Parigi, Quai Branly, l'esposizione principale del Photoquai 2011. |
Parigi, Quai Branly, Photoquai 2011. |
«Photoquai 2011 è un viaggio all'ascolto del rumore del mondo, nutrito dallo sguardo dei fotografi sullo stato della loro società e sullo stato di culture altre rispetto alla loro. Sono per noi sentinelle, guardiani che ci impediscono di dormire. Poiché il fotografo è distaccato rispetto al soggetto che riprende, il suo sguardo manca raramente di ironia o di scherno. A vederla in un altro modo, si vedono altre cose spiegava Heinrich Wölfflin. È proprio quest'altra cosa che ho cercato per Photoquai, e che ho tentato di inseguire in tutta la mia vita.»
Con queste parole Françoise Huguier esordisce nella presentazione dell'edizione 2011 del Photoquai, la biennale des images du monde che ha raggiunto quest'anno la sua terza edizione. Si tratta di un evento dedicato alla fotografia che ha il grande pregio di offrire un panorama che, pur essendo inevitabilmente parziale, spazia su quel mondo della fotografia sistematicamente o quasi ignorato dal sistema culturale occidentale cui apparteniamo. Se si fa eccezione per la Cina, che i fatti economico-politici hanno portato necessariamente alla ribalta negli ultimi anni, di fatto sappiamo pochissimo, o niente, di ciò che accade nel mondo della fotografia asiatica, africana, latino americana, australiana... Per questo iniziative come quella del Photoquai sono fondamentali, anche se per poterne fruire è necessario prendere un aereo e andarsene a Parigi.
Parigi, Quai Branly, Photoquai 2011. |
Ovviamente non tutto quel che brilla sotto il sole è oro e scommetto che molti in questo periodo sorriderebbero all'idea di far le pulci ai cugini d'oltralpe per vendicare l'orgoglio patrio affondato dalle risatine di Sarko in antitalica combutta con i crucchi guidati dalla terribile Angelona di Germania. E, a volercisi mettere, basterebbe iniziare dall'illuminazione notturna saltata su parte della mostra allestita su Quai Branly... Ma prima di lasciarsi andare a riflessioni ottuse di questo genere, forse varrebbe la pena di farsi le solite domande, quelle che è inevitabile porsi ogni volta che si fa un salto all'estero e in Francia in particolare (ok, ok lo riconosco: ho un certo debole per i Galli quando si occupano di fotografia). Per esempio vale la pena di chiedersi se da noi, a Roma, allestendo una mostra analoga sul Lungotevere si otterrebbe la stessa affluenza di pubblico. Le immagini che vedete sono state scattate sabato 4 e domenica 5 novembre... particolare non indifferente: la mostra era aperta dal 13 settembre e avrebbe chiuso i battenti l'11 novembre... Quindi, se la molla che scatena la visita fosse stata quella della curiosità del pubblico per l'esotica esposizione, probabilmente il grosso si sarebbe potuto già considerare esaurito da tempo. Del resto il privilegio di aver assistito al Photoquai fin dalla prima edizione mi permette, sulla scorta delle esperienze pregresse, di confermare un afflusso continuo e indipendente dal giorno della settimana o dalla vicinanza all'inizio o alla fine della manifestazione.
Parigi, Quai Branly, Photoquai 2011, la macchina per fototessere senza volto all'interno della mostra Faceless dell'indiano Mohan Verma, che analizza il rapportotra immagine reale degli individui e immagine imposta dalla società dei consumi. |
Parigi, QuaiBranly, Photoquai 2011. |
Inoltre passeggiando tra le immagini in mostra ho avuto la sensazione che ci fosse una sorta di tematica sotterranea a sottendere il Photoquai 2011. La presenza di così tanti lavori riguardanti le identità di genere e la loro incidenza sociale, mi è sembrata eccessiva in relazione alla dichiarata neutralità tematica della manifestazione (vedi ad esempio Repent or die, 2010, del malese Khee Teik Pang, Conducta impropria, 2008, del cubano Alejandro Gonzáles o Isarn Boy Sol 4, 2008, del tailandese Maitree Siribon). Senza contare che peraltro le problematiche in questione risultavano interpretate a mio avviso spesso in maniera abbastanza edulcorata. Voglio dire che, ovviamente, non ci troverei assolutamente nulla di male se i curatori decidessero di affrontare apertamente il tema. Anzi troverei che sarebbe di estremo interesse confrontarsi con il differente approccio di culture che sono molto più lontane da noi di quanto il mito della globalizzazione non abbia voluto farci intendere. Forse sarebbe doveroso, oltre che interessante, occuparsene. Ma mi chiedo: perché non farlo apertamente? Perché nascondersi dietro un generico bruit du monde? Perché non tematizzare dichiaratamente almeno una sezione?
Parigi, giardini del Musée du Quai Branly, Photoquai 2011, Boujmal, 2005-2011 di Nicène Kossentini. |
Parigi, giardini del Musée du Quai Branly, Photoquai 2011, la mostra della malese Minstrel Kuik. |
Parigi, giardini del Musée du Quai Branly, Photoquai 2011, Fake animals, 2009-2011 di Andrei Liankevich. Bizarro, sempre a mio avviso, anche il testo introduttivo della mostra Fake Animal del bielorusso Andrei Liankevich, che presentava una serie di immagini quadrate abbastanza suggestive di animali impagliati. Sorvolo sull'imbarazzante aneddoto della mamma parigina che indica le foto al suo bambino con fervore paideutico al grido di «Guarda che belli gli animaletti!» e alla quale il piccolo risponde con un lucido e sconcertato «Ma sono morti...», in quanto il vero imbarazzo è subentrato leggendo l'apologia tassodermista nel testo di presentazione che arriva a scomodare addirittura non meglio precisati riti pagani slavi. Sinceramente ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a un curatore che deve sostenere a tutti i costi un lavoro in cui quantomeno non crede fino in fondo. Ma ovviamente è probabile che sia solo un'errata impressione personale fondata sulla mia profonda ignoranza della materia. Ignoranza che, in tutta sincerità, non prevedo di colmare a breve...
Premesso che in futuro cercherò di ritornare sui singoli autori per una disanima un po' meno superficiale, per concludere voglio citare il lavoro che, forse per le contingenze socio-politiche che stiamo vivendo, mi ha suscitato il maggior interesse. Alludo a Saddam is Here del curdo-iracheno Jamal Penjweny proposto da Françoise Huguier. Il suo lavoro propone una serie di immagini di cittadini iracheni che sovrappongono il ritratto del dittatore Saddam Houssein al loro volto. Un modo molto chiaro per ammettere e denunciare al tempo stesso la responsabilità di un intero popolo nella storia recente del proprio paese. Argomento forse meno lontano dalla nostra quotidianità di quanto non possa far credere il riferimento diretto alle vicende del recento tragico passato dell'Iraq. |
Parigi, Quai Branly, Photoquai 2011, una delle immagini dl Saddam is Here di Jamal Penjweny. |
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