mercoledì 1 aprile 2009

Da San Donato (Milano 2009) a viale Jonio (Roma 1980)

Alessandro, uno degli studenti del corso di reportage che sta per cominciare, mi ha scritto dei suoi dubbi etici sulla fotografia. Approfitto dell’Editoriale per condividere la riflessione che è scaturita dall’e-mail su quella che in definitiva altro non è se non una delle più critiche e dibattute tematiche del fotogiornalismo, di cui dovrebbero farsi carico anche i seguaci della cosiddetta street photography. Le lettera di Alessandro: «[...] Oggi son andato a fare l'esploratore in dei vecchi stabili dell'ENI a San Donato… mi è successa una cosa un po’ strana… ero in giro per questi stabili e voltandomi un attimo sulla sinistra ho visto per terra una persona con il collo appoggiato allo stipite della porta… devo dire che subito ho pensato fosse morta, poi ho subito pensato che fosse un tossicodipendente. La seconda ipotesi era giusta, e comunque dormiva, anche se la posizione era del tutto innaturale e oserei dire scomoda… Ho fatto due foto, non mi son esposto molto, la situazione era tranquillissima ma un certo brivido gelido l'ho provato… Però una cosa mi ha un po’ preoccupato, non per questa situazione, ma come sintomo e base di un ragionamento più ampio. La ricerca di certe cose, l'inconscio cercare un determinato stato psicofisico, da cui io son molto attratto (probabilmente più addicted), potrebbe portarmi ad infrangere le norme che la mia etica mi sottopone? Potrebbe arrivare a farmi falsare la visione di determinate cose che voglio raccontare attraverso la fotografia? Lo dico e lo chiedo a lei perché conosce sicuramente molti fotografi che si son posti le mie stesse domande… ed hanno affrontato questo problema...».
E la mia risposta: «Alessandro, di fotografi professionisti, anche di conclamato livello internazionale, che si siano posti questo tipo di domande certamente ne conosco, ma dal mio punto di vista il loro numero rimane comunque troppo esiguo rispetto al totale... In realtà non credo esista una risposta ai tuoi dubbi, se non quella che troverai da solo analizzando te stesso e il tuo lavoro. Posso al massimo dirti come la vedo io. Credo che sotto il profilo etico ci sia (entro i limiti del rispetto di dignità e integrità fisica del soggetto e di stessi ovviamente) poco da preoccuparsi per ciò che avviene al momento della ripresa. Segui il tuo istinto e vai dove ti porta. Prendilo come un modo per conoscere meglio te stesso e, se del caso, ciò che ti droga. Al momento dello scatto sentiti libero, sempre nei limiti del buon senso e del rispetto per gli altri. In fase di selezione potrai trarre a tavolino e a mente fredda e lucida le conclusioni di quanto hai fatto sia sotto il profilo etico sia sotto quello pratico. Sceglierai allora se rendere pubbliche o meno le immagini, lasciarle vivere e agire nel mondo oppure distruggerle. Io credo che solo passando attraverso le cose si possa capire quanto ci rappresentano o rappresentano ciò in cui crediamo. E spesso anche ciò in cui crediamo è da scoprire attraverso il dato esperienziale. In ogni caso sarà l’esperienza accumulata in questo modo a farti evitare a priori gli scatti che sai già che non saranno destinati ad essere visti da occhi differenti dai tuoi, e viceversa fare quelli da rendere pubblici.
Nel 1980 stavo studiando per la maturità, quando sentii alla radio che il sostituto procuratore Mario Amato era stato ucciso mentre usciva di casa. Si occupava delle indagini sul terrorismo nero ereditate dal giudice Vittorio Occorsio, a sua volta ucciso quatto anni prima. Era il 23 giugno e non era certo eccezionale in quegli anni ascoltare notizie di omicidi a scopo politico. Ma quella volta era avvenuto in viale Jonio a Roma, a meno di venti minuti a piedi da casa mia. Mollai i libri e presi reflex, pellicole e obiettivi e andai sul posto. Il corpo era in terra, coperto da un lenzuolo. Intorno come si poteva facilmente prevedere era pieno di gente, polizia e carabinieri. Le facce dei presenti mi colpirono per l’indifferenza dettata dalla consuetudine con cui affrontavano l’accaduto. All’epoca avere una fotocamera al collo e un po’ di faccia tosta era ancora sufficiente per avvicinarsi ai fatti più di quanto non sarebbe stato consentito al primo passante. Cercai di organizzarmi qualche scatto molto naif della situazione (a diciannove anni ancora in attesa di uscire dal liceo non sapevo nulla della professione e agivo di puro istinto senza avere la più pallida idea di cosa stessi realmente facendo). Per farla breve quando portarono via il corpo rimasero a terra grandi macchie di sangue dov’era stato il cadavere. Una persona, non ricordo nemmeno se fosse un uomo o una donna, arrivò con un secchio pieno d'acqua e lo gettò sopra in modo un po' pietoso, un po' implacabile. Io mi ricordo di essermi piazzato con il grandangolare proprio lì davanti, quasi a prendermi addosso quella secchiata. Ricordo che in quel momento percepii chiaramente che quello non era più sangue, testimonianza di quello che fino a un’ora prima era stato un uomo. Era diventato solo un soggetto da inquadrare nel mirino in verticale, abbassandosi in modo che il sangue spazzato via fosse in primo piano, con il secchio e il gesto chiaramente visibili subito dietro. Mi sembrò una metafora chiara sia dell’accaduto e della sua rilevanza oggettiva, sia del nostro passaggio sulla terra. Mi fece una strana impressione. Impressione che non mi riuscì di allontanare nemmeno una volta rientrato in casa. Impressione che tornò durante lo sviluppo del negativo e tornò ancora in camera oscura mentre stampavo quella foto e le altre. Mi chiesi allora se fosse rispettoso far vedere ciò che io avevo visto e che al momento dello scatto mi era sembrato giusto raccontare e fissare nella memoria. Un gesto come se ne vedevano tanti in quel periodo. Un gesto che, unito all'indifferenza della gente, mi aveva lasciato un segno, mi aveva spinto a scattare. Beh, da allora quelle foto sono chiuse in un cassetto dentro una busta Agfa di cartoncino arancione e gli occhi che le hanno viste si contano sulla punta delle dita di una mano. E oggi in una situazione analoga so che il pulsante di scatto non lo premerei nemmeno.
Non so se questo piccolo episodio molto personale possa aiutarti a trovare la tua strada Alessandro. Ma, in merito alla questione etica che hai posto, al momento è la cosa più vera che posso offrirti in risposta ai tuoi dubbi. E stavo pensando che questa riflessione potrebbe diventare l'Editoriale di aprile».

Sandro Iovine

n. 204 - aprile 2009



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18 commenti:

PAN ha detto...

La questione etica. Io non vorrei risultare cinico, insensibile, addirittura poco profondo nella conclusione della mia analisi, ma premetto con un pò di chiaroveggenza che è esattamente come alcuni potranno (legittimamente) considerarmi. Come molti altri mi sono posto le stesse identiche domande riguardo il confine morale nella documentabilità di un fatto, pur avendo vissuto assai pochi avvenimenti che mi obbligassero a scegliere con l'immediatezza alla quale Sandro, ancora più di Alessandro, si è trovato dinnanzi. Perciò, con tutta l'opinabilità attribuibile ad un'esperienza (la mia) cosi povera di contenuti materiali ho comunque da tempo formulato un pensiero in merito che sono certo osserverò quando e se sarò messo alla prova. E cioè, che tutto è da fotografare. Forse la mia lunga premessa era per sostenere una conclusione cosi semplice e feroce. Mi spiego meglio però: Il fatto è che, a parte avvenimenti davvero estremi che è difficile prevedere con la fantasia, io ritengo con sicurezza che sia quasi ipocrita non scattare una fotografia, scattare, non pubblicare. Ci si arrovella il cervello e l'anima sull'ormai celebre uomo di Pellegrin al quale è esploso il braccio, e lo stesso Iovine gli intitola un post dal titolo abbastanza esplicito "Ma bravo Pellegrin!". Quello è senz'altro un episodio emblematico di tutta la faccenda, le polemiche che ha suscitato ne sono la conferma e io ero già in disaccordo con la maggior parte dei commenti ad esso riferiti. Tutti a condannare Pellegrin. Ma l'amoralità della faccenda dove sta? Nel fatto che l'uomo era ancora vivo e non si trattava di una pozza di sangue? Nel fatto che all'inizio P era fuggito per poi tornare? IO non lo so e francamente credo che nessuno di noi lo sappia. Scattare è una fase, è salvare la memoria. Poi c'è la scelta di rendere pubblica la foto ed è li che ci si deve porre delle domande. La foto che ho fatto attribuisce al fatto il senso appropriato o è solo un macabro esempio di sensazionalismo? Questa domanda ad esempio. Oppure: Questa foto lede la dignità del soggetto? Rispondere a se stessi con onestà e poi decidere affrontando il giudizio che comunque non sarà mai unanime. Ma scattare.

Danx ha detto...

Sandro, lo scatto che feci nel 1980 non è da cinico approfittato delle disgrazie altrui, ma da quel che leggo testimonia, come appunto hai scritto, l'indifferenza della gente comune verso la morte altrui, come se non fosse una disgrazia, per di più quando si muore ammazzati e si è dalla parte giusta.
Io le macchie di sangue le avrei lasciate come ricordo indelebile di una morte atroce e ingiusta e contro la democrazia.
Hai fatto bene a riprendere la scena della pulizia di quella signora indifferente.
Siamo un branco di automi, come nelle foto di Martin Parr.
Che sia in città o in vacanza, siamo tanti robottini costruiti solo per consumare!

Dino ha detto...

Ciao ragazzi
non so se è il corretto modo di affrontare il problema, però questo è quello che mi domanderei io nella stessa situazione: il punto è che c'è di mezzo il denaro o altra potenziale ricompensa (fama, almeno) per il fotografo (proprio per il "sensazionalismo" generato da una foto d'impatto). Se questo non ci fosse, noi la pubblicheremmo?
Potremmo pubblicarla gratuitamente altrove, dove non si potrebbe "manipolare" a scopo ideologico o economico? Se potessimo pubblicarla solo per rendere giustizia a chi è ripreso nella foto, lo faremmo? Al di là del discorso che tutti dobbiamo vivere e il fotografo è certamente a contatto con realtà "sporche" e che non si può vivere di sola utopia.. se potessimo pubblicare quella foto senza ricavarne nulla, lo faremmo? Se sì, allora è giusto pubblicarla, altrimenti no.

Maurizio G: De bonis ha detto...

Personalmente, sostengo da tempo che la fotografia non consista nello scatto, quanto piuttosto nelle idee che stanno dentro il cervello di scatta prima dell'atto fotografico e poi nella fase della scelta successiva allo scatto stesso.
Ecco, la scelta dello scatto da mostrare è centrale in fotografia, per molti motivi. Dunque anche per quelli etici.
Il racconto di Sandro sulla sua esperienza giovanile è esemplare, perfetto.
Aggiungo che con un po' di esperienza, un fotografo può anche comprendere quando lo scatto è totalmente superfluo, inutile, se non addirittura incivile. Ma questa capacità può prendere forma negli anni. Ci vuol tempo e anche un po' di sensibilità. E forse anche dei buoni maestri.

Andrea il "Fuso" ha detto...

Buona sera a tutti prima di scrivere questo post mi sono fatto prescrivere dal veterinario che cura il mio cane del Cinamox, serve a diminuire il tasso di cinismo nel sangue, spero che abbia già fatto effetto.
L'argomento è delicato, e più che altro vorrei fare domande, ma prima di tutto almeno un punto.
Un fotografo professionista fotografa tra le altre cose per denaro vile pecunia ( almeno così penso e così provo a fare ), così come un impiegato statale dovrebbe essere al servizio del cittadino.
Se non mi sbaglio attraverso una foto esprimiamo anche solo scegliendo il tipo di inquadratura un'idea ed un "punto di vista" oppure no?
Se idealmente il fotografo avesse la possibilità di seguire la vita del suo "prodotto" quindi potesse contestualizzarla in fase di pubblicazione non cambierebbe il senso?
MI spiego diverso è se una fotografia che ritrae le vittime di Chernobyl va a finire su una bottiglia di vino, oppure in una galleria d'arte di New York oppure ancora in un articolo denuncia sulla sicurezza atto a sensibilizzare dei lettori sui problemi di sicurezza nelle centrali nucleari. (leggi in questa chiave la fotografia di Sandro)
La foto classificata al world press photo di quest'anno (se non ricordo male non è propio il concorso fotografico del fotoclub di di uno sperduto paese dell' Insubria)

http://www.worldpressphoto.org/index.php?option=com_photogallery&task=view&id=1415&Itemid=223&bandwidth=high

o le altre degli anni passati con che occhio vanno viste?
E' necessario che siano più etici i fotografi ( e scontato che debbano esserlo, almeno per me), oppure più preparati gli osservatori, quindi quanto reputo intelligente (o critico o preparato usate l'aggettivo che meglio esprime il concetto) l'osservatore?
E ancora se è vero che scatto per documentare ( il che mi deve pagare la pagnotta, scusate sta terminando l'effetto della pillola) non è giusto chiedersi piuttosto come posso rappresentare il dolore la disperazione la gioia senza essere offensivo o meglio in modo etico? (ma il dolore è etico?)
Ma chi lede la dignità chi uccide o chi denuncia - anche solo con una fotografia- chi ha ucciso?
La prossima volta giuro che vado da un veterinario che cura cavalli e mi faccio prescrivere dose doppia di pastiglie

Buna Notte e sogni d'oro

Alessandro Rizzi ha detto...

Ciao Sandro, mi affaccio dalla Cina a questo tuo blog e già mi sembra di avere una enorme libertà nel guardarlo e poterti dire come la penso.
Io sono stato e sono ancora uno di quelli che il problema l'ha sentito fortemente, cerco una mia strada ma non ho consigli da dare a nessuno ma alcune considerazioni si.
Il confine delle decisione su cosa scattare è molto molto sottile ma ancor di più penso lo sia il come scattare.. In questo senso sono assolutamente d'accordo con Maurizo G. Sono le idee e le analisi fatte prima del momento dello scatto che fanno la differenza, gli eventi esistono ma quando si è li è solo un riflesso di un pensiero elaborato precedentemente..
Nei miei primi anni in giro per Grazia Neri ho lavorato dentro un buon numero di disgrazie come ricorderai e questo mi ha segnato fortemente.. Non credo che si debba rinunciare alla documentazione degli eventi, questo mai ma chiedersi come rappresentarli e per chi, mi sembra importante.. Dal 2002 al 2003 ho appeso la macchina al chiodo, scosso dalle violenze della seconda Intifada che ho coperto nel mese più duro degli scontri tra Gaza e la Cisgiordania.. Ma soprattutto avevo bisogno di capire chi ero e che ruolo avevo in una situazione del genere e nel mio fare fotografia. Eh sì perchè un ruolo lo hai, eccome. Le nostre foto girano i giornali, le riviste e ora le gallerie d'arte, vengono guardate solo in Occidente e qui si apre un'altra domanda a cui non si può sfuggire.. Se la fotografia sociale ha un ruolo, questo ruolo dovrà essere quello di far riflettere e informare ma un messaggio mandato ha bisogno di qualcuno che lo riceva, altrimenti rimane un grido e in quanto fotografia perde la sua funzione. Non chiedersi come questo messaggio venga ricevuto mi sembra stupido e autoreferenziale.
Forse sapendo fare solo un certo tipo di fotografia e non sapendo guardare oltre il tema della sofferenza, molti fotografi hanno sentito il vento che cambiava nella palude non pagata dei magazine internazionali e nell'indifferenza crescente del mondo occidentale per un certo stilema fotografico, hanno elevato il livello del proprio ego a lettura personale del mondo, degli eventi, proponendoci immagini di guerre e di situazioni forti con l'ego interprete unico di stile, onirismo, concettualismo spesso onanistico delle fotografie ma perfetto per poter navigare nel mare misto del reportage e dell'arte che così bene funziona oggi. Spacciarsi fotografi impegnati ma vendersi a suon di dollari con stampe di 2 metri a NY, questo vale per tanti paladini dell'impegno, spacciato e divulgato in blog, premi e workshop con ragazzini che ci credono non conoscendone il meccanismo.
In questo senso non sono onesti ma solo furbi e bisogna sempre vedere come ci si sente da furbetti, è una questione personale.
Per coerenza del racconto, dalla fine del 2003 ho deciso di non fotografare più in situazioni di sangue o estrema sofferenza fino a quando non ne sentirò di nuovo il bisogno e soprattutto fino a quando la mia idea di come rappresentarle non sarà consapevole.
Per il resto ognuno faccia come vuole, nessuna ricetta. Io continuo il mio lavoro libero sulla street photography e in generale su ogni cosa che mi piaccia come essere umano e mi attiri come fotografo. Continuo a preferire chi è meno mangiato dall'ego, dalle etichette impegnate e per questo più profondo e onesto anche come fotografo.

riccardocampo ha detto...

Assolutamente, toccante e riflessivo.
Mi fa sempre più pensare che fare arte & comunicazione fotografando, non è facile.
Credo che il fatto di fotografare, di trasformare quell'attimo in eterno, ci trasmette l'immortalità, ma da questa ne fuggiamo, come i nostri pensieri, cerchiamo di lasciare quelli belli e spesso quelli forti e dolorosi li nascondiamo nel nostro inconscio. E' anche vero che non possiamo nasconderci dietro un dito, cosi se il fotografo di strada deve fare comunicazione, deve , a mio avviso, vincere il suo stato emozionale.
Non siamo fatti solo di bei tramonti, ma di crude realtà cittadine. Se ti dicessi che sono di Palermo...
qual'è il pensiero che ti viene in mente? sole e mare? o Città di Mafia? Granite ed arancini? ...... Visualizza altro
Abbiamo tutto..( sembrerebbe uno spot) questa è la mia città, dove un barbone dorme per strada ed altri passano indifferenti, o forse no?

Alessandro Rizzi ha detto...

Di Palermo non mi viene in mente una qualche associazione di idee ma quello che ho vissuto li, d'entro c'è tutto un sacco di marcio e un sacco di bello, non mi piacciono le definizioni che restringono il campo, esiste Letizia Battaglia ma anche Eliott Erwitt e fanno parte tutti e due della vita. Certo Riccardo la questione non è non fotografare e lasciarsi le cose alle spalle ma essere onesti con quel gesto. Sto fotografando da anni i senza tetto in Asia ma siamo sicuri che l'unico modo sia creare un senso drammatico-estetico e che questo senso ci avvicini di più al punto. I'm not so sure... La cosa fastidiosa è il professionismo del dolore non riprendere il dolore, l'abbiamo attorno, raccontiamolo.

Andrea il "Fuso" ha detto...

Grazie ad
Alessandro Rizzi, per l tua coerenza e per la tua lucida riflessione. Grazie davvero.
Quel dolore qualcun altro lo racconterà mi spiace che non sia tue a raccontarlo con la tua sensibilità.
Con tutto il rispetto ti vorrei chiedere :
Non pensi che chiudere gli occhi (occhi che possono raccontare) sia un non assumersi una responsabilità, un non voler essere li a "combattere" ?
Nb Chi lo domanda è un convinto obiettore di coscienza che volutamente ha usato il termine "combattere".
Mi interessa davvero molto il tuo punto di vista
grazie ancora

lorenzo cuppini ha detto...

Veramente toccante il racconto dell'esperienza relativa all'omicidio del procuratore Amato...personalmente mi sono trovato in situazioni simili a quelle descritte dallo studente del corso, che mi hanno fatto riflettere...non posso negare che ogni volta che fotografo situazioni per così dire "al limite", almeno un istante prima di scattare mi faccio un esame di coscienza...così sono molti gli scatti "perduti" o chiusi nel cassetto e che resteranno lì.
Effettivamente l'adrenalina, o lo stimolo interiore che ti porta a voler effettuare un determinato scatto, può ridurre ogni freno inibitorio...qual’è il risultato? Credo che più è forte quello stimolo quasi 'arcaico' di curiosità, ancor più lo è l'impatto finale dello scatto eseguito...in termini emozionali e comunicativi...è come se quella "droga", come dice Sandro, faccia sì che venga meno l'interpretazione o l'influenza dei pensieri del fotografo, portando alla luce l'aspetto primordiale ed essenziale del momento. Sono d'accordo su molti passaggi affrontati da Sandro...e la conclusione del suo racconto aiuta certamente a comprendere determinate dinamiche della psiche...ognuno di noi agisce in base alle proprie esperienze regresse ed ai propri valori etici del momento. Ritengo sia sempre fondamentale non perdere mai di vista ciò che siamo e ciò che ci prefiggiamo di trasmettere con uno scatto.
Per intenderci, da qualche tempo a questa parte c'è la 'moda', per così dire di fotografare barboni o gente che vive in condizioni al di là di ogni concezione di dignità umana...spesso mi sono chiesto perché? Perché quegli scatti? Perché calpestare ulteriormente l'intimità e la dignità di quelle persone? Molti di quegli scatti appaiono come fini a loro stessi, privi di un filo conduttore e di ogni logica... sono convinto che sia responsabilità di ognuno di noi giustificare sempre, dare un senso a ciò che fotografiamo. Nel momento in cui quelle foto così maledettamente rappresentative di una realtà, così vere ed intime devono essere poste dinanzi al pubblico ‘ludibrio’, credo sia altrettanto maledettamente giusto collocarle in un progetto, nel rispetto della dignità di coloro che vi sono rappresentati.
Se mi sveglio la mattina e dico "voglio raccontare la vita di un barbone, per urlare al mondo il suo disagio, quali sono le cause o le scelte che hanno determinato tale condizione, per raccontare la sua storia, la sua vita, per sensibilizzare la società"...ci sto...diverso è - e troppo spesso è questo ciò che percepisco in molte foto - "voglio fotografare i barboni meglio di tizio. punto."...il limite che mi sono posto, i valori che mi guidano sono questi...cerco e spero di carpire l'insegnamento di Sandro...un giovane che, inizialmente guidato dall'incoscienza e mosso dal desiderio di documentare ed approfondire, si pone continuamente degli interrogativi etici, fin dallo scatto per poi passare alla camera oscura ed infine alla decisione definitiva di chiudere quel cassetto…
Insomma: finalizzare e giustificare, senza porre freni alla comunicazione ed al reportage, piuttosto avendo cura di progettare sempre preservando la propria e l'altrui dignità. Ciò può essere possibile - appunto - solo mediante un'analisi effettuata a posteriori e finalizzata alla presa di coscienza di cosa e perché si sta fotografando.

Danx ha detto...

Penso che il ragazzo doveva semplicemente pensare se quella foto sarebbe servita al suo servizio. Servita in senso buono, ovvero se l'avesse arricchito a tal punto da attirare ancora più attenzione e così, magari, le autorità sarebbero interventure per riqualificare la zona e avvisato un centro per tossidipendenti.
Ma come fotografare quella persona? O lasciando il viso al buio, se vedi che soffre, con la persona completamente di lato, piccola...oppure cercare di fare 2 parole con lei e magari continuare il reportage andando in giro con lui, per mostrare che non è un criminale, ma solo uno sfortunato...
Se invece gli fai un primo piano di lui morente...beh mi sa di presa per il culo, di facile presa sulla gente che però non si interesserà alla sua storia ma ti dirà: oh come si vedono bene le rughe e cosi via
CIAO

Giorgio Cecca ha detto...

Mi trovo d'ccordo con De Bonis.
Lo scatto è nella testa prima che nella fotocamera.
Quando si è amatori di fotografia si impara a non ripetere quel tipo di scatti che non ci danno un'immagine buona, efficace.
Così credo che di fronte a certe situazioni bisogna imparare a filtrare, a non scattare eventualmente.
Non siamo solo dei fotografi. Anzi siamo dei fotografi perchè, prima ancora, siamo degli esseri umani. Non mi sono mai trovato in situazioni estreme ma la decisione che bisogna prendere prima dello scatto è "cos'è meglio fare". E' meglio prestare soccorso ad un ferito grave o ritrarlo al meglio della nostra arte? Nel secondo caso, personalmente, vorrei essere sicuro di rendergli un servizio migliore che non soccorrendolo.
Non è facile sciogliere i dubbi etici ed ognuno li risolve in modo personale e non secondo canoni universali.
Piuttosto dovremmo domandarci cosa faremmo se in certi frangenti ci trovassimo senza fotocamera: forse tireremmo dritto noncuranti perchè impossibilitati a scattare una foto?

francesco peluso ha detto...

Problema purtroppo attualissimo. Oggi penso che con molta probabilità nella stessa situazione di Sandro un giovane avrebbe scattato ( o filmato) con il telefonino la scena ed inviato ad un giornale (web o carta stampata) le immagini.
Stamattina 6 aprile, a poche ore dal terribile sisma che ha colpito L'Aquila e dintorni, in uno dei portali più letti del web cliccando sulle triste notizie del sisma si veniva dirottati prima su una pagina pubblicitaria (adesso per fortuna hanno eliminato il link) e poi nelle notizie.
Adesso ore 15,45 ci sono sui portali web dei due maggiori giornali italiani foto che ritraggono uno un bambino ferito e l'altro un anziano sempre visbilmente provato e ferito.
E' giusto ? non so rispondere.
So soltanto, e le lunghe file sull'autostrada di curiosi che devono prima guardare morbosamente l'incidente per poi voltarsi con aria raccapricciata ne sono una testimonianza, più le immagini sono truculenti e più sono cliccate sul web, più le copertine, i titoli, sono al di sopra le righe più i giornali sono venduti e letti.
E quando corre il dio denaro (o il dio potere /notorietà) ogni guerra è una guerra persa.
E come quando gli indiani cercavano inutilmente di fermare l'espandersi delle ferrovie nel selvaggio west. Piccoli nuclei di pellerossa continueranno qua è là a sopravvivere ma soltanto chiusi in riserve ben delimitate e possibilmente nascoste alla vista degli altri.

Unknown ha detto...

Solo per testimoniare una analoga circostanza, che mi ha visto protagonista.

Nel '79 ero di maturita', e in circostanze analoghe a quelle di Sandro, mi capito' di ascoltare la notizia dell'uccisione, da parte della mafia, di un noto giornalista, a poche centinaia di metri da casa mia.

Stesso rito, presa reflex e scattate foto sul posto, dove il cadavere era semicoperto da un lenzuolo.

Non ho mai riflettuto abbastanza sulla circostanza, ma le foto credo di non averle mai fatte vedere a nessuno, se non al compagno di studi che mi accompagno' sul posto.

Grazie a Sandro per avermi fatto ricordare quell'episodio.

E ovviamente sottoscrivo tutto quello che scrive a proposito.

Mario Macaluso

Unknown ha detto...

Sabato mattina con ogni probabilità partirò per le zone colpite dal sisma. Con un gruppo di amici vorremmo dare aiuto in qualche modo, coscienti che non siamo nè personale addestrato, nè medici o professionisti di un qualche aiuto in questi casi. Siamo solo persone dotate di buona volontà e di 3 giorni a disposizione per fare qualcosa.
Da qualche giorno ammetto di essere estremamente tentata di portare con me la macchina fotografica. E poi pensandoci e ripensandoci sono altrettanto tentata di NON portare la macchina fotografica.
Cosa fare? Il fatto che io sia comunque in ritardo sui tempi giornalistici mi mette al riparo da speculazioni intenzionali o meno. Ma questo basta per sentirsi puliti nel momento in cui invece di distribuire coperte scegli di scattare? D'altra parte mi dico anche che "non dimenticare" è un lavoro che va fatto da subito. E allora non scattare ora sarebbe perdere la possibilità di raccontare domani.
Ho letto che scattare va fatto sempre e comunque. E che poi il lavoro di coscienza avviene al momento della selezione.
Il dubbio mi rimarrà addosso. Con ogni probabilità la macchina la porterò, ma non smetterò di farmi domande.

Giorgio Cecca ha detto...

Riprendo quanto scriveva il 1° aprile Andrea "il fuso".
Giustissimo il discorso con il quale tiene in considerazione l'uso che si fa di certe immagini, la loro destinazione finale più o meno appropriata.
Andrea quindi segnala la foto: http://www.worldpressphoto.org/index.php?option=com_photogallery&task=view&id=1415&Itemid=223&bandwidth=high

Allora io adesso segnalo la foto:
http://www.worldpressphoto.org/index.php?option=com_photogallery&task=view&id=1411&Itemid=223&type=&selectedIndex=6&bandwidth=high

che ritrae lo stesso, straziante soggetto. Apparentemente attorno alla stessa scena di dolore c'erano solo due fotografi. Immaginatevi la scena, un uomo straziato dal dolore con un cadavere fra le braccia e con intorno due soggetti, due fotografi? due paparazzi? due avvoltoi? che si preoccupano solo di scattare fotografie. Gli elementi sono pochi per giudicare come veramente siano andate le cose ma l'apparenza è molto squallida.

No signori, io non avrei scattato ma avrei fatto tutto ciò che la mia pietà verso i miei simili mi avrebbe dettato, non avrei mandato le foto ad un qualsivoglia concorso (a premi), non avrei premiato quelle foto in coppia, in contemporanea. Non si può far finta di niente, non si può anteporre la fotografia all'umanità. Io perlomeno, non avrei questo stomaco.

Non basta guardare alla "destinazione d'uso" finale delle immagini ma occorre guardare anche, necessariamente, alla loro provenienza, alla loro genesi.

P.s.: Dopo il terremoto in Abruzzo, in televisione si raggiunti toni melodrammatici. In nome di buonismo, pietismo e giornalismo sono stati mostrati nei tg alcuni fermo-immagine di volti disperati, terrorizzati e insanguinati. Dovè finito lo strumento di sfocatura così spesso usato in difesa della privacy, a proposito e a sproposito?

Giorgio Cecca ha detto...

Ancora un link:
http://www.worldpressphoto.org/index.php?option=com_photogallery&task=view&id=1411&Itemid=223&type=&selectedIndex=3&bandwidth=high

Ancora stesso soggetto... Quel poveretto s'è portato in braccio da solo il cadavere, per il diletto del nostro BRAVISSIMO fotoreporter....
Così bravo che l'abbiamo anche premiato!

Buona Pasqua a tutti.

Germano Paoloni ha detto...

Ciao Sandro, ho letto il tuo editoriale di aprile, tu mi conosci e sai bene che sono d’accordo con te e con il tuo lavoro che svolgi molto bene, e che, credo fermamente fai molto bene, e sempre con più novità, che trovo i tuoi editoriali molto interessanti sulla fotografia in generale, e, soprattutto sui problemi inerenti il buon gusto dell’
immagine... . Questo mese, scusami, aimè, devo dissentire un pochino, tu dirai perché? Ti racconto una storia che mi è accaduta lo scorso anno, e poi
ti dico il perché!! A luglio 2008, in uno chalet, qui sulla costa marchigiana, era ospite con alcuni amici imprenditori calzaturieri, un giocatore della
nazionale di calcio, che in Germania era stato importante, determinante e decisivo per la vittoria; lui con i suoi amici che sono arrivati nello chalet dopo una cena e in uno stato abbastanza alticcio (eccesso di alcool), hanno iniziato a denudarsi rimanendo a petto nudo, a ballare, bere attaccati alla bottiglia abbracciarsi e baciarsi, e credo
che il tutto perché sotto l’effetto dell’alcool. Ho fatto diversi scatti, anche sé, i buttafuori, mi si paravano continuamente davanti alla reflex e minacciandomi (d'altronde questi imprenditori
erano/sono clienti abituali e che spendono, quindi,,,,) . tu sai, che collaboro con agenzie e testate a livello nazionale, e foto di questo
genere sulla gazzetta o sù settimanali scandalistici sarebbero stati pubblicati immediatamente e considerati come scoop, e un bel gruzzolo
di soldini dentro alle mie tasche, che non fanno mai male a nessuno, se non alla persona fotografata, in quanto ne và della sua reputazione, per questo caso. Se io, non ho fatto girare le foto, è stato perché oltre alla mia amicizia con i titolari con cui lavoro oltre che creare immagini pubblicitarie del locale, ma, anche come ufficio stampa, sicuramente
quei clienti si sarebbero lamentati e, magari cambiato locale. Poi, il mio stupido buonsenso, di rispettare le persone, in quanto la cosiddetta privacy, volenti o nolenti deve essere rispettata, tu mi dirai, allora? Allora ti dico, che ho fatto un grosso errore, in quanto nel lavoro uno scoop è uno scoop, ed il buonsenso (si può essere più o
meno d’accordo) va a farsi friggere. Diversi anni fa, sulla tua/nostra rivista, hai pubblicato una mia foto (concorso a tema mensile o giù di lì) era la foto di una ragazza (che hai conosciuto, in quanto una sera siamo stati tuoi ospiti a cena a Milano) sopra un water solo con gli slip (nuda) un’espressione stravolta…. , il tuo commento o della redazione fù: per una foto di moda è pessima, ma in un contesto sul disagio giovanile ottima.
Posso dire che tu hai completamente ragione, però permettimi di dire: l’informazione in generale: sia la carta stampata e tv, se ne sbattono altamente, in quanto una notizia è una notizia… e certe immagini fanno vendere; altresì devo ammettere, che è la nostra curiosità o morbosità a far si, che certe immagini siano pubblicate, che poi, siano una
denuncia di situazioni o drammi come la tossicodipendenza o omicidi ecc. ecc… , ripeto fanno vendere.
Arrivando al dunque, dico, non so se tu sei d’accordo o meno, che certe foto possono essere scattate e pubblicate, una foto sul disagio,
giovanile o in età avanzata, tossicodipendenza o prostituzione, và salvaguardata la persona nel rispetto della privacy, quindi fare una foto informale (dicendo informale, non so dirti se è il termine giusto, non mi viene in mente altro, cioè una foto in cui si nasconde, o in cui, non compare il viso salvaguardando la persona), nel tuo caso, la
foto dell’assassinio di un giudice, credo tranquillamente ed onestamente che possa e debba essere pubblicata, in quanto, una persona
che stava indagando per la giustizia, che faceva un lavoro esemplare anche e soprattutto per il nostro vivere quotidiano, che è stata ingiustamente ammazzata, far vedere questo giudice, serviva a far
conoscere la realtà e rendere onore ad una persona che con il proprio onesto e giusto lavoro, è stato assassinato.
Ti saluto augurandoti buon lavoro, per la crescita della tua/nostra rivista!!! E che, molti, bravi e onesti fotografi possano nascere dai tuoi insegnamenti. Buon lavoro e buona fotografia a tutti.