martedì 3 febbraio 2009

Quanto ci ha cambiato la fotografia


È l’8 luglio del 1839 e la camera dei Deputati francese è riunita a Parigi per ascoltare la Relazione sulla dagherrotipia richiesta dal ministro degli Interni Duchatel al fine di esaminare il progetto di legge che avrebbe attribuito a Louis Jacques Mandé Daguerre e Isidore Niépce, erede di Nicéphore Niépce, un reddito annuale come contropartita economica per aver acconsentito a rendere pubblico il procedimento della dagherrotipia. A parlare a nome della commissione costituita da altri otto parlamentari è François Arago. La commissione aveva come compito quello di rispondere fondamentalmente a quattro punti: se la dagherrotipia fosse incontestabilmente un’invenzione, se avrebbe potuto arrecare servizi di qualche valore all’archeologia e alle belle arti, se avrebbe potuto diventare un bene comune e infine se le scienze ne avrebbero potuto trarre vantaggio. Come si vede fin dall’inizio tutte le questioni, anche in prospettiva delle motivazioni iniziali dell’analisi svolta dalla commissione, si rivolgono in direzione di un utilizzo strumentale dell’immagine fotografica. Gli accenti posti sulle qualità della fotografia sono quelli che segneranno la percezione della stessa nei decenni successivi fino ai nostri giorni. La dagherrotipia assicurerà, ad esempio alla Commissione per i Monumenti Storici, documentazioni non solo più precise, ma anche più economiche. Ma una funzione, sempre strumentale la dagherrotipia, l’avrà anche nei confronti dell’arte. A conferma Arago cita una nota di Paul Delaroche esplicitamente interrogato dalla commissione sull’argomento.
«In tale procedimento il pittore troverà un mezzo rapido di fare un insieme di studi che, per quanto abbia talento, non potrebbe mai ottenere se non con molto tempo, molta fatica e in modo molto meno perfetto». La dagherrotipia per Delaroche e Arago non penalizzerà né artisti né incisori perché «riassumendo la stupenda scoperta del signor Daguerre, è un enorme servizio alle arti». È l’inizio di una storia che arriva ai nostri giorni. Una storia nel corso della quale molti si interrogheranno sul valore strumentale o artistico della fotografia. I primi avventandosi da una parte contro la produzione meccanica e dall’altra contro la riproducibilità virtualmente illimitata dell’immagine subentrata con l’introduzione del processo negativo-positivo negheranno, in funzione dell’assenza dell’intervento diretto della mano dell’uomo, ogni possibilità di contenuto artistico da parte della fotografia. I secondi invece punteranno la loro attenzione sulle condizioni mediatrici della visione per ricondurre la fotografia ad un contesto di pensiero umanistico all’interno del quale generare un ruolo fondamentale degli aspetti decisionali del processo creativo. Non è certo questo il contesto adatto per affrontare la questione. Vale solo la pena a mio avviso di rilevare come per molti alla fotografia debba essere attribuito un ruolo di affrancamento dell’arte nei confronti della rappresentazione del mondo che le ha permesso di sviluppare direzioni di ricerca svincolate dal realismo iconografico. A fronte delle tesi afferenti a questo nucleo di pensiero ve ne sono altre che teorizzano al contrario che la fotografia non sia che una conseguenza inevitabile del processo evolutivo dell’arte che comunque si era già rivolta in quella direzione. Tesi quest’ultima abbastanza interessante se si confronta con quelle che intravedono in Platone il generatore occulto di quegli spermatozoi che avrebbero fecondato nei secoli a venire l’utero del nichilismo occidentale da cui la fotografia stessa avrebbe preso vita. Si tratta di argomentazioni che richiederebbero molta attenzione per azzardarne una valutazione di qualunque tipo, ma come già detto non è questa la sede.
Mi preme però sottolineare che al di là dell’individuazione concreta delle ragioni a favore o contro una o l’altra delle posizioni citate e di quelle omesse, quella che rimane è comunque un’eredità pesante, testimoniata anche dall’ampiezza e complessità del dibattito che va ben oltre quanto appena tratteggiato in modo deliberatamente parziale. La fotografia ha pervaso strutturalmente la nostra percezione del reale, anche se non ce ne rendiamo conto. Un esempio per tutti è offerto l’appiattimento dell’attenzione di tutti noi che, come notava Franco Vaccari alla fine degli anni Settanta, è stato portato a un livello medio in cui l’estremamente grande e l’estremamente piccolo hanno perso i loro connotati relazionali con la scala umana per fondersi in una familiarizzazione dello spazio all’interno della quale finiamo per subire la fascinazione dell’indifferenza.

Sandro Iovine

n. 202 - febbraio 2009



Compatibilmente con i tempi redazionali, i commenti più interessanti a questo post potranno essere pubblicati all'interno della rubrica FOTOGRAFIA: PARLIAMONE! nel numero di marzo de IL FOTOGRAFO.



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11 commenti:

Fulvio Bortolozzo ha detto...

Ho letto con interesse il tuo post.
Penso però che la diatriba infinita tra l'uso strumentale e artistico della fotografia sia tutta interna al mondo ristretto dei "fotografi", in specie quelli "amatoriali con ambizioni artistiche". Fuori da questo fortino asssediato dai tartari della comunicazione e dell'arte contemporanea il problema non si pone. Ci pensò il buon Marcel Duchamp a risolvere il problema azzerando, proprio anche grazie alla fotografia, tutto ciò che si poteva considerare "artistico" per ridurlo a puro pensiero estetico. Forse solo qui da noi in Italia si fa così fatica a capirlo, nonostante sia passato quasi un secolo da quell'orinatoio famoso.

In ultimo, una errata corrige: ti è scappato un 1939 al posto di 1839.

Ti saluto.

sandroiovine ha detto...

Grazie Fulvio refuso già corretto. Senz'altro la diatriba è vissuta in modo sentito dal mondo fotoamatoriale, che par altro tende a dirimerla in modo a mio avviso un po' troppo semplicistico. Ma il senso dell'intervento non era mirato a riaccendere al discussione su questo su questi particolarismi. Semmai voleva essere uno spunto per il lettori della rivista intanto per approcciare in modo morbido il problema ma soprattutto per favorire la coscienza della presenza di una serie di riflessioni sulla fotografia che a persone del tuo spessore culturale di certo non sfuggono, ma di cui i più ignorano l'esistenza. Semplicemente uno spunto per cercare le radici di ciò che facciamo e prendere coscienza delle potenzialità positive e negative dell'utilizzo e della fruizione passiva dello strumento. La deriva lunga del discorso non è, dal mio punto di vista, tanto artistica, quanto politica, in senso etimologico ovviamente.

Danx ha detto...

Vecchia diatriba!

La fotografia al servizio dell'arte è un concetto così noioso, ma hai fatto bene a scrivere di questa storia dell'800, siccome si protrae appunto fino ai giorni nostri!

La fotografia è ambivalente, è artistica e realistica e quando è quest'ultima cosa è utilissima per portare ricordi precisi del passato (non dovendo dipingere, puoi avere molti più ricordi o pezzi o chiamali come vuoi.).

Inoltre, come ben sanno gli amanti della street ph, l'unione dei propri pensieri, tramutati in uno stile personale, con la realtà, fa nascere arte.
Il mio modo di riprendere una persona è dato da mie idee e su di essa e sul luogo in cui si trova, il modo di riprenderle di un altra persona sarà avvalorato da altre sue idee. Questo perchè, almeno da quel che faccio, io uso la fotografia come mezzo per avere sotto forma di immagine mie idee di vario tipo.

Poi ovvio che il vero fotografo che vede il mezzo come fine, sarà più attirato dalla realtà che dalle proprie idee che si fermano all'immagine e alle formule.

Ciao

Anonimo ha detto...

Caro Sandro,
al di là del fatto che personalmente credo che ogni attività umana che risponda ad esigenze estetiche - in senso ampio e più che altro etimologico, ad un bisogno cioé di dare corpo ed evidenza ad un proprio pensiero - possa essere arte nel momento in cui chi la produce abbia consapevolezza e dei propri intenti e dei propri mezzi; al di là di questo, dicevo, credo che il tuo post sia assolutamente opportuno.

Non è mai fuori luogo, infatti, (ri)proporre riflessioni che per alcuni saranno nuove, e per altri così scontate da rischiare talvolta di non tenerne più conto.

Ricordo che lo stesso discorso di Paul Valery, scritto per celebrare il centenario della nascita della fotografia, sembrava dare preponderanza all'uso cosiddetto "strumentale" della fotografia, sicuramente perché è quello le cui ricadute sulla società sono più evidenti e a volte più pericolose, proprio come tu hai scritto.
Tuttavia, rileverei pure il fatto che non è la fotografia di per sé colpevole di questa confusione che riesce a generare. Lo sono piuttosto i mezzi che la diffondono indiscriminatamente, senza (o raramente) mediandola attraverso le parole.

Anonimo ha detto...

La questione sollevata è antica quanto la fotografia stessa e sono assolutamente d'accordo con l'amico Fulvio sul fatto che solo in una ristretta cerchia di "adepti" ci si ponga il quesito. D'altro canto è innegabile l'evidenza sull'uso della fotografia da parte delle più disparate attività, non necessariamente artistiche.
Ritengo tuttavia "normale" il suo utilizzo come veicolo di espressione culturale. Forse è più importante la questione di quale "cultura", oggi, la fotografia veicola.
Se inizialmente era il mezzo per riprodurre con precisione la realtà sfuggente ora, associata al resto dei media, offre una realtà filtrata e mediata da chi la usa.
Per questo, la vera questione da affrontare, come già fatto più volte in questa sede, è proprio la capacità del pubblico di leggere la fotografia e capire quello che stà sotto la "normale" riproduzione di quella realtà.

Anonimo ha detto...

Buonasera Sandro,

credo sia utile sottolineare che la fotografia ha avuto un impatto, sulla civiltà occidentale, pari almeno a quello che ha avuto la stampa di Guttemberg a suo tempo. Come essere sintetici?

La fotografia ha portato, come la stampa, ad uno squilibrio "visivo" della nostra cultura, da più parti sottolineato. Sia nel privato che nel pubblico, sia nell'artistico che nel commerciale, sia nella realtà che nella propaganda, la fotografia ha raggiunto una forza pervasiva dominante (si sono aggiunti poi il cinema e la tv) nella nostra cultura, deviandola nel visivo.

E' un discorso enorme, ma per quanto riguarda la fotografia documentale o giornalistica ha subito un'accelerazione dall'invenzione del "wire" con l'avvento del "telefoto". Dopo poche ore in mezzo mondo (quello tecnologicamente avanzato e dominante) la maggior parte dei "decision maker" assimilavano la forza documentale come un dato di fatto, come realtà. Successivamente la fotografia è stata usata, assieme alla tv, superata da essa ormai, per manipolare informazioni ed eventualmente coscienze e consenso. In risposta a questo troviamo ora la pubblicazione di fotografia "dei lettori" su alcuni quotidiani. A dare una finta vicinanza come giustificazione di plausibilità per il contenitore mediatico: ricerca del consenso tramite assenso. Anche per recuperare la credibilità persa dall'uso e diffusione delle nuove tecnologie di falsificazione e manipolazione. Nessuno crede più alla fotografia, forse al fotografo ma la verità è comunque distante: questa non è una pipa.

Quindi, si: la fotografia ci ha cambiato, eccome. Ha anche dato voce alle diverse letture della realtà e del tempo (dall'entelechia all'istante infinito), dai quali ricordo a differenza di altre arti non può prescindere, permettendo di sottolinearne la forza.

E questo, ora, spaventa?

Quale cultura?


Buona serata.

Sandro Bini ha detto...

Caro Sandro
Concordo con Fulvio Bortolozzo.
La diatriba fra uso strumentale e artistico della fotografia è superata da tempo o anzi dovrebbe esserlo. Faccio solo un nome Atget, sulle cui intenzionalità artistiche (almeno dichiarate) ci sarebbe molto da discutere... Che la fotografia ci abbia cambiato poi non credo ci siano dubbi. A livello culturale con la deriva nel visivo, giustamente evidenziata da altri tuoi commentatori, a livello personale poi..... Apprezzo molto il tentativo di coinvolgere un pubblico gneralmente piu attento a questioni tecniche e formali su questioni politiche e culturali, anche se credo che ciò dovrebbe essere fatto in maniera piu organizzata pensando ad esempio ad uno spazio divulgativo sulla rivista dedicato alla storia e alla teoria della fotografia.
Sandro Bini / Deaphoto

Sandro Bini ha detto...

Caro Sandro
Accolgo con doverosa attenzione le tue giuste puntualizzazioni. Conosciamo tutti i problemi del mercato editoriale e le ovvie necessita economiche di una rivista di settore che vive con gli sponsor e le vendite, la mia non voleva essere assolutamente una critica, ma solo un incoraggiamento a continuare sulla linea editoriale da te intrapresa e immagino anche con quali difficoltà e che vi differenzia indubbiamente da altre testate. E concordo pianamente con te che sia compito degli educatori spostare il tiro. Noi Deaphoto, nel nostro piccolo, come Associazione attivà della dittatica fotografica tentiano (anche noi con molti sforzi) di spostare un po dell'attenzione dalla tecnologia alla cultura o come dice un nostro socio (Michelangelo Chiaramida) dalla tecnica alla tattica... quello in cui speriamo e per cui lavoriamo e insomma una sinergia di intenti fra tutti gli operatori piu sensibili in modo da poter conciliare in maniera migliore le le regole ciniche del mercato con piu ampie esigenze culturali in modo allargare pian piano il gamma degli interessi di appassionati e lettori. In tutto questo credo che una componente di rischio sia inevitabile... ma forse vale la pena lo stesso di provare.
Grazie dei continui stimoli di riflessione.
Un caro saluto
SB

Anonimo ha detto...

Cari Sandro,
concordo sull'utilità di condividere intelligenza per meglio affrontare un tema, dinamico e mutevole, quale il rapporto della nostra cultura con la fotografia e in definitiva con il suo uso.
L'uso delle pagine di una rivista, soggetta più a dinamiche economiche che culturali, alle volte può essere limitante ma anche un buon metro di paragone con la realtà. La fotografia ha a che fare con la realtà, la nostra cultura con la "perfettibilità", che induce un sistema economico autoreferenziale, all'inseguimento di se stesso. Producendo di conseguenza la "cultura commerciale", quella vendibile.
Vendere informazioni è sempre stato il problema: ora la cultura chiede i "megapixel" una volta chiedeva il baritata 30x45 o ottiche Tstar, ma rimane importante a mio parere tenere aperto il dialogo con il "soggetto" della fotografia. La foto non è solo un corpo a se stante bidimensionale, è ancora la rappresentazione (o interpretazione) di una realtà. Chiediamoci quindi qual'è il rapporto della società con se stessa e con i suoi soggetti, reali o meno, dando come assunto che la fotografia (e le sue idiosincrasie) può ancora essere un valido strumento di indagine, se letta profondamente. Partendo dal ragionamento inverso: quanto la società ha cambiato la fotografia, possiamo forse arrivare ad avere un'immagine più nitida di questo specchio riflesso. Cosa leggiamo di noi nelle manipolazioni date ad essa negli anni, quale realtà è stata prodotta?
Mi scuso per le semplificazioni e la superficialità con cui tratto certi argomenti, di fatto enormi e molto più profondi, ma non è il luogo e neppure il mezzo in cui è utile sviscerare il senso di tutti i termini usati.
Manca il tempo di riflettere ma apprezzo lo sforzo che è possibile fare unendo più intelligenze, se il fine è dialogare e crescere insieme.
Buon fine settimana.

f.

Anonimo ha detto...

E' mai possibile che il diavolo abbia ricevuto più attributi dell'arte,
quando questo è un'invenzione quanto quella? "La fotografia non è arte
perchè.....". Si applichi invece il metodo scientifico: "L'arte
è ....!!!!". Ci sono allora espressioni fotografiche che soddisfano il
teorema formulato? Se si la fotografia può essere arte, altrimenti è
sempre e solo documento. Credo che questo sia il "solo" modo per capire
che cosa , o chi, esclude/include la propria formulazione; che non sia
proprio la fotografia a dover per coerenza logica venir rivalutata?
Bene scientificamente si cambi allora la propria teoria! E' un buon
esercizio di consapevolezza sui propri pensieri, o giudizi che stanno
prima del giudicare(i pregiudizi son sempre quelli degli altri).Che
cosa secondo mè è arte? L'arte è un prodotto con funzione
comunicativa, e fin qui sto nell'ovvio. Non è arte perciò un fatto di
vita (un tramonto) finchè la soggettività dell'esperienza non viene
soggettivamente codificata per il soggetto usufruitore; il primo è
l'artefice.Un'immagine allora diviene arte quando mi
suscita "qualcosa": riflessione, emozione, interesse...ecc.. Perciò
l'arte è soggettiva! Per dirla con Nietzsche "L'arte è fisiologia
applicata".

Fulvio Bortolozzo ha detto...

Caro Sandro,
mi dispiace molto di aver contribuito alla deriva "fotografia vs arte" dei commenti al tuo post, con il mio iniziale accento su questo aspetto.
Per fare ammenda, cerco ora di avere il medesimo "successo" dando una mano a riportare il discorso nell'alveo che desideravi.

Certamente, dalla diffusione dell'immagine fotografica è derivata una valanga imprevista per gli umani. Per i successivi 170 anni da quel fatidico 1839, il moltiplicarsi delle fotografie ha finito per sovvertire il rapporto tradizionale tra immagini ed esperienza diretta: le prime furono sempre poche, mentre la seconda era la "via maestra" della quotidianità. Non c'è dubbio che la gran parte dell'esperienza dell'uomo contemporaneo si forma per via mediatica e in massima parte "ottica". Non c'è rimedio, se non la consapevolezza che un'ancora, se non di salvezza almeno di resistenza, sia nel riportare l'accento sull'esperienza diretta. Per questo motivo trovo estremamente interessanti tutti quei lavori fotografici che si fanno sul privato o su piccoli territori domestici. Situazioni che possono essere non solo viste in fotografia, ma anche esperite direttamente da chiunque.

Questo è il mio centesimo.