domenica 27 novembre 2011

Fotografia e giornalismo oggi

La doppia pagina di apertura della cover story dedicata a Massimo Berruti suIL FOTOGRAFO 233.
Il lato giornalistico della fotografia è in crisi…. Lo sento ripetere dall’inizio degli anni Novanta. Il mercato si è contratto. La televisione prima, internet poi hanno eroso spazi sempre maggiori. L’informazione coniugata con l’intrattenimento ha ceduto sempre di più il passo a quest’ultimo, fin quasi a veder soccombere completamente la prima a favore del secondo. Dalla parte dei giornali, e di chi i giornali li fa, questo viene giustificato con l’esigenza commerciale di dare al pubblico quello che il pubblico vuole. Atteggiamento assolutamente pericoloso quando ci si trova di fronte a un pubblico che nel corso degli ultimi due o tre decenni è stato educato a quella superficialità e quel disimpegno che certo non favoriscono l’approfondimento implicito nel genere di fotografia di cui stiamo parlando. Personalmente trovo che tutto questo sia assai pericoloso, se non proprio dannoso a livello sociale soprattutto nel lungo periodo, in quanto contribuisce, e non poco, a generare un pubblico sempre meno cosciente e in grado di discriminare su quanto gli accade intorno. Comunque inutile piangerci sopra perché la situazione che piaccia o meno, è inequivocabilmente questa. Il vero problema per altro non è nemmeno quello della trasformazione della domanda del mercato, quanto piuttosto quello dell'incapacità di pensare un’alternativa da parte dei giornalisti che utilizzano la fotografia per raccontare il mondo. Lo specchio della situazione è stato a mio avviso offerto da quello che si può tranquillamente considerare il più importante Festival di fotografia giornalistica, che da quasi un quarto di secolo si tiene a Perpignan, ai confini tra Francia e Spagna. La rituale visita in occasione dell’edizione 2011 mi ha indotto uno stato di depressione abbastanza consistente, tanto da spingermi a considerare auspicabile quella fine, millantata un po’ da tutti i professionisti di settore da almeno una ventina di anni a questa parte e invece mai sopraggiunta in modo definitivo. Le indicazioni offerte da quanto ho potuto vedere a fine estate nella cittadina ai piedi dei Pirenei sono abbastanza sconcertanti. Si continuano a replicare schemi assodati, parlo di quelli narrativi, ma spesso perfino quelli compositivi riscontrabili all’interno delle singole immagini. Osservando un vasto panorama fotogiornalistico in un ambito spazio temporale ristretto è possibile rendersi conto di come tutti raccontando le stesse cose tendono a utilizzare gli stessi modelli di riferimento. Anche l’approccio alle possibilità offerte dalla tecnologia comunicativa contemporanea, da internet al multimediale, non fanno che aggiornare al supporto digitale tecniche di slideshow ben più che consolidate. Oltretutto con riferimenti discutibili nel momento in cui entrano in gioco competenze differenti da quelle richieste dalla produzione di immagini fisse. Tutti sintomi questi che non mi pare permettano di ben sperare e che, se uniti ai sintomi che provengono dal mercato e dal pubblico, mi hanno fatto pensare che forse sarebbe auspicabile una fine quanto più possibile veloce e rapida, senz’altro da preferire a qualsiasi lenta agonia. In altre parole, se questo è quello che hanno da offrire il reportage, il fotogiornalismo e il fotodocumentarismo, allora tanto vale chiudere bottega subito. Mi rendo conto oggi che sono state riflessioni dettate più che altro dalla delusione, dal rimpianto forse, conclusioni negative e istintive che probabilmente non attendevano altro che di essere smentite. 

La copertina de IL FOTOGRAFO 233
dedicata a Massimo Berruti.
Ma le smentite per fortuna a volte arrivano. E arrivano incontrando un fotografo che in barba alle tendenze generalizzate, non depone le armi, continua a cercare facendo dell’approfondimento e della professionalità il proprio pensiero e la propria azione. Un giornalista che dedica quasi quattro anni a un paese lontano per capire se le cose stanno come raccontano i media internazionali o se la realtà può essere differente. Parlo di Massimo Berruti di cui potete vedere una purtroppo limitata selezione di fotografie nel numero 233 de IL FOTOGRAFO. L’ho incontrato a Parigi qualche giorno fa (vedi post precedente) in occasione della mostra organizzata dalla Fondation Carmignac per celebrare il Premio Fotogiornalismo 2011 che Berruti ha vinto con il suo lavoro sulle milizie pashtun che lottano per mantenere il loro territorio libero dai Talibans. Ascoltando il suo racconto, il suo punto di vista, ma soprattutto le motivazioni che lo hanno spinto a recarsi dall’altra parte del mondo per ricercare la conoscenza di una realtà scoperta in prima persona e riportatarcela senza subire il condizionamento creato dai media internazionali. Un ragionamento e un sentimento che forse sono semplici in valore assoluto, ma che il tempo ci ha portato a perdere di vista, dimenticando quello che dovrebbe essere l’intento principale di ogni reporter e il motivo per cui questa professione è nata. Le parole di Berruti non nego che mi abbiano ridato speranza in un possibile futuro. Vuoi per la ancora giovane età di questo professionista, vuoi perché le motivazioni che lo spingono al lavorare e impegnarsi sono quelle che dovrebbero essere alla base di ogni operare giornalistico che non sia rivolto al mero intrattenimento compiacente del proprio pubblico. Se il fotogiornalismo e il fotodocumentarsimo hanno ancora un senso, al di là delle forme narrative ed espressive attraverso le quali si esprimono, bene allora quel senso può essere solo in una ricerca pura dei fatti, una ricerca che non sia condizionata dall’alleggerimento di tematiche poco gradite se pubblicate a fianco ad una pagina di pubblicità e/o condizionate dagli orientamenti della politica internazionale prevalente. Se il fotogiornalismo ha ancora un senso, l’unico che riesco a individuare rimane quello che giustifica l’esistenza stessa del giornalismo: la ricerca sincera e ininterrotta dell’origine e delle cause degli avvenimenti da offrire a chi non ha la possibilità di verificare di persona. Impariamo a preservare (o recuperare?) innanzitutto questo e poi potremo preccuparci anche di adeguare il linguaggio, che di sicuro ha bisogno di essere svecchiato.
Sandro Iovine
n. 233




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11 commenti:

Marco ha detto...

Ottima analisi Sandro.
Mi piace questa parte:

"Osservando un vasto panorama fotogiornalistico in un ambito spazio temporale ristretto è possibile rendersi conto di come tutti raccontando le stesse cose tendono a utilizzare gli stessi modelli di riferimento"

per quanto mi piaccia il reportage (in tutte le sue variabili) ho notato anche io questa cosa.
I modelli di riferimento sono i soliti (es salgado) e molti clonano.

Se posso vorrei segnalare questa (relativamente) nuova iniziativa di un gruppo di volenterosi fotografi sardi. Rivista auto-prodotta e sostenuta da chi la compra.

http://www.fuoritema.it/

Ecco un post a loro dedicato

http://www.visionionweb.it/seixsei/fuoritema-rivista-fotogiornalismo

Penso che come in altre cose se in Italia ci fossero meno costi di gestione e spese varie per la realizzazione di idea di questo tipo probabilmente ce ne sarebbero di più. Per chi non lo sapesse un qualsiasi foglio di carta stampato e distribuito con un informazione sopra in Italia deve rispettare le stesse regole del Corriere della Sera.

sandroiovine ha detto...

Grazie Marco. Conosco Fuori tema grazie all'omaggio che mi è stato fatto dei primi numeri durante un convegno a Cagliari presso l'Auditorium Tiscali e peraltro contavo di riuscire a occuparmene quanto prima in questo spazio. Mi hai dato un motivo in più ;-)

Dario Corso ha detto...

In tantissimi casi siamo (mi ci metto pure io) professori senza professione. Ovvero abbiamo strumenti tecnologici ma non abbiamo la capacità vera di usarli.
Così si inquina il panorama dell'informazione che, ingannato da una finta democrazia, fa diventare la maggioranza ragione e un modello da seguire.
In questo contesto per me assume una maggiore importanza il documentarsi e studiare, più che le basi tecniche le basi culturali della fotografia, conoscere a 360° (magari anche a 720° perchè un ripasso non è mai male :-) ) e capire sopratutto.
Solo attraverso una conoscenza compresa e maturata, forse, si può arrivare a proporre lavori originali, altrimenti saranno sempre delle copie mai riuscite.
Meglio allora essere maestri con un pò di maestria!

Marco ha detto...

Di niente Sandro.
Proprio in questo periodo sto leggendo il n° 2 (il terzo visto che sono partiti da 0) e devo dire che hanno fatto dei grossi passi in avanti, sia fotograficamente che dal punto di vista comunicativo come impaginazione e "confezionamento".
Bravi veramente

sandroiovine ha detto...

Infatti ce ne occuperemo presto: promesso!

Marco ha detto...

Da promoter dell'est italico ci conto!
Scherzo praticamente neanche li conosco, ma meritano!

Anonimo ha detto...

Ma in realtà il fotogiornalismo non so se sia morto, di sicuro sono morti i fotogiornalisti. Dove per fotogiornalisti intendo le persone che vivono di fotogiornalismo. A parte pochissimi esempi a livello planetario, la quasi totalità sopravvive facendo altro(matrimoni, stil life, moda, o workshop), è assurdo ma è un'assordante verità che nessuno si azzarda a dire ma il fotogiornalismo è praticato, anche a livello molto alto, di hobby. Perchè se non ci campi con una certa attività cos'è se non hobby?

Pietro Collini ha detto...

Il fotogiornalismo in crisi? Crisi di identità? Crisi di qualità delle immagini? Crisi di contenuti? Crisi di Mercato? Crisi di appetibilità da parte dei lettori?
Forse tutto, forse niente...
Oggi per un fotogiornalista serio, libero e soprattutto professionalmente saggiamente impegnato, non c'è vita facile. Tante volte gli editori di quotidiani o rotocalchi ti snobbano, il web e i media televisivi ti soffocano, l'uniformità ti uccide e allora ecco che ogni tanto compaiono delle perle rare come Berruti. Ma sono per amatori, per collezionisti di rarità, purtroppo, e come tali di nicchia.
Difficilmente vedremo le loro immagini su giornali o riviste di grande tiratura. Questo ha un senso per il fotogiornalismo, che per sua caratteristica primaria dovrebbe poter comunicare alla massa, al maggior numero di persone? A me pare, facendo un facile gioco di parole, un controsenso, una inutile fatica.
Buona giornata a tutti
Pietro

Michele Smargiassi ha detto...

Che dire Sandro? Hai raccontato la malattia e la medicina. Dislocarsi, degaggiarsi, detournarsi dalle abitudini e dai "filoni" e dalla foto-fatta-per-vincere-il-Wpp: o i fotografi fanno questo o finiscono nel gorgo non del digitale, come fai benissimo capire tu, ma dei loro stessi cliché abusati e ripetitivi. Io non fotografo ma vivo nel mondo dell'informazione e continuo a pensare che possa esistere un servizio fotografico che un giornale ha voglia di comprare. Ma se anche a Perpignan non c'è nulla che valga la pena (io però ho visto l'edizione di due anni fa e ne uscii meno pessimista), una buona volta diciamo che la colpa non è tutta e solo dei media cattivi e sfruttatori...

Anonimo ha detto...

Ma scusate se un giornale (grosso, per non parlare di quelli italiani che spesso le foto le rubano) pagano per un assegnato 250 euro lordi, come si fa a campare? Cioè ok il multimedia, ecc ecc.... ma anche in questo caso i soldi sono ZERO.
Il fotogiornalismo ha senso forse solo nei musei, come ricordo di un epoca che non è più. Chiedete quanti campano SOLO di fotogiornalismo......cioè anche Christopher Morris campa facendo servizi di moda........

Roberto Mignanego ha detto...

Quoto in toto l'ultimo intervento. Possiamo solo andare verso la scelta di una nuova forma, l'editoria è al collasso...