«Dall'Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno; scoppiò da Scilla al Tanai, dall'uno all'altro mar.» No, no non son rigurgiti di incubi liceali è solo un’auto-ironica associazione di idee che mi ha assalito nottetempo ripensando ai giri fatti in ambiente fotografico nell’ultimo mese. Al di là delle consuete e dopo un po’ di anni abbastanza ripetitive attività redazionali, tra i compiti di chi dirige una rivista c’è anche quello di mantenere i contatti con i propri lettori. O almeno io ritengo che esistendo questa opportunità vada sfruttata al meglio per poter comprendere maggiormente il proprio pubblico e le sue esigenze. Si tratta di occasioni di confronto preziose per verificare quanto di ciò che cerchi di trasmettere arrivi realmente a chi ti legge. Così, senza alcuna pretesa di mettermi a paragone con l’imperatore di Francia cantato da Manzoni, se non per dar sfogo a un po’ di sana ironia, nell’ultimo mese mi sono trovato a passare dall’estremo nord est all’estremo sud ovest della penisola. Ho trascorso in fatti tre fine settimana su quattro a contatto con appassionati e studenti universitari che utilizzano la fotografia, passando da Lucinico, in provincia di Gorizia, a Venafro, in provincia di Isernia per chiudere a Palermo. Nel primo caso ho incontrato il locale fotoclub che aveva esteso l’invito ad altre realtà locali. A Venafro ho partecipato per la seconda volta al raduno annuale degli appassionati che si riconoscono intorno al marchio Nikon e infine a Palermo ho preso parte al laboratorio dell’Università. Come è facile immaginare le esigenze, le aspettative e il rapporto con la fotografia dei tre gruppi erano fortemente differenziate. Ma credo di poter affermare che in ogni caso ci fosse un minimo comune denominatore nella ricezione a legare le tre esperienze. A prescindere da una tutto sommata ovvia passione di fondo che unifica quanti hanno partecipato a queste tre esperienze, la cosa che mi pare di poter riconoscere in tutte e tre le realtà è un senso di sorpresa per quella che può essere la percezione della fotografia. Abituati come siamo a considerarla una pura esternazione di capacità tecniche o peggio tecnologiche, la proposizione di una fotografia intesa come duttile strumento di espressione di un pensiero pare essere una piacevole scoperta che accomuna i componenti dei tre gruppi cui sto facendo riferimento. Pur partendo da situazioni socio culturali assolutamente variegate, tutti manifestano i sintomi di un’educazione all’immagine carente e di una sottovalutazione della fotografia e del suo potere espressivo. Certo tutti ci riempiamo la bocca con frase del tipo un’immagine vale più di mille parole, ma se dobbiamo fare un utilizzo consapevole delle immagini iniziano i problemi. E spesso nemmeno ce ne accorgiamo. Fin troppo scontato ripetere che si tratta del frutto di un’educazione carente se non proprio inesistente sull’argomento. Inutile e forse addirittura fuorviante in quanto rischia di confinare il problema a un livello in cui a essere danneggiata appare solo la fotografia o l’immagine più in generale. Il vero problema invece inizio a pensare che sia a monte dell’immagine, nella vera e propria capacità di osservare quanto ci circonda. Mi ha particolarmente colpito uno dei feedback ricevuti più di frequente durante il laboratorio con l’Università di Palermo. Premetto che si trattava di un’attività didattica promossa all’interno delle facoltà di ingegneria e architettura, e che quindi i ragazzi sono più che abituati a confrontarsi intellettualmente sulle problematiche della città e dei suoi spazi. Bene una delle frasi che ho sentito ripetere più spesso è stata che l’aspetto interessante del lavoro svolto insieme era stato lo scoprire parti di città che non conoscevano o quantomeno non avevano mai visto in quella prospettiva. Al di là di quella che può essere la soddisfazione personale come docente nell’accogliere affermazioni di questo tipo, non posso fare a meno di chiedermi quanto sia preoccupante lo stato di un sistema scolastico (non mi riferisco ora all’Università, ma principalmente alle scuole dell’obbligo) che non riesce a risvegliare nei proprio studenti un minimo di attitudine all’analisi dell’ambiente (in qualsivoglia accezione) circostante. Temo che il problema non sia solo che poi gli orizzonti fotografici saranno limitati. Se non sappiamo osservare con attenzione quanto accade intorno a noi saranno ben altri i limiti che daremo ai nostri orizzonti. Ma al di là delle solite lamentazioni a riguardo cosa si può fare? È velleitario ipotizzare rivoluzioni culturali di qualsivoglia natura. Credo che semplicemente ognuno di noi debba prendere in mano la propria situazione personale e impegnarsi a sfruttare le occasioni che gli si offrono per trasformare lo stato delle cose. Rispetto a una decina di anni fa, quando ho preso in mano la direzione de IL FOTOGRAFO, credo di poter dire che si inizi, finalmente, ad avvertire un po’ di più l’esigenza di affrontare la fotografia in altro modo. Forse ora ho maggiori occasioni di confronto con i lettori un po’ in tutta Italia, ma devo dire che mi pare ragionevole affermare che rispetto a prima, ora ci siano maggiori richieste da parte delle aggregazioni di appassionati di approfondire aspetti che non siano meramente di funzionalità tecnica. Sempre più spesso ricevo richieste di approfondimenti relativi agli strumenti necessari per… squarciare il velo che permette di fruire del senso delle immagini. Prima invece sentivo chiedere solo aggiornamenti tecnologici, vissuti come unica prospettiva di fruizione della fotografia. Credo sia arrivato il momento di premere il pedale dell’acceleratore e vedere di provare a recuperare il gap terrificante che ci separa da buona parte del resto d’Europa (e non solo) circa la fotografia intesa come fruizione di qualità e di massa. Tocca a noi, non ad altri. Confrontiamoci e diffondiamo i frutti delle riflessioni che nascono in comune. Magari così riusciremo a lasciare ai nostri figli una situazione migliore, e non necessariamente solo dal punto di vista fotografico.
3 commenti:
Sempre parole sagge le tue.. alle quali aderisco pienamente.
L'unica domanda che mi pongo è quanto sia difficile oggigiorno distinguere il NOI dagli ALTRI....forse in diversi campi oltre quello della fotografia.
Però forse ho compreso male il senso della frase che più mi piace "Tocca a noi, non ad altri." e quindi ti chiedo: esattamente a cosa alludi col "noi" e col "gli altri"?
Intendo dire che non possiamo e non dobbiamo aspettare che la soluzione arrivi dall'esterno. Sia che per esterno si intendano le istituzioni, sia che si intendano altre persone che si inventino una soluzione al problema. Quello che voglio dire è che il cambiamento dipende dall'atteggiamento dei singoli che devono farsi promotori di un modo differente di pensare e vivere la fotografia (e non solo ovviamente). Un modo che non sia passiva accettazione dello strato più superficiale delle evidenze.
Questo è uno sforzo che ognuno di noi, come singolo individuo, deve cercare di compiere, indipendentemente dalla risposta o dall'atteggiamento di chi lo circonda.
Caro Sandro,
quel che più stimola un mio commento è la tua frase "Il vero problema invece inizio a pensare che sia a monte dell’immagine, nella vera e propria capacità di osservare quanto ci circonda".
Quanto hai ragione!
Per associazione d'idee (anch'io) ti parlo di quel che ci siamo detti con un amico. Premetto che mi occupo della gestione di cantieri per la costruzione di centrali fotovoltaiche. Un giorno accompagno il mio amico a visitare un cantiere in Basilicata, posto a 1000m di altitudine nel bel mezzo di una natura ben poco antropizzata: qualche stentato campo di grano, campi di fieno, qualche piccola vigna, qualche piccolo invaso per raccogliere le acque meteoriche e abbeverare le pecore, tanti pascoli e macchia mediterranea.
Insomma un PAESAGGIO che costituisce l'Immagine ed il carattere di un luogo, di una gente, un paesaggio che fornisce i prodotti gastronomici (e culturali) di cui il mio amico stesso è tanto ghiotto.
Sai qual'è stato il suo unico commento durante quella visita?
(testualmente) "Avete fatto bene a fare qui la centrale, tanto QUI NON C'E' UN C**ZO".
Mi chiedo quale possa essere la concezione di un (bel) paesaggio per il mio amico e per una persona di media istruzione (= media cultura?).
Sicuramente la gente quando si parla di paesaggio pensa a campagne "mulinobianchesche", baite alpine ricoperte da abbondantissime (e ormai improbabili) nevicate, lunghe spiagge deserte con acque cristalline.
E la gente viaggia tanto per raggiungere queste mete, ama questi luoghi e li vorrebbe "cristallizzare" nel loro stato di grazia.
E tutto il resto del nostro ambiente? Tutto il resto diventa un "oggetto" che si può modificare, sfruttare, valorizzare, cementificare, stuprare. Stuprare noi stessi, in fondo.
Siamo tutti affetti da presbiopia, guardiamo lontano, alle falde del kilimangiaro (quelle sulla RAI) e nel farlo calpestiamo i nostri fiori e permettiamo il taglio dei nostri olivi e querce secolari.
E non credo che il nostro sistema scolastico possa veramente risolvere il problema visto che la nostra educazione dipende in gran parte anche dal sistema televisivo.
Sandro, forse l'ho presa un pò troppo alla larga. Mi interesso di fotografia di paesaggio, ed intendendo per paesaggio ciascun luogo in cui un uomo possa trovarsi a vivere o a passare.
Nel nostro fotoclub (Puntofocale, a Barletta) io ed un altro paio di soci stiamo cominciando a fare la nostra parte e a "premere sul pedale dell'acceleratore". Personalmente sperando in una fotografia ed un mondo migliori.
Un abbraccio (se permetti).
Giorgio
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