«È responsabilità del foto-giornalista prendere il suo incarico ed esaminarlo – cercare con intelligenza la verità spesso inafferrabile e poi, con molta attenzione (e a volte con altrettanta rapidità) cercare di trasmettere la propria intuizione, così come le caratteristiche fisiche del soggetto, alle immagini finite.
È importante che l’ispirazione per l’interpretazione derivi da uno studio della gente o dei luoghi da fotografare. La mente dovrebbe rimanere il più possibile aperta e libera da pregiudizi e il fotografo non dovrebbe mai cercare di forzare il soggetto entro idee preconcette sue o del redattore. Troppo spesso viene dato un incarico, il fotografo legge le istruzioni e i suggerimenti e poi li esegue senza rifletterci molto sopra – eccetto badare che la fotografia sia il più possibile vicina a quel che crede siano i desideri del redattore. Assolutamente troppo di frequente, per via di una ricerca imperfetta, una conoscenza inadeguata od opinioni preconcette, come si è appena detto, la direttiva dell’incarico è un fraintendimento della realtà vivente. Ma, dato che non vuole offendere gli editori che gli danno da vivere, il fotografo cerca spesso di rendere la sua storia conforme al parere miope e deformato di qualcun altro.
Il fotografo deve farsi carico delle responsabilità del suo lavoro e del suo risultato. A seconda di quanto sia una deformazione (a volte inafferrabile, altre volte terribilmente evidente), in proporzione è un crimine nei confronti dell’umanità. Perfino riguardo a storie senza importanza va preso questo atteggiamento – perché la fotografia (e le piccole parole scritte sotto) plasmano opinioni. Una piccola informazione sbagliata più un’altra piccola informazione sbagliata sono le piccole scintille da cui divampano equivoci rovinosi».
È importante che l’ispirazione per l’interpretazione derivi da uno studio della gente o dei luoghi da fotografare. La mente dovrebbe rimanere il più possibile aperta e libera da pregiudizi e il fotografo non dovrebbe mai cercare di forzare il soggetto entro idee preconcette sue o del redattore. Troppo spesso viene dato un incarico, il fotografo legge le istruzioni e i suggerimenti e poi li esegue senza rifletterci molto sopra – eccetto badare che la fotografia sia il più possibile vicina a quel che crede siano i desideri del redattore. Assolutamente troppo di frequente, per via di una ricerca imperfetta, una conoscenza inadeguata od opinioni preconcette, come si è appena detto, la direttiva dell’incarico è un fraintendimento della realtà vivente. Ma, dato che non vuole offendere gli editori che gli danno da vivere, il fotografo cerca spesso di rendere la sua storia conforme al parere miope e deformato di qualcun altro.
Il fotografo deve farsi carico delle responsabilità del suo lavoro e del suo risultato. A seconda di quanto sia una deformazione (a volte inafferrabile, altre volte terribilmente evidente), in proporzione è un crimine nei confronti dell’umanità. Perfino riguardo a storie senza importanza va preso questo atteggiamento – perché la fotografia (e le piccole parole scritte sotto) plasmano opinioni. Una piccola informazione sbagliata più un’altra piccola informazione sbagliata sono le piccole scintille da cui divampano equivoci rovinosi».
W. Eugene Smith
Photo Notes, NewYork, giugno 1948, pag. 4-5
In alto, W. Eugene Smith in un autoritratto.
antologia curata da Nathan Lyons
II ed., Agorà Editrice, 2004, pag. 127-128
II ed., Agorà Editrice, 2004, pag. 127-128
10 commenti:
giustissimo.
propongo di raccogliere firme per un referendum : vogliamo che si sospenda l'attivita' giornalistica per un periodo di tempo, nel frattempo si istituira' una commissione di saggi, un'authority, che fornisca immagini neutre bipartisan a corredo delle notizie. forse e' meglio ricorrere ad una schiera di disegnatori alla forattini, che si limitino a riempire gli spazi vuoti tra le colonne del giornale
ma...quis custodiet custodes...?
Bufale, piffero
Il fatto e' che abbiamo i politici che ci meritiamo, in quanto espressione della societa' da cui sono eletti. Abbiamo i programmi televisivi che ci meritiamo, perhe' vogliamo vedere certe cose. Abbiamo i giornalisti che ci meritiamo, perche' abbiamo le nostre idee distorte e gli editori ci danno in pasto quel che sanno sara' gradito.
Arabo e' sinonimo di incivile, miscredente, diverso, sporco, e l'arabo viene sbattuto sulle pagine alla prima occasione, perche' siamo contenti quando un arabo viene accusato e arrestato.
La societa' e' regredita, ma a chi vogliamo aprire gli occhi, ai ciechi
... scusate ma... capisco la soggezione per l'autorevolezza di W. E. Smith, e dunque l'imbarazzo a metter voce,
ma... leggendo questi due post qui sopra, mi chiedo se non volessero essere postati di là... ?.
se pigliamo questa strada possiamo concludere anche che abbiamo pure i fotogiornalisti che ci meritiamo, così ricominciamo da capo
o non ricominciamo per nulla... :-\
e se ci crediamo così poco temo che anche solo nell'intenzione non sapremo arrivare a nessuno...
il rigore della disillusione
deve
accompagnarsi alla cedevolezza verso il desiderio di raggiungere qualcuno se non qualcosa.
al movimento interiore verso...
alla sete, alla ricerca, nonostante l'amarezza.
ci diamo appuntamento qui, sotto a chi lotta o ha lottato, per depositare lamenti?
in questo modo noi:
NON «prendiamo un incarico»
NON «cerchiamo con intelligenza la verità»
NON abbiamo la CURA «con molta attenzione di cercare di trasmettere la nostra intuizione»
perché la nostra intuizione non la cerchiamo,
perché ci avvitiamo in rassegnati adagi da lamentazione...
non vorrei fare la solita irritante citazionista, ma quasi ogni frase di questo brano di Smith è applicabile a noi qui e ora:
«È importante che l’ispirazione per l’interpretazione derivi da uno studio...»
e finché non usciremo dagli stereotipi della polemica e del pessimismo sterile la nostra sarà:
una «ricerca imperfetta»
Noi qui ora siamo una storia «senza importanza», ma possiamo scegliere di «plasmare opinioni» studiando le immagini INSIEME.
[e INSIEME... è un privilegio per nulla scontato]
l'hai detto : studiare le immagini
studiare il modo in cui altri, non gli autori delle immagini, le usano e' un'altra cosa
e anche il tuo post, scusami, lo dico con affetto e senza cattiveria o polemica, e' solo una lamentela, come le altre nostre precedenti.
Di non lamentevole, visto che di fotografie non dobbiamo parlare, posso dire questo :
che la cattura del giornalista di repubblica, con successivo rilascio e cronaca diretta dell'arrivo a riabbracciare la famiglia, e' un'immagine, ulteriore immagine costruita a puntino. in pochissime ore di aereo il tizio ha scritto un bellissimo racconto fitto di immagini virtuali in elegante italiano. un racconto da dare in pasto al pubblico affamato di emozioni
il termine "usare" abbinato a "verità" mi inquieta in ogni caso. è allertante.
Magicopiffero, con affetto e senza polemica, come piace a te, se esiste una costante nei tuoi interventi è la richiesta di parlare finalmente di FOTOGRAFIA, come se fino ad ora l’avessimo sfiorata come pretesto per altro, beh io non sono d’accordo, interrogarsi sui riverberi che un’immagine ha sul suo pubblico, come suggerito da Smith (oh, ma era un fotografo…) ha a che fare con la fotografia. Ma cosa intendi quando dici “visto che di fotografie non dobbiamo parlare”, cosa stiamo facendo, mi sfugge qualcosa? O forse invochi il senso ontologico, assoluto di fotografia, come categoria sovraesistente rispetto allo strumento (fotocamera), al suo prodotto (immagine), ai suoi fruitori. Allora raccogliamo la sfida "cos'è la fotografia?". Domanda in cui possiamo individuare un cercato (ciò che si domanda), un ricercato (ciò che si trova), e un interrogato (ciò a cui si domanda); il nostro cercato è la fotografia, il nostro ricercato è il senso della fotografia (ma questo sappiamo che non ti interessa), l'interrogato, noi, è l'esserci dell'uomo che studia le strutture della fotografia stessa. La fotografia può essere rappresentazione del reale in cui l’uomo si determina, si trascende e si progetta. O forse è comprensione del reale, una sorta di conoscenza ontologica del mondo, che lo assume come dato e poi si riflette nelle strutture dell’esserci che danno senso al mondo… ma ci interessa davvero?
Credo sia tutto molto più semplice e al tempo stesso più complesso: la fotografia produce immagini, che hanno un linguaggio specifico che schiude mondi nuovi. Un linguaggio che in pochi sanno usare e decodificare, ma paradossalmente accessibile a tutti, subito da tutti, come se fossimo continuamente esposti a radiazioni pericolose per cui non possediamo anticorpi. Come non considerare queste riflessioni uno strumento per avvicinarci alla verità, nel senso greco di aletheia , disvelamento, apertura, in cui uomo ed immagine si possono incontrare nella consapevolezza per dirla con Heidegger che dove c’è disvelamento, c'è sempre un messaggio celato, in qualche modo negato. Una verità chiaroscurale?
Il fulcro e' proprio questo : la verita'.
E' un concetto ambiguo la verita', perche' e' quello che ciascuno di noi assume come principio per dare vita ai nostri giorni e alle nostre opere.
Il fatto poi e' che questi redazionali, e in piu' questa ultima citazione di Smith, attorno ai quali si e' svolto finora il nostro blog, sono in realta' legati a filo doppio, un continuo materializzarsi di yin/yiang tramite le nostre voci, a partire da fatti apparentemente slegati ma tutti afferenti ideologicamente allo stesso fantasma della verita'.
E in questo senso "usare la verita'" non e' una proposizione che mi tiene in allerta o mi preoccupa : significa fare appello al proprio immaginario emotivo e razionale prima di dare vita ad un'immagine che uscira' dalla sfera del nostro io, e sara' fagocitata dalla dimensione della fruizione, in altri termini dell'informazione.
Appunto : la verita' cui ciascuno di noi giunge, scevra da pregiudizi si spera, ma pur sempre del tutto individuale. E come tale influenzata da elementi culturali, politici, commerciali ecc.
Pertanto , iniziando dalle mostre che non contestualizzano la produzione di questo o quell'autore, poi prendendo coscienza del funzionamento degli "awards" , infine guadando la viscida palude del plagio informatico, siamo giunti fra alti e bassi a questa proposizione di >E.Smith.
Non e' tuttavia un punto di arrivo, perche' dalle citazioni fatte in tanti commenti questo concetto era gia' ben chiaro. Sia beninteso, apprezzo le citazioni, perche' farle significa cercare, leggere, studiare, fare proprie le conclusioni di chi sa piu' di noi. ( nessuno nasce insegnato, come si dice qui, cioe' bisogna leggere e studiare)
proporle in un dialogo, a tupertu o in un blog poi, significa cercare di offrire un terreno comune di ricerca, una identita' di linguaggio che permetta di decifrare i concetti esposti.
La sostanza e' :
che questa etica dell'immagine propugnta da Smith e' stata professata da tempo da tanti altri; che il rischio di un uso degradato e degradante delle immagini e' stato avvertito da tempo da tutti quelli che seriamente si sono occupati di sociologia dei media;
che tuttavia l'etica e' da tanto tempo che viene calpestata, fino ad arrivare a questi giorni che celebrano il trionfo malsano e l'orgia delle immagini-verita'.
Si torna alla verita' : verita' si', ma oltre che limite e' giusto cercarla, anche se non la si vuole sfruttare dolosamente?
E fin qui il mio resoconto del percorso fatto assieme a tutti voi, finora dal punto di vista strettamente teorico.
Certo pero' che anch'io preferisco parlare di fotografia in termini di capacita' espressiva e comunicativa da parte dell'autore, e non in termini di uso che editori-paparazzi e quant'altro ne possano fare, perche' di questo uso distorto ho coscienza da tempo, non lo scopro adesso ( qui da noi le discussioni sul plagio occulto o palese operato dai media li mettiamo nei panini assieme ai wurstel da quando avevamo i pantaloni corti ) e sono arrivato alla conclusione che se si vuole trovare una soluzione bisogna combattere i fattori di rischio che minano l'integrita' etica della societa'.
Per questo capisco cosa voglia farci intendere il piffero, nel suo altalenare tra dr. Jekill e mr. Hide : gli rispondo ora sulla FOTOGRAFIA, dicendogli per es. che quella foto di Pellegrin ,che gli ha fatto vincere il premio, ame piace e piace molto:
Io guardo una foto cercando di sentire se mi dice delle cose, e l'inquadratura del cadavere entro le braccia( quello vero e quello ombra) e l'accostamento dell'ombra del braccio al cadavere, sul suo stesso piano, cosa morta il combattente ammmazzato e cosa morta, negazione della luce, l'ombra del braccio, forse mi fa capire che il fotografo, costretto per lavoro oltre che per vocazione giornalistica, a stare in mezzo alla guerra, ha cercato di abbracciare la verita' del referente reale con la propria verita' afferente tutte le dimensioni possibili : affettiva, simbolica, operativa, storica ecc. Che poi Pellegrin racconti quello che ha fatto per scattare la foto, certo rappresenta una contestualizzazione di cui abbiamo bisogno per entrare meglio nell'autore ( una foto parla piu' dell'autore che di quello che fa vedere, o no?) ; come gli crediamo e' un altro paio di maniche; che le giurie dei premi abbiano un chiodo fisso per certi tipi di foto e' ancora altro, pure importante. Ma a me quello che interessa sono le immagini che vedo, e su esse ragiono.
Forse il piffero vuole alludere al fatto che ci sono fotografie che attendono e altre che si fanno attendere, come disse non mi ricordo chi. che ci sono cacciatori di immagini e creatori di immagini.
E siccome, nonostante i miei frequenti riferimenti a fatti storici che ho vissuto, inevitabilmente infarciti di politica, non voglio fare politica spicciola, lo dico una volta sola che quello che succede nel mondo mi irrita e mi indigna : cerco di combattere il malcostume col mio comportamento, mi lagno di non avere il coraggio di cambiare certe cose, perche' per cambiarle occorrerebbero solo soluzioni drastiche, cerco di spiegare quello che so a chi mi e' vicino, ma anch'io vorrei parlare sulle immagini reali, e non solo sulla fotografia chiamata in causa da certe situazioni.
Se accusi piffero dicendo che non gli interessa il senso delle fotografie noin dici la verita' Claudia, perche' io ho capito che non e' proprio quersto che intendeva dire:
anche se molto provocatoriamente, secondo me ci nvitava a non pestare acqua nel mortaio, e a ripetere sempre frasi di i ndignazione contro il cattivo uso delle immagini. E' cosi', succede questa brutta cosa, chi non lo sapeva o capiva adesso sa e capisce, pensiamo alle soluzioni.
Piffero, non e' mio costume difendere, preferisco attaccare, se non azzecchi il tuo prossimo intervento ti puncico.
si in effeti finora abbiamo sfiorato la fotografia, come pretesto per altro.
e intendevo:
"a quanto pare di vera fotografia non dobbiamo, cioe' non abbiamo voglia di parlarne? " io voglio parlate di quella vera, commentare immagini, sentire i commenti degli altri sulle immagini, non solo sul loro uso piu' o meno distorto.
anche quello e' importante, ma ripetiamo ormai le stesse coseogni volta. io voglio capire se la singola immagine fotografica che si va a considerare sia assolutamente scevra da sovrastrutture intenzionalmente fuorvianti oppure no. voglio commentare immagini e sentirlo fare da altri.
Ok,
usano le immagini contro di noi, ci plagiano, ci diseducano, dobbiamo ripetercelo ancora e ancora ,con parole e citazioni filosofiche diverse ma sempre allo stesso scopo?
non mi interessa tanto "cos'e' la fotografia" in senso ontologico, mi nteressano i discorsi e i racconti tramite immagini fotografiche, finara non se ne e' parlato, ci lamentiamo soltanto, ancora e ancora. mi dispiace ma e' cosi'.
so che mi risponderete con fiumi di parole tratte dai grandi della filosofia, sempre ripetendo le stesse lamentele . punto.
... ho letto e riletto questo scritto di W.E. Smith, e pur condividendo il richiamo etico al foto-giornalista non mi toglie dalla testa una nota polemica, perchè fare la morale all'ultima ruota del carro quando già le testa dei buoi sono malate? ma gli editori hanno a loro volta un forum o un blog dove discutono su cosa sia meglio per l'informazione? ... e gl'inserzionisti?
Quello di mettersi in discussione come amanti-praticanti-professionisti fotografici va benissimo, anzi ... ma ho più una "visione" di un tavolo delle trattative con delle sedie vuote.
il senzanome
Il pezzo di Smith si fa rileggere più volte. E non perchè sia difficile da capire, al contrario: si stenta a credere che qualcuno abbia le idee così chiare sull'approccio che un fotogiornalista che si definisce tale (uno, per intendersi, che ha come editore di riferimento - idealmente - il proprio pubblico)dovrebbe avere. Dopo aver letto Smith, è facile far scattare l'applauso. Tutto vero, puro vangelo, direbbe un Maestro d'altro genere. E' importantissimo che Smith abbia messo giù chiaramente qual'è il compito del fotogiornalista. Ancora più importante, che abbia rifiutato una certa impostazione che vorrebbe il fotografo responsabile solo del momento dello scatto, e non dell'uso che si fa dele sue immagini. Balle: il fotografo che lascia che sia una redazione a manipolare le sue foto dà il suo tacito assenso a farlo (sto parlando, ovviamente, facendo finta che non esistano strutture con ben più potere dei fotografi.... diciamo che questo vale in un mondo perfetto in cui fotogiornalisti e redattori hanno pari poteri)
E però. Il discorso di Smith ha in sé alcune conseguenze che sarebbero autodistruttive per il fotogiornalismo: tra le tante, il rifiutare incarichi su incarichi, alla ricerca della propria integrità morale, porterebbe in certi casi alla fine delle notizie fotografiche. Se tutti i fotogiornalisti domani decidessero di non pubblicare le proprie foto se non in pubblicazioni "adatte", eticamente adatte, nessuno racconterebbe più niente. Con non so quanti vantaggi per i lettori (pochi, credo).
(certo, una unione così massiccia dei fotogiornalisti forse porterebbe effettivamente a qualche cambiamento. Ma credo si sia capito bene quello che voglio dire)
Ovvio, parliamo di una persona, Smith, che ha scommesso tutto sulla sua integrità e ne ha accettato fino in fondo le conseguenze. Ma credo che il suo approccio si possa anche declinare e interpretare in modo un pò più soft: cercare le pubblicazioni più adatte, quelle la cui intelligenza nella ricerca della verità sia alta, vicina alla sensibilità del fotografo richiamata da Smith. Un fotogiornalista che non pubblica, semplicemente, si guarda le foto a casa sua, e cessa di essere un fotogiornalista.
Cush (antò)
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