Mi viene in mente un concetto espresso da Gianni Berengo Gardin, che una volta disse di non capire per quale motivo se abbiamo di fronte un medico ci aspettiamo che abbia fatto cinque anni di università, più una specializzazione, magari due. In totale troviamo normale trovarci di fronte a una persona che abbia studiato per otto o dieci anni consecutivi per esercitare la propria professione. Allo stesso modo al cospetto di un ingegnere o di un architetto ci aspettiamo che abbia alle spalle come minimo i suoi cinque anni di università. Ma di fronte a un fotografo chi se lo chiede quanto abbia studiato per poter fare quello che fa? La percezione del mestiere di fotografo nel nostro Paese è legata all’artigianalità fai da te. Ciò è drammatico perché è concausa nella creazione di buona parte delle situazioni di cui si discute nell’ambiente del fotogiornalismo.
Anni fa, facendo il militare conobbi un ragazzo, di cui non ricordo più il nome, che aveva il padre che faceva il fotografo nella cronaca a Roma. Qualche anno dopo la fine del servizio militare mi capitò di incontrarlo nuovamente per puro caso, e questo ragazzo mi invitò ad andarlo a trovare nell’agenzia del padre, avendo saputo che nel frattempo avevo iniziato a lavorare nel mondo della fotografia. Il padre era un personaggio che, a dire il vero articolava dei suoni a malapena intellegibili come una lingua prossima al romanesco. Bene quest’uomo quando lo incontrai si vantò come prima cosa del fatto che «Aho, 'ecche, 'e foto mica 'e firmavo, io! 'Ecche so scemo?! Si nne 'e firmavo e potevo venne sia ar Tempo che ar Messaggero!» che per i non romani significa: «Io non firmavo le foto, non sarebbe stato conveniente per me, dal momento che in questo modo mi era possibile venderle contemporaneamente sia a Il Tempo sia a Il Messaggero (testate notoriamente in concorrenza sulla piazza romana)». Ora, quando la profondità culturale del fotografo è stata di questo tipo (oggi mi auguro che nessuno si sogni di fare una cosa del genere) è inevitabile che si sia prodotta una percezione del professionista fotografo tutt’altro che lusinghiera. Del resto sfido chiunque di fronte a una speculazione tanto profonda a stimare professionalmente chi la esprime. Come si può rispettare chi per primo non mostra rispetto per il proprio lavoro? Ovvio che chi ha intrapreso il lavoro dopo certi personaggi, mi riferisco ai fotografi della mia generazione più o meno, ha dovuto affrontare come un problema ciò che in realtà sarebbe un diritto, ovvero la firma del proprio lavoro con tutto quello che ciò significa. È facile capire come, in un mondo abituatosi a rapportarsi ai fotografi quasi come a una razza inferiore, sia difficile riscontrare una disponibilità accettarne il ruolo professionale in base a schemi paritetici.
Nella mia esperienza di insegnamento nelle scuole di fotografia, strutture che raramente si preffigono altro reale obiettivo se non quello del guadagno nella più pura delle prospettive aziendali, mi sono confrontato per molti anni con persone che si rivolgono a istituzioni private a pagamento pensando di ottenere soluzioni taumaturgiche per accedere alla professione, aspettandosi di ricevere per osmosi o semplice frequentazione le conoscenze necessarie. La cosa più difficile da far capire a questo tipo di persone è che per acquisire una professionalità è necessario mettersi in gioco personalmente. In modo profondo per imparare attraverso lo studio teorico e pratico le conoscenze necessarie ad affrontare la professione. Nell’ultimo corso iniziato poche settimane fa, ad esempio, mi è stato fatto notare dagli studenti che non è necessario conoscere gli autori e la storia della fotografia…
Purtroppo non si può pensare di affrontare una professione se non si ha come minimo quella curiosità che ci spinge a indagare alla ricerca di quelle conoscenze che una volta metabolizzate ci permettono di passare da una condizione di potenza a una di atto. La soluzione per fortuna non è uguale per tutti, ognuno ha una sua sua soluzione, un suo modo di risolvere le cose, una personalità che lo porta a elaborare uno stile. Ma lo stile non è un qualcosa che si compra al mercato. Lo stile è qualcosa che si costruisce passando per una fortissima fase mimetica e attraverso il superamento e la metabolizzazione della stessa. Bisogna avere quel minimo di umiltà che permette di guardare cosa fanno gli altri per prenderne le parti che riteniamo positive e farle diventare nostre. Certo se passiamo tutta la vita solo a copiare gli altri allora c’è davvero qualcosa che non va, ma stiamo parlando di problemi che non si risolvono durante un convegno professionale, quanto piuttosto dallo psichiatra o dal neurologo.
Dobbiamo metterci in testa che la creazione di uno stile è il frutto dello studio di anni fatto guardando i lavori degli altri, leggendo libri, guadando film, ascoltando musica, leggendo letteratura, guardandoci intorno. Non è qualcosa che riguarda solo la fotografia. Spesso sento parlare della necessità di una Cultura della fotografia… ma cosa è la cultura della fotografia? Già se parlassimo di cultura dell’immagine il discorso sarebbe un po’ più accettabile. Se ci limitassimo a parlare di Cultura? La Cultura non è un sistema a scatole chiuse. Fare una fotografia, arrivare a raccontare una storia che sia fotogiornalistica o uno still-life del prosciutto di Parma implica una serie di consoscenze che vanno ben oltre il discorso fotografico. E sono queste a fare la differenza.
* trascrizione parziale di un intervento effettuato nel corso del convegno Appunti sul fotogiornalismo: la questione italiana, tenutosi a Roma il 24 aprile 2010.
15 commenti:
La stessa cosa, caro Sandro, la vedo accadere anche in teatro.
E' tutto un pullulare di laboratori, scuole, workshop, ma non vedo mai gli allievi approcciarsi alle cose consapevoli che stiamo parlando di una forma di artigianato.
Anche la fotografia, per mio conto, è una forma di artigianato e si trasmette attraverso i canali che un tempo appartenevano al nostro artigianato.
Credo che, il passaggio da "artigianato ad arte" abbia fatto del male proprio a quanti si avvicinano per la prima volta alla fotografia (come al teatro, per ripetermi ancora).
Nessuno pià fa, ad esempio, una pratica disciplinata a quotidiana; darsi un tempo ogni giorno per dedicarsi alla fotografia, anche se questa non è la propria professione; confrontarsi con altri fotografi, seguire i professionisti nella loro pratica.
Perchè non fare in modo che la fotografia si riappropri della parola "artigianato"?
Francesco Chiantese
Caro Sandro,
E' molto che non ci siamo sentiti. Ho apprezzato molto il tuo commento "stilistico" di oggi.
Dovrò fare un workshop quest'estate e se qualcuno mi dicesse che non ci fosse bisogno di
guardare agli autori del passato lo caccerei dalla classe senza pensarci due volte.
Caro sandro, concordo su quanto hai scritto. Forse quella che manca è la percezione della necessità di questa professione, dell'importanza della testimonianza per immagini. A me viene in mente una scena di un celebre film, ambientato in altra epoca (o no?) in cui un uomo, per non essere ucciso, deve rinunciare a dichiarare di essere un musicista e spacciarsi per un lucidatore di metalli.
L'arte,il teatro la musica ma anche l'informazione,la fotografia non sono necessarie per sopravvivere. Sono necessarie per crescere, sono cibo per la mente. Siamo sicuri che interessino ancora?
Bulc
D'accordissimo alla proposta di parlare soltanto di cultura. Nelle sue varie forme ed espressioni, quindi cultura nella fotografia piuttosto che cultura fotografica, come se ne fosse un sottoinsieme, una qualche forma di riduzione.
Molto più cauto sarei nel parlare di stile: temo infatti assai il breve passaggio dallo stile alla "maniera" . . .
@George Tatge
Posizione la tua assai poco pedagogica. Non idonea a chi voglia porsi come docente di una qualsiasi cosa. Anzicchè "buttare fuori" la gente, perchè invece non provare a dimostrare la opportunità, la necessità, del conoscere gli autori del passato!
No, non sono affatto certo che si tratti di argomenti che possano costituire un nucleo di interesse collettivo al giorno d'oggi. Semmai propendo esattamente per l'ipotesi contraria.
Nondimeno non credo giusto dimenticarne l'esistenza o far finta che la loro scomparsa o messa in disparte sia un fatto trascurabile al quale non valga la pena di tentare di opporsi.
La conoscenza che molti anni fa, per motivi professionali, ho avuto il privilegio di avere di George, mi impedisce di leggere in modo letterale le sue parole. La persona che ho conosciuto sono certo che al di là della provocazione estremistica, procederebbe esattamente nella direzione indicata da Carlo.
Credo che la flessibilità e il senso dell'ironia siano un bene prezioso troppo spesso sottovalutato.
sono assolutamente d' accordo su quanto scrivi...
Questi editoriali danno respiro e profondità alla rivista. Grazie, perché sono per me stimolo ad un approccio non superficiale al mondo della fotografia.
Che il fotografo non sia semplicemente "uno che fa' fotografie" ma una persona che ne è consapevole, penso sia universalmente condiviso; ma che questa consapevolezza nasca non come i funghi ma da anni di esperienza, studio, ricerca, contatto non fittizio con l'universo culturale che si vuole interpretare, bè questo non è sempre evidente a tutti. Ma è quì, come affermi tu, che si specifica il lavoro fotografico e "la differenza" si esprime non come un "marchio" di riconoscimento, ma come impronta personalissima nell'esprimere il complesso di relazioni e di valori presenti nel mondo interpretato, lascaindone trasparire un frammento di verità.
E quì la cultura non è un optional, ma è la sotanza del mestiere del fotografo.
Termini come cultura, approccio culturale ecc sono ormai di moda, non c'e' campo del fare umano che non si sia ormai appropriato di essi. Parlare di cultura fa "in". Tante volte mi sono chiesto cosa sia la cultura, sono arrivato a questa conclusione : io sono medico, con due specializzazioni, e sono convinto che questo solo non basti a fare di una persona un uomo acculturato. Se uno non si coltiva, non ha interessi e curiosita' intellettuale, se non guarda oltre il proprio ambito professionale strettamente tecnico, puo' avere 100 specializzazioni ma rimane ignorante. Penso all'esempio di mio padre, letterato e giornalista anche se fini' la sua vita come impiegato, ma che leggeva, studiava, si informava e approfondiva.
Ecco la cultura non e' il titolo di studio, conosco un netturbino ( pardon, operatore ecologico) mio grande amico, con la 5 elementare, figlio di un contadino ma con le palle come padre e come persona, che ha interessi culturali e anche se non possiede assoluta proprieta' di linguaggio fa riflessioni intelligenti che trae appunto dai suoi approfondimenti. Lui per me e' un uomo di cultura, che esce dalla massa.
Concludo : ci sono tanti e tanti che tengono corsi di fotografia, per molti Talbot e' un'automobile, Cartier bresson un orologio costoso, ma se gli utenti chiedono solo di imparare a regolare i comandi di una fotocamera digitale per eliminare l'effetto occhi rossi, basta e avanza.
Allora : si possono fare certi discorsi appunto " culturali" solo in una cerchia ristretta, non credo che a ogni costo si debba educare le masse alla fotografia, la fotografia, e la cultura, vanno scelte come stile di vita.
Qui a Palermo si e' concluisa una kermesse di manifestazioni garibaldine, per celebrare i 150 anni della conquista di Sicilia. Tali manifestazioni sono state fatte a misura di evento culturale per stimolare la massa palermitana e siciliana, ma ogni volta l'ingresso era ad inviti e c'erano solo le autorita' dei miei stivali, quelli che si f... le nostre tasse e ci tengono la citta' piena di immondizie. La cultura e' stata in questa occasione una autocelebrazione con dispendio di migliaia di euro dei contribuenti.
Lo stesso si sta facendo a Favara, nell'agrigentino, citta' dove pochi mesi fa sono morti due bambini sotto le macerie di una casa fatiscente : si sta progettando un grande evento "culturale" nel quartiere in oggetto, tutto fatiscente, tramite equipe di creativi e designers d'avanguardia che sperpereranno con effetti di luce e coreografie tanti soldi pubblici. Questa e' la loro cultura, tu Sandro ti riferisci ad una altra cosa, ma siamo in pochi a capirlo.
eugenio sinatra
palermo
Di sicuro non mi riferisco a quella che viene sbandierata come cultura e che ha come unico fine il coinvolgimento al potere delle masse. Altrettanto probabile che si tratti di un discorso recepito da una minoranza.
E proprio per questo credo sia necessario non smettere di farlo.
Credo che Herr Direktor colga nel segno, ancora una volta. Bisogna parlare di cultura, perché quello che ci viene propinato in ogni campo oggi è una sorta di sapere-ricetta, un elenco di azioni da intraprendere per fare "la buona fotografia", "il buon racconto", "il buon film" e così via. Come fossero delle checklist che prescrivono cosa è buona cultura e cosa no. Succede dappertutto, e la fotografia certo non ne è risparmiata, che le cose rientrino in logiche di consumo. Alla cultura dominante, per ora, non interessa l'approfondimento, il mettersi in gioco, l'investimento personale di tempo e risorse personali e culturali. Interessa il risultato, la roba pronta.
Fare cultura, allora, forse significa andare nella direzione contraria. Spendere ore a studiare un fotografo, quando la logica dominante suggerirebbe di farsi suggerire qualche "trucco". Passare più giorni a fotografare lo stesso evento. O aspettare prima di prendere la macchina.
ma non sarà diventando fastidiosa questa moda dei workshop George? improvvisamente vi lamentate della conoscenza, della cultura, dimenticando allo stesso tempo che anche l'insegnamento prevede una base alle spalle...
tutto vero ma di che stiamo a parlare? L'altro ieri mi ha scritto un curatore di una casa editrice che sta preparando dei volumi per il gruppo espresso chiedendomi delle foto, precisando però che non paga più di 20 euro a foto.
Secondo voi che gli dovevo rispondere?
Salve signor Iovine,
volevo dirLe che mi è piaciuto tanto il suo editoriale, soprattutto nella parte in cui si sostiene che lo Stile, naturalmente, è il frutto di un lavoro di anni, e che riguarda una serie di variabili legate intimimamente al soggetto che intende diventare fotografo, al suo modo di percepire il mondo, e non soltanto riguardanti la fotografia fine a se stessa.
Mi è venuto subito da pensare che colui che viene folgorato sulla via del clic, intuisce che quel desiderio di comunicare/creare insito in chiunque abbia un minimo di sensibilità e quella voglia di capire se stessi e il mondo, possa trovare una miracolosa risposta in uno scatto. Succede, a mio avviso, lo stesso miracolo della poesia: i poeti danno i nomi alle cose e alle emozioni: i fotografi...uguale!
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