Quale filo logico può legare i Metrosexual alla nuova destra?
In entrambi i casi è possibile individuare una componente di aggregazione sociale intrisa di esteriorità: il riconoscimento per mezzo di una divisa, codice visivo espresso dall’abbigliamento. Indossare abiti che rivelino eccentrica fantasia e ambiguità sessuale più o meno reale o mettere una camicia nera, risponde a una esigenza analoga di riconoscimento all’interno di una struttura sociale. Il travestirsi, inteso in senso totalmente scollegato da connotazioni di tipo sessuale, denuncia antropologicamente la ricerca di un’aggregazione che la società sembra in difficoltà nel produrre.
Si tratta di fenomeni opposti all’apparenza che afferiscono da una parte all’appagamento edonistico all’interno di un gruppo relativamente limitato, dall’altra a un senso della nostalgia che tende a confondere presente e passato in cerca di una stabilità data da valori tradizionali. Ma quel che emerge è l’isolamento: si tende a frequentare solo il proprio ambiente e si vive nella prospettiva di primeggiare solo all’interno del proprio gruppo. Si sogna di intraprendere una carriera nel mondo della moda solo per continuare a vivere all’interno di una vita artificiale di puro edonismo. Ci si si riferisce a formazioni politiche che, a rigor di Costituzione, sarebbero al di là della legalità. Si profetizza l’abbandono della sfera d’influenza politico-economica statunitense e nel contempo se ne esaltano una serie di valori.
Ma si rimane isolati, quanto meno dal reale.
Gli Estremi hanno quindi molti più punti in comune di quanto non si sarebbe disposti ad ammettere a prima vista. Da ciò è nata l’idea di stimolare la riflessione attraverso l’analisi di fenomeni agli antipodi, per arrivare, poi, a quanto è compreso fra i due poli. E dal momento che l’esteriorità è pregnante, la fotografia è il territorio d’elezione per raccontarli.
Ma sorge un interrogativo riguardo al linguaggio. Il soggetto ha infatti finito per influenzare la ricerca degli autori, spostando il loro registro in funzione di ciò avevano di fronte. La matrice di formazione comune ai tre fotografi coinvolti è infatti il fotogiornalismo. Tutti e tre han lavorato partendo dall’analisi e dalla verifica delle fonti, con cui hanno definito la materia delineandone i contorni per procedere alla traduzione degli avvenimenti in ragione dell’elaborazione mediata dal dato esperienziale sul campo. Ma è qui che i lavori si vincolano alla natura del soggetto. Alessandro Sala, occupandosi della nuova destra, ha confermato il radicamento all’interno del fotogiornalismo d’approfondimento, con evidenze interpretative che tradisce la quotidiana frequentazione del lavoro di Alex Majoli. In questo è stato facilitato dalla forte relazione di contestualizzazione tra il luogo, Predappio, e gli eventi. La tipologia di situazioni gli ha permesso di attingere a stereotipi che rimandano alla più pura tradizione formale del fotogiornalismo. Il lavoro sui Metrosexual di Gabriele Micalizzi e Guglielmo Trupia è nato invece da un costante dialogo a due, ma non può non aver subito l’influenza della tensione dei soggetti verso il mondo della moda. Per questo il racconto finisce per mostrare una convergenza tra l’impianto iconografico fotogiornalistico e quello della moda. La stessa scelta di basare parte del lavoro sul ritratto posato, ha reso inevitabile lo slittamento verso formalità modaiole, senza che peraltro venissero trascurati i fondamenti di contestualizzazione del posato fotogiornalistico.
Ma se gli estremi possono raccontare la nostra società, definendone possibili confini, anche la controllata contaminazione formale, esprime qualcosa. E in particolare riflette il disagio del fotogiornalismo che sempre più ricorda un ancestrale cantastorie costretto a confrontarsi con un intrattenimento poliedrico, tecnologico, ricco di quella vuota fascinazione che rende assai noioso l’esprimersi in metrica del vecchio bardo. Questi per sopravvivere si snatura e tralascia i personaggi, dando spazio a elenchi di azioni che intontiscono il pubblico senza rapirlo, mentre la storia svanisce in parole volte solo a stupire.
Anche il nostro raccontare per Estremi vorrebbe stupire e generare un vuoto di comprensione, ma con la speranza che ci sia ancora qualcuno interessato a colmarlo.
Sandro Iovine
Le mostre fotografiche
Titolo rassegna: Estremi: tra edonismo e nostalgia negli anni 2000
Titolo mostre: Metrosexual, l’insostenibile leggerezza dell’apparire di Gabriele Micalizzi e Guglielmo Trupia
Camerati di Alessandro Sala
Curatore: Sandro Iovine
Inaugurazione: 31 maggio 2008 - ore 19,30
Durata Esposizione: 31 maggio - 29 giugno 2008
Orari: dal martedì alla domenica 16,30 - 20,30
Indirizzo: Su Palatu, Spazio Culturale per la Fotografia, Via Giovanni XXIII, Villanova Monteleone SS
Telefono: 079-961005
Web: www.supalatu.it
E-mail: info@supalatu.it
Dall'alto:
Eppur non si muove
«Parigi è distrutta dalla terza guerra mondiale e un uomo (Hanich) viene spedito nel passato e nel futuro per cercare di cambiare il corso della Storia». Inizia così la scheda che Il Mereghetti dedica al celeberrimo cortometraggio di Chris Marker La jetée realizzato nel 1962. Ventotto minuti di bianconero e immagini fisse (ad eccezione della scena del sorriso) che creano una suggestione irripetibile. Partendo dalla visione di questo corto sono nate, all’interno dei master di Comunicazione visiva e Reportage della John Kaverdash Accademia di Fotografia, le esercitazioni legate all’utilizzo della fotografia nella realizzazione dei corti video che vengono presentati nella microrassegna Eppur non si muove. L’evoluzione della comunicazione multimediale nella rete ha stimolato sensibilmente negli ultimi anni la produzione di motion picture in cui si affiancano commento sonoro e montaggio video alle immagini fisse, aprendo nuovi mercati soprattutto al fotogiornalismo. Si tratta per il momento di una forma di comunicazione tutta da definire che, perfino ai massimi livelli finora espressi, alterna ancora l’imitazione dei linguaggi cinematografici e video alla semplice sonorizzazione di slideshow. Scopo delle esercitazioni è stato dunque proprio quello di consentire il confronto con un linguaggio in fieri, con la finalità di mettere gli studenti in condizioni di elaborare dei lavori in linea con le attuali richieste di multimedialità del mercato. Intento di questa microrassegna è quello di provare a definire un punto di partenza da cui trarre elementi per sviluppare e codificare un linguaggio che acquisisca, con il tempo, una propria autonomia staccandosi dall’emulazione di forme preesistenti e dal retaggio culturale che a esse si aggancia inevitabilmente. I corti presentati, oltre a sfruttare l’immagine fissa, esplorano sia l’area narrativa (Quello che non vedi e Le Jetteur) sia quella legata al lavoro fotogiornalistico (Under whole) anche con risvolti profondamente intimisti (Viaggio Interiore).
Sandro Iovine
I corti in mostra
Titolo rassegna: Eppur non si muove
Titolo mostre: Quello che non vedi di Marcello Bezzi e Alfredo Bosco
Le Jetteur di Dodo Veneziano, Giuseppe Sinatra e Antonio Macaluso
Viaggio Interiore di Mario Iovino
Under whole di Gabriele Micalizzi
Curatore: Sandro Iovine
Inaugurazione: 31 maggio 2008 - ore 19,30
Durata Esposizione: 31 maggio - 29 giugno 2008
Orari: dal martedì alla domenica 16,30 - 20,30
Indirizzo: Su Palatu, Spazio Culturale per la Fotografia, Via Giovanni XXIII, Villanova Monteleone SS
Telefono: 079-961005
Web: www.supalatu.it
E-mail: info@supalatu.it
La realizzazione delle due rassegne è stata resa possibile grazie alla collaborazione di Su Palatu, Spazio Culturale per la Fotografia, Comune di Villanova Monteleone, IL FOTOGRAFO, HP Italia, CesuraLab e John Kaverdash Accademia di Fotografia.
Locarno, Svizzera. Louis (16 anni) e Patrick (17 anni). © Gabriele Micalizzi e Guglielmo Trupia.
Predappio, Italia, 28 ottobre 2006. Saluto romano di fronte alla tomba del Duce all’interno della cripta Mussolini. © Alessandro Sala.
Dal corto Quello che non vedi di Marcello Bezzi e Alfredo Bosco.
Dal corto Le Jetteur di Dodo Veneziano, Giuseppe Sinatra e Antonio Macaluso.
Dal corto Viaggio Interiore di Mario Iovino.
Dal corto Under whole di Gabriele Micalizzi.
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1 commento:
Ripetendo un'idea ricorrente e ritrita, potremmo dire che viviamo un'epoca di decadenza. Ma la differenza tra dire queste parole e sentirle fino a rendersene conto, sta, credo, nel dare ancora importanza alle parole stesse come portatrici di significati e di concetti maturati dalla storia. "Rendersi conto" è forse quello che hanno fatto tutti gli autori di questa mostra, entro la porzione di realtà che hanno scelto di raccontare.
Credo che questa iniziativa, visto come viene presentata, possa portare con sé un notevole merito nel raccogliere reazioni interpretative ai/dei sintomi della contemporanea decadenza, attraverso i temi, ma anche attraverso diverse forme... forme che cercano di strappare o trapassare il velo d'incomunicabilità che sembra affliggere i linguaggi.
Decadenza non significa solo ripiegamento ottuso e nostalgico, o predilezione per un qualunque eccesso che distragga, significa e implica anche incipiente sotterraneo cambiamento; quel cambiamento che fa percepire incertezza e fa barricare dietro forme ormai vuote. Credo la comprensione della decadenza somigli all'elaborazione di un lutto. Ma di un lutto per il quale non si possa reperire il cadavere. Marco Belpoliti meno di 3 anni fa in un piccolo libro illuminato (Crolli), riflettendo su alcune parole di Susan Sontag, (ri)scriveva: «Non è un'apocalisse quotidiana. La nostra è piuttosto un'epoca di banalità ininterrotta. [...] Viviamo un «tempo penultimo»: una fine che non finisce di finire.». E l'incertezza, «l'insicurezza», che consegue da questo stato, per essere sopportata «è alla moda» [1907, titolo de La Pétite République ricordato di recente da Barbara Spinelli].
Forse il cadavere della Nostra epoca di decadenza è il Senso. Speriamo sia solo un'eclissi, ma... come scrive Umberto Galimberti «siamo nel mondo della tecnica e la tecnica non tende a uno scopo, non produce senso, non svela verità. Fa solo una cosa: funziona.» Funziona... come altri fenomeni che ci risparmiano la fatica del pensiero e attutiscono il senso di responsabilità che il pensiero distingue.
Mi viene da credere che la malattia, di cui pare portatore non sano il fotogiornalismo, sia una nostra malattia, e che il fotogiornalismo sia solo uno specchio in cui abbiamo l'opportunità di vedere quello che ci sta succedendo... peccato che non abbiamo gli strumenti o anche solo la lucidità per rendercene conto. Del resto è perfettamente umano pensare che sia lo specchio a distorcere...
Barbara Spinelli circa un mese fa ha usato un'espressione precisa per definire un fenomeno dilagante e che mi pare in sintonia con quanto scrive da tempo Sandro Iovine sul fotogiornalismo (per sopravvivere si snatura e tralascia i personaggi, dando spazio a elenchi di azioni che intontiscono il pubblico senza rapirlo, mentre la storia svanisce in parole volte solo a stupire): «L'emozione che prende il posto della comunicazione [...]. La stampa invece di registrare e interpretare escogita titoli-arpioni.»
Per concludere, verificare in questa mostra la presenza di più forme di linguaggio per diverse forme di Estremi di una decadenza in corso, mi sembra sintomatico dell'urgenza che la comunicazione finalmente riesca.
A me pare un buon segno. Mi pare significhi che «l'ospite inquietante», di nietzschiana memoria, qualcuno stia cercando di «guardarlo bene in faccia» [Martin Heidegger]. Il rischio nell'ignorarlo o «metterlo alla porta» [M. Heidegger] parrebbe essere non tanto diventare «stupidi», quanto diventare «banali», rimanere «semplicemente senza idee»: distinzione acuta di Hannah Arendt nel definire Eichmann.
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