realta' , e d'altro canto in pieno terzo millennio non possiamo certo pensare di abolire la liberta' di stampa, Dio ce ne guardi.
Certo l'abbondanza prepotente di un certo tipo di immagini genera assuefazione, come magistralmente evidenzia la foto "sanremese" dei giovani in coupe' rossa davanti alle macerie.
E' nella natura umana, le atrocita' catturano l'attenzione, da sempre , come si puo' leggere in tutti i libri di storia della fotografia : vedi il protoreportage di Fenton sulla guerra di secessione, ( i cadaveri sparsi a centinaia dopo la battaglia di Gettysburg ) e i cadaveri sugli spalti delle fortificazioni di Gaeta nel risorgimento; nel primo caso le foto furono scattate all'indomani della battaglia, nel secondo Sevaistre uso' comparse perche' i cadaveri dei napoletani erano gia' stati rimossi .
Ma se quello che succede nel mondo, e che e' sacrosanto conoscere e far conoscere, e' fatto di guerre o combattimenti, c'e' poco da fare.
L'obiezione giusta a questa considerazione e' che ci sono nel mondo anche cose buone che vengono compiute, ma pochissimi ne parlano e appunto e' un male che i fotogiornalisti non alzino questo baluardo contro lo strapotere delle immagini di morte e violenza.
Ma continuando il discorso , e continuando a sostenere che questi spezzoni del nostro blog hanno un identico filrouge che verte sulla fotografia sentita oltre che fatta, riprendo il dubbio del fantomatico Mario della porta accanto :
"mi domando a questo punto le foto come le mie hanno un futuro assicurato nel mio cassetto e quelle che ho in mente non verranno mai partorite se questi sono gli insegnamenti... ti prego aiutami a trovare qualcosa di buono in tutto ciò. "
Insegnamenti, penso io, non vanno cercati solo nel fotogiornalismo ; i fotogiornalisti campano sul loro lavoro-rischio, ma campano anche quelli che fanno foto di altro genere, pochi perche' c'e' inflazione di fotografi ma si' campano.
Campano dignitosamente quelli che fotografano frigoriferi e televisori e computers per i cataloghi delle grandi ditte, e quelli che fotografano detersivi e salumi e pastebarilla per i depliant dei supermercati. campano quelli che fanno foto di architettura, di pittura e scultura per i libri di scuola e per i libri d'arte, quelli che fanno foto turistiche e cosi' via.
A questo punto Mario mi obiettera' che gli piacerebbe fare fotografia come Arte, o come Missione : e qui lo volevo.
Seguimi piffero, non distrarti :
secoli addietro chi sapeva fabbricarsi tele e pennelli, e sapeva ottenere i colori sbriciolando i minerali e sciogliendo chissacche', e sapeva stendere quei colori creando forme eleganti secondo lo stile dell'epoca, veniva incondizionatamente riconosciuto Artista: la distinzione tra talento e genio era praticamente nulla. Col tempo i critici e gli stroricidell'arte hanno assegnato, retrospettivamente, i ruoli di Maestro, Comprimario, Allievo della scuola di... e cosi' via.
Oggi e' facile avere talento in fotografia : basta un retroterra culturale medio, una fotocamera sofisticata, un programma di fotoritocco che anche sfruttato allo 0,50 per cento delle sue possibilita' permetta di ottimizzare un ruggente file RAW, e tutti siamo in grado di presentare immagini decenti e anche di piu'. Ma il genio e' tutt'altra cosa, e' la capacita' di precorrere, annusandoli sul nascere, i cambiamenti di gusto. Il risultato dell'azione del genio e' un prodotto che richiama a grandi linee il passato, il gia' visto, il riconoscibile con facilita', ma lo indirizza senza traumi verso nuovi e inaspettati binari, introducendo quella nota di innovativo, di sorpresa, meglio se un po' destabilizzante, che cattura e conquista. E' quello che da sempre si dice del messaggio comunicativo per eccellenza.
In sostanza, se Mario si sente le forze, se sa di possedere dentro quel cassetto idee dirompenti, che possano cambiare le cose, deve fare il gran salto che fa la differenza : deve passare al professionismo, non rimanere un dilettante della domenica, ( ma parlo genericamente, non so se Mario realmente esista e cosa faccia nella vita).Un onesto fotografo,
bravobravissimointeressante ma limitato nel raggio d'azione. Il salto e' una scelta, quindi una rinunzia, e un gran rischio, ci vogliono s-palle forti.
E allora insensibilmente si puo' scardinare un sistema, forse, lo spero e voglio crederci che qualcuno prima opoi sappia farlo.
In conclusione, ma solo per ora, vorrei sottolineare che sulle riviste di fotografia italiane ed estere si possono ammirare portfoli di autori che la guerra forse non sanno cosa sia, che materializzano in fotografia pensieri e sogni, forse illusioni ed incanti, che realizzano una scansione introiettata del mondo che li circonda e che vedono, ed e' da questi che secondo me bisogna trarre inesgnamento, se si vuole crescere nella fotografia.
con osservanza
Oratore grazie per l'excursus sul wpp.
Però,
Però vorrei aggiungere qualcosa.
Dalla sua nascita ad oggi il wpp si è probabilmente evoluto parallelamente e conseguentemente alla evoluzione dei media in generale. Se accostiamo una immaginaria linea temporale dei media a quella delle foto del wpp forse si può dare un'altra interpretazione delle foto in relazione al contesto che riceveva le foto. Se per ogni foto analizziamo quale era il media prevalente in quel periodo per veicolare informazioni ed immagini (nel '55 credo la radio e qualche rotocalco, poi progressivamente tv e riviste varie fino ad oggi in cui le immagini si diffondono in tempo reale con internet, tv, videofonini etc.) il valore delle immagini forse può essere interpretato in maniera un pò diversa, "aggravando" il giudizio su alcune scelte del wpp e "indulgendo" su altre.
O no?
sicuramente si', e' vero anche questo. sarebbe interessante avere a disposizione una sintesi degli orientamenti radiofonici, e delle prime pagine dei giornali dell'epoca per completare l'indagine. In questo senso sarebbe piu' pertinente aggravare o indulgere, come giustamente noti tu.
Dopo avere letto le considerazioni finora fatte, vorrei mi fosse chiarita una cosa, cioe' perche' non solo qui, ma ho letto anche su libri e riviste, spesso si accomuna pittura e fotografia, anche con altre considerazioni e da altri punti di vista. cosa che per me appunto non e' chiara, non sono due cose diverse assolutamente, non raffrontabili?
grazie
per quanto mi riguarda,quando rifletto sulle immagini accomuno sempre pittura e fotografia, in quanto entrambe espressioni visuali comunicative; troverebbero posto anche il disegno , la litografia e persino il design, perche' espressioni di pensiero e di cultura dal punto di vista visuale. E in certi casi anche l'architettura, e la cinematografia.
Restringendo il campo alle immagini bidimensionali fisse, certo pittura e fotografia differiscono;
non solo dal punto di vista formale e tecnico ( sebbene nell'arte moderna esistano esempi di contaminazione, vedi per es. Schifano ), ma sopratutto dal punto di vista della genesi delle immagini.
La pittura viene definita un sistema creatore di immagini di tipo "additivo" : c'e' una tela bianca, vuota cioe' priva di segni, e il pittore comincia a riempirla di colore, creando forme riconoscibili.
Laddove la fotografia e' un sistema "sottrattivo", nel senso che, di fronte ad una scena, la fotocamera seleziona una sezione, una parte, un particolare, isolandoli dal contesto del referente reale percepito da quella ottica "normale" ( nel senso di ottica di circa 50 mm ) che e' il nostro occhio. Il fotografo decide cosa togliere, cosa sottrarre, e lo fa ricorrendo agli strumenti del linguaggio fotografico : distanza di ripresa, fuoco selettivo e profondita' di campo, angolo di ripresa, focale dell'obiettivo ecc. Il resto della scena reale e' letto oltre i bordi della stampa fotografica, immaginato, interrogato talvolta, in base al livello di comprensione e di partecipazione che il segno fotografico evoca.
Ma pittura e fotografia hanno stretta parentela secondo me perche' concretizzano la favolosa ambiguita' dell'immagine : io, se sapessi disegnare o dipingere, potrei rappresentare Giuseppe Garibaldi a braccetto con Giulio Cesare da un lato e Leonardo da Vinci dall'altro, tutti 3 a passeggio sul ponte di una portaerei.
D'altro canto, se fotografo una cicca su un centimetro quadrato di un marciapiedi lustro e pulito, posso lasciar intendere e suggerire che tutto il marciapiedi sia ingombro di rifiuti.
Tale ambiguita' non e' una pecca dell'immagine, mai, ma e' l'uso subdolo dell'immagine ad essere peccaminoso.
Sono giorni che penso a questa analisi di Iovine, potrei dire che la trovo interessante, ma sarebbe riduttivo: mi affascina e mi stordisce un po’, ho letto con attenzione anche i commenti e so che in parte li ripeterò, però sono ancora stupita implicazioni di questa "genealogia" di un'immagine. Non voglio parlare ancora di condizionamenti e propaganda, e troppo facile sarebbe introdurre un discorso sulla verità oggettiva del racconto fotografico, però sono abituata a pensare alla fotografia, ad ogni singolo scatto come il risultato del vissuto personale del fotografo e della Storia più grande nella quale è stato inserito, delle idee/ideologie a cui è stato esposto, a leggere il suo lavoro come particolare soggettivo frutto della sua esperienza, che guida l'interpretazione dei fatti raccontati ed in cui è coinvolto. Alla luce di questo mi domando come il passato così unico e irripetibile di ogni uomo finisce per restituire immagini tanto vicine, se non identiche, in tempi così lontani, come se i fotografi piegassero a modelli convenzionali, predefiniti il reale.
E ancora più paradossale che questa situazione venga rappresentata dal Wpp, luogo in cui affluiscono enormi quantità di immagini, e da cui dovremmo aspettarci l’emergere di nuovi stimoli e spunti originali, di una nuova critica rispetto agli avvenimenti trattati, invece l’EVENTO meritevole di essere premiato/raccontato pare solo quello che è perfettamente inserito in un contesto noto e come tale lo rende riconoscibile, già visto, codificato, elaborato, vissuto e quindi tranquillizzante perché in qualche modo superato…
Così il luogo che potrebbe rappresentare la memoria e la storia visiva dell’umanità (WPP) si arrende ad una sudditanza iconografica alla tradizione che quasi si disinteressa al racconto del prossimo limitandosi al massimo a raccontare come noi “occidentali” lo vediamo e lo giudichiamo e soprattutto come sempre l’abbiamo guardato, evolvendo forse nell’aspetto estetico-formale, ma certamente non nei suoi significati più profondi.
in terra di orbi, un monocolo e' dio .
traduzione : puo' darsi che nella massa di foto pervenute, non ci fosse poi granche' di novita', un premio bisognava pur darlo.
comunque, se usciamo dalle sezioni gia' esaminate, che riguardano guerre e co., e andiamo alle altre sezioni( sport, series) c'e' un altro interrogativo che possiamo porci : si tratta di foto diverse, piu' semplici e facilmente leggibili, basate su criteri formali ed estetici e contenenti l'idea del racconto fine a se stesso, nel senso che manca la denunzia sociale ecc. Considera la bella serie sulla testata di Zidane a Materazzi, e quelle foto di mosso elegante relativamente ad altri sports.
Si tratta sempre di foto giornalistiche, ma sono piu' vicine ad un gusto universale, semplice, fondato appunto sullo stupore per quello che si puo' fare con una fotocamera se si sa guardare e vedere.
Naturalmente i premi vanno a foto giornalistiche in senso lato, ma questa grande differenza di produzione tra i "generi" ci fa capire quanto sia piu' quotato globalmente quello guerresco su tutti gli altri. E allora dovremmo chiederci se anche i giornalisti del primo tipo siano piu' pagati, piu' richiesti degli altri, e in che misura rappresentino un modello per gli ambiziosi e i deboli di volonta'.
sconcertante,
una foto "lenta", come fa capire Iovine. lenta ad arrivare. è un po' che ci penso... mi scuso se per chiarirmi ripeto descrizioni e considerazioni già fatte in questa pagina...
dove è la scena in questa foto?
cosa stanno guardando le ragazze facoltose (connotate da elementi che non farebbero pensare al Medio Oriente dell'immaginario cosiddetto collettivo) sulla macchina rossa?
cosa stanno guardando?
due dei ragazzi che passano dietro pare guardino verso la stessa direzione, ma immaginiamo non sia il fotografo ad attirare l'attenzione, anche per l'angolazione della ripresa... una delle ragazze pare si protegga da un cattivo odore.
sarebbe abbastanza interessante vedere cosa si rifletta nei presumibilmente costosi occhiali da sole; sembra di vedere una sagoma umana.
una delle ragazze pare rivedere un'immagine raccapricciante scattata con il telefono cellulare.
dove è la scena?
dietro di loro un'altra scena, di demolizione, uno sfondo, la gente pare passare in mezzo a macerie e resti senza curarsene, una palma è ancora quasi sana.
c'è una bella diagonale tirata da una sorta di cavo e dalla linea di altre macerie.
separa la zona in cui camminano le persone dal resto... nettamente.
personalmente percepisco una separazione quasi artificiosa tra l'area del fotogramma "umanizzata" e la zona urbana distrutta, quasi fossero giustapposte senza nemmeno sfiorarsi.
lo trovo sconcertante.
la gente passa.
la gente passa e telefona.
la gente passa guarda e telefona... o scatta.
non c'è dramma. una curiosità distaccata, superficiale, nemmeno morbosa, tipica di oggi, lo sguardo sul reality show... questo mi interessa davvero dello scatto.
il tipo di attenzione che è stata sorpresa.
la flagranza di un'incuriosita indifferenza.
ed è anche quello che mi "infastidisce" dello scatto.
le macerie sembrano un poster appiccicato dietro. uno sfondo quasi surreale, a cui nessuno dei presenti nella scena fa caso.
è dalla prima volta che l'ho guardata che non capisco che sensazione mi procuri questo particolare. come vederlo...
questa foto di Spencer Platt forse non è per niente una foto di guerra.
ma una foto sul nostro modo di guardare e attraversare la vita, oggi.
forse è una foto su ognuno di noi oggi.
trasportati "leggermente" dentro notizie vicine o lontane, ugualmente esterne a noi, al nostro "abitacolo" in cui siamo protetti.
siamo al punto di confondere quanto vediamo dall'abitacolo nella realtà con quanto vediamo nella scatola delle notizie e dei reality show, con quanto vediamo in un monitor... siamo in overdose da immagini e non sappiamo più valutarne la possibilità che siano realtà e non superfici impresse o depositi di dati.
siamo al punto in cui la nostra separazione dal reale che attraversiamo è ormai flagrante... è una separazione che ci appiattisce in un irreale senza profondità.
quello che vediamo non ci riguarda. ce ne riempiamo gli occhi per consuetudine, per aggiornamento, per necessità.
ma cosa passa?
e la compulsiva tendenza a fotografare tutto, con qualunque apparecchio (qui allusa)... sembra un modo di delegare la memoria e scaricarsi dell'attenzione necessaria alla VISIONE della realtà. sembra un modo per staccare se stessi dalla possibilità di essere toccati, di essere raggiunti e di raggiungere.
sembra un modo per non soffermarsi e passare, scorrere via... nella nostra confortevole automobile rossa... sulla nostra connessione veloce, sul nostro televisore... non importa con quale veicolo...
[non è così solo da oggi forse, visto l'excursus di Iovine, ma "oggi" questa foto è stata scattata dove c'è stato un bombardamento e questo distingue la foto e l'oggi dai suoi possibili modelli e riferimenti].
È sempre imbarazzante esordire nei ringraziamenti, quando il destinatario si chiama Grazia, ma tant'è: grazie Grazia! A proposito della tua lettura mi è sembrato opportuno modificare il post iniziale aggiungendo i particolari da te indicati e qualche considerazione. Mi spiace di non averlo potuto fare qui, ma la piattaforma su cui si basa il blog non accetta al momento l'inserimento di immagini all'interno dei commenti, ma solo link su altre pagine. E non mi sembrava la soluzione migliore... Per gli interessati basta tornare sulla pagina del post originale e sfogliarlo normalmente.
Solo una piccola precisazione sempre in riferimento all'intervento di Grazia. Il mio excursus non voleva riferirsi ai contenuti delle immagini, unicamente agli aspetti formali, differenza non piccola e in grado di condizionare l'interpretazione dell'intero intervento.
premettendo un rinGraziamento a Iovine per l'intervento, due cose vorrei aggiungere che personalmente trovo stimolanti:
- la fotografia di Platt a questo punto si rivela uno specchio nello specchio... e questo pare arricchirla di non poca intensità;
- la seconda considerazione è abbastanza personale, ma trovo sveli un meccanismo che dal mio punto di vista non è di poca importanza nei sistemi di comunicazione:
non vedendo la "vera" scena che tutti paiono guardare, a cui la foto così fatta allude nascondendola, mi rendo conto di come acquisti in qualche modo potenza sul livello meno controllato della suggestione. la mia "lettura" mi ha portata a drammatizzare la scena che non vedo interpretando dei gesti, che leggo Iovine interpretare più pacatamente e in definitiva in modo più spietatamente in linea con la lettura generale della foto stessa.
Il meccanismo dell'immaginare peggiore di quello che potrebbe essere la scena che non vedo, apre un universo di possibilità di rappresentazione indiretta dell'orrore, dell'atrocità, della violenza che forse riconduce ancora una volta all'annoso discorso sulla possibilità di fotografare non l'azione violenta ma un'allusione ad essa o un "simbolo" che la richiami, ottenendo più risultati positivi:
- minore assuefazione alla visione della violenza;
- accelerazione dell'esercizio dell'intuizione;
- esercizio del ragionamento sulla relazione tra forma e contenuto non espresso didascalicamente;
- rinnovata attenzione a quanto si vede, perché meno immediato;
- una suggestione più potente e meno allontanante;
e un rischio:
- far immaginare quello che non c'è...
come pare essere capitato a me in questo caso.
e anche questo rischio è in effetti pericoloso.
e su di esso si basa parte delle forme di comunicazione.
la comunicazione porta in sé una possibile ambiguità?
la sua pervadente ricchezza e il suo insidioso pericolo...
bello e interessante il commento di grazia.
Leggendolo mi sono chiesto che significato attribuire all'"indifferenza" che, sottolineata da grazia, emerge da questa immagine : indifferenza come apatia, disinteresse, mancanza o perdita di capacita' di risposta emotiva :
oppure in-differenza nel senso di incapacita' di distinguere tra la realta' e le immagini che di essa ci arrivano.
Forse in entrambi i casi la risposta va cercata nell'allusione a quelle superfici a specchio degli occhiali da sole in questione : l'immagine non e' piu' specchio della realta', ma si condensa come modello di vita e di comportamento, e' l'immagine a sostituire la realta', e in essa noi ci specchiamo per riconoscerci, anzi crederci, falsamente veri, cioe' aderenti ad una realta' imposta dalla consuetudine.
Trascendendo da questa specifica fotografia , e riferendoci alla comunicazione in senso lato, quella per immagini ormai sostituisce ogni riflessione, dubbio, domanda. Per questo forse il bullismo a scuola e gli atti di violenza in genere vengono fotografati col cellulare e messi in rete, perche' la realta' viene sentita tale solo se si trasforma in immagine da condividere, spettacolarizzata piu' o meno e offerta come specchio davanti al quale porsi per vedersi.
Io non sono assolutamente oppositore del digitale o virtuale rispetto l'analogico con cui sono cresciuto, ci mancherebbe : il computer e internet hanno cambiato la vita di tutti, e' logico, e in meglio; pero' mi chiedo se alla lunga distanza un mondo virtuale fatto solo di videofonini, sms e chat non possa appiattire anzlche' espandere le capacita' cerebrali, razionali ed emotive insieme, sopratutto a carico di quelle coscienze che sono piu' influenzabili e non trovano in famiglia e a scuola modelli sani di riferimento
Citando Ermanno Olmi, ritengo che meglio di mille immagini teletrasmesse e di mille sms funzionino quattro parole scambiate occhi negli occhi, davanti a un caffe', con il mio prossimo.
La foto di Platt premiata allude intenzionalmente a questo tipo di mondo virtuale e distaccato? E' stata costruita scenograficamente e non colta al volo ( mio piccolo dubbio ) per far pensare a quello che abbiamo pensato noi ? in entrambi i casi e' pesante come il piombo. e ci fa pensare.
Utile ,per approfondire, il libro di A. Fabris : Senso e indifferenza.
mi inserisco solo per informare che sul numero di PC PHOTO di luglio-agosto e' riportata la notizia del premio assegnato a Spencer Platt per il WPP. Il mentecatto anonimo estensore del commento informa con dovizia di precisione che l'immagine significa tutto l'opposto di quello che voleva sembrare : il mentecatto giornalista (??) infatti tiene a far notrare che non si tratta di 4 ragazze in giro turistico, sono abitanti dello stesso quartiere bombardato; che portano gli occhialoni da sole non per snobismo bensi' per proteggersi dalla polvere ; che quella col telefonino in mano non sta fotografando, ma chiedendo informazioni; infine che l'auto che ospita le ragazze non e' un'auto di lusso ma un'automezzo molto modesto.
Quindi il mentecatto chiude la finestrella informativa con un panegirico inneggiante ad una certa filosofia moraleggiante.
Prego Iovine di inviare una mail a tutti i partecipanti al blog che sono intervenuti su quell'argomento, cosi' si accorgeranno di aver sparato solo cavolate, perche' a quanto pare il mentecatto in questione era presente in Libano mentre Platt scattava quella foto, poi premiata, quindi sa tutto sul referente reale di quel momento, e chissa' per quale vendetta privata adesso lo sbuttana.
beati i creduloni, che vivono senza pensieri, chi vuol capire capisca.
foto stupenda che richiede un pò di tempo per essere apprezzata pienamente... complimenti , non scatterò mai una foto del genere :)
ænima
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