Buona Pasqua. Sembrerebbe l’incipit più naturale trovandosi a scrivere la mattina di domenica 12 aprile, Pasqua di Resurrezione 2009. Ma non è affatto quel che si dice un attacco vincente. E non solo perché quando verrà letto, sarà passato quasi un mese dalla sua stesura e non potrà che risuonare stantio, ma soprattutto perché la festa di Resurrezione difficilmente potrà essere ricordata come una buona giornata, considerati i tragici accadimenti d’Abruzzo. Mentre scrivo sono passati sei giorni dalla scossa che in pochi istanti ha lasciato decine di migliaia di persone senza più nulla o quasi di ciò che possedevano e con l’incombenza di dover procedere alla conta dei propri morti. Stampa, emittenti radiotelevisive e siti web sono ancora spazzati da una mareggiata di informazioni e servizi su quanto accaduto. Ma dopo sei giorni la forza delle onde che si abbattono sui lettori/spettatori si è già indebolita. Facile prevedere che la tempesta sia destinata a placarsi in breve tempo. E allora potremo affogare definitivamente l’accaduto nelle acque placide dell’oblio. Inutile e banale constatare come nel nostro sistema di informazione una notizia venga consumata in tempi brevissimi indipendentemente dalla sua rilevanza. Mi chiedo anche se valga la pena di dedicarsi all’analisi di come la notizia sia stata gestita. Tutto questo sproloquio e quello che seguirà nascono da alcuni post letti stamattina non appena connesso il computer a Twitter, la nota piattaforma di microblogging. Dopo un paio di post che rimandavano alle foto di Contrasto e Reuters sul terremoto d’Abruzzo, si poteva infatti leggere: «Davide Monteleone sembra aver firmato l'unico reportage fotografico dal taglio più autoriale» e a seguire «... ma c'è da dire che le immagini pubblicate non raggiungono alti livelli». Sono rimasto colpito perché, non più tardi dell’altro ieri stavo discutendo con il mio alter ego redazionale, Laura Marcolini, dell’opportunità di dedicare l’editoriale del numero di maggio proprio all’impiego della fotografia nel caso del terremoto in Abruzzo. Tecnicamente parlando le conclusioni esposte nei micropost, sono nella sostanza analoghe alle mie. Forse avrei sprecato un numero maggiore parole, ma alla fine il senso sarebbe stato lo stesso. Quindi: onore alla sintesi. Ma il punto è un altro e sta tutto in quell’aggettivo, autoriale, che dubito avrei messo sul piatto della bilancia. Non perché non riconosca a certi fotografi il titolo di Autore, ma perché ho visto sbandierare il problema dell’autorialità da troppi. In particolar modo da coloro che, occupandosi di quella che autodefiniscono fotografia colta (ovvero quella di paesaggio, territorio, architettura e ricerca) e han tutta l’aria di voler intendere che la qualità di colto sembri essere attributo del genere praticato e non dei modi in cui viene interpretato. Naturalmente le identificazioni appena utilizzate in parentesi, appariranno a un lettore attento banalizzanti e approssimative, ma purtroppo qui non ci sono gli spazi sufficienti per addentrarsi in distinzioni e specifiche. Perché dunque me la prendo con l’autorialità? Mi limiterò a un solo esempio fra quelli che mi vengono in mente per chiarire come a mio avviso certi termini possono risultare ridicoli quando sono utilizzati per cercare di nascondere o elevare artisticamente una banale realtà di mercato. In una nota galleria milanese tempo fa ho avuto il piacere di assistere all’entusiastico prostrarsi di un Artista al dictat di un fantomatico collezionista che aveva posto come condizione all’acquisto dell’opera che questa venisse ristampata su superficie lucida invece che opaca. La cosa triste è che fino a pochi istanti prima l’Artista in questione si era riempito la bocca di autorialità e intangibilità dell’opera d’arte. Ma chissà, forse davanti alla prospettiva dell’assegno si sarà consolato pensando che in fondo un vero Artista, latore di autorialità, non vede certo stravolgere il suo pensiero creativo solo perché si smonta a piacere dell’acquirente tutta l’elaborazione prodotta in fase di edizione dell’opera scegliendo un supporto opaco. Tornando a noi, ma soprattutto ad alcune tendenze del fotogiornalismo di recente affermate, progettualità, consapevolezza e autorialità sembrerebbero essere il viatico per un passaggio dalla condizione di giornalisti a quella di Artisti. Il biglietto d’ingresso per accedere a quelle gallerie dove si possono finalmente vendere fotografie nate per informare a prezzi che nessun editore si sognerebbe mai di pagare. Business is Business, soprattutto se a promuoverlo sono le agenzie fotografiche legittimamente a caccia di nuovi clienti-committenti al di fuori del consolidato ed esangue mercato editoriale. Il fotogiornalismo deve rinnovarsi, magari diventare consapevole, progettuale, autoriale appunto. Deve adeguarsi a nuovi media e a nuove tecnologie, fronteggiare la crisi di un mercato editoriale che acquista sempre più foto singole e sempre meno storie complete. Certo che il fotogiornalista deve essere consapevole e in grado di manifestare progettualità, ma per raccontare onestamente alla gente ciò che accade, non per perdere la propria identità in funzione dei contesti esterni, ovvero della committenza e dei modelli di prestigio che questa propone o impone. Dichiarare che attraverso consapevolezza e progettualità usate per denotare un lavoro pagato da un’azienda si sta facendo fotogiornalismo mi pare azzardato. Non si va più in direzione della notizia quando si affronta un reportage in cui è avvertibile la presenza di un’azienda, ma all’opposto verso l’interesse del committente, dell’agenzia, dei galleristi, dei fotografi, dimenticando il diritto all’informazione del pubblico. E non basta dire a posteriori «Io lo chiamo reportage» di fronte a una produzione con i soggetti messi in posa da due fotografi e sei assistenti. È senz’altro un ottimo lavoro fotografico, ma non è fotogiornalismo. Onore alla capacità imprenditoriale, ma chiamiamo le cose con il loro nome: marketing piuttosto che pubblicità. Di recente alla Triennale di Milano l’organizzazione di un concorso per giovani talenti creativi, in fase di accredito, ha offerto una banconota da un dollaro utilizzabile per l’acquisto del futuro catalogo. Funzionale. Si fa ricordare, colpisce, ma ho difficoltà a credere che l’uso del simbolo dollaro non implichi un messaggio ben preciso. Nel prosieguo della serata è stato teorizzato il new deal del fotogiornalismo, denotato dalla consapevolezza e dalla progettualità, ma connotato dalla committenza aziendale. Provate a mettere insieme le due cose... Non so voi, ma io sono in preda a un sano terrore. Non sottovalutiamo segnali del genere. Il passo che unisce consapevolezza e progettualità ad autorialità è breve. Siamo di fronte a fattori che incidono direttamente sull’informazione e quindi influenzano sia i processi di creazione di una coscienza di autorappresentazione sia il coinvolgimento al potere delle masse. Non dovrebbe dimenticarlo soprattutto chi produce informazione e troppo spesso tende invece a essere succube di certi mentori di autoriale e consapevole progettualità. Restiamo vigili perché a volte da piccoli semi nascono grandi alberi, ma non sempre sono alberi del bene. E la storia insegna che a volte per abbattere certi alberi possono essere necessari anche una una ventina d’anni e sacrifici innominabili.
Sandro Iovine
n. 205 - maggio 2009
Compatibilmente con i tempi redazionali, i commenti più interessanti a questo post potranno essere pubblicati all'interno della rubrica FOTOGRAFIA: PARLIAMONE! nel numero di giugno de IL FOTOGRAFO.
Puoi contribuire alla diffusione di questo post votandolo su FAI.INFORMAZIONE. Il reale numero di voti ricevuti è visibile solo nella pagina del post (clicca sul titolo o vai sui commenti).
Puoi votare le mie notizie anche in questa pagina.
6 commenti:
due cose:
- il "collezionista" in un attimo è passato da acquirente ad autore dell'opera, e l'autore ad assistente. non male ma si sa: c'è chi pagarebbe pur di essere comparato.
- certi alberi non si tagliano più perchè ormai hanno radicato e sparso i loro cloni anche molto lontano dalla pianta madre. da troppi anni ci si rivolge alla gente, ammasso omogeneo, e non più alle persone, più personlità distinte. e la gente ripaga ben felice e belante.
v.
Credo che una delle vie più immediate ed efficaci per cambiare la situazione culturale - che sta alla base di questi comportamenti - sia l'istruzione-educazione, partendo già dalle scuole materne.
Solo educando sin dall'inizio le persone ad onestà e consapevolezza delle proprie scelte sarà possibile avere domani una generazione "pulita".
Marco
In effetti autorialità è uno di quei concetti su cui si potrebbe discutere così tanto da perdere il senso delle cose.
Ma parlando di informazione e di ruolo dei giornalisti, personalmente ho osservato una valanga di informazioni (il più delle volte ridondanti) sul terremoto e nel caso delle immagini erano poche e scialbe quelle che giravano di più (sarà colpa degli abbonamenti giornale-agenzia di stock?).
Fatto sta che le notizie di prima mano, caotiche ma veloci e soprattutto più vere erano quelle dei social network, di facebook e di twitter. E i giornalisti? I giornalisti hanno il dovere di prendere questa quantità di informazioni e proporre l'indagine e la riflessione. Così i reporter potrebbero guadagnarsi la propria autorialità, il valore aggiunto. Ma non basta un bel fotoritocco.
Les arbres du mal? Associazione, mi verrebbe da pensare.
Viviamo nel grande, ragioniamo nell’immenso , viviamo all’interno dell’utero della massa. Nuotiamo in troppi in quel liquido fattosi ormai indistinto, credendolo sicuro e giusto, quel grembo materno, che poi ci partorisce forniti di lenti distorte colorate di una verità illusoria. Ma quest’ultima sta nel grande o nel piccolo? E’ la voce del coro o la voce indistinta di qualche singolo? E se facessimo dieci passi indietro, e invece di sostenere il grande, ovvero i giornali “trasparenti”, televisione ed informazioni“evanescenti”, artisti dal “concetto (troppo) aperto”, i finti “profeti” odierni, andassimo a scavare in una concretezza naturale e genuina ritornando a distinguere una minima luce in questo immenso chaos? Ma pochi lo fanno, forse perché essere fuori dal gioco implica essere fuori da quei ranghi tintinnanti e prestigiosi a cui tutti oggi anelano, sbranandosi per emergere, ma non per poi sbocciare a primavera, ma per marcire insieme ad altri milioni di foglie su suolo autunnale. E allora teniamoci questa giungla che tanto ci stupisce solo nel poi. Nemmeno trent’anni basterebbero per re-inculcare un’evoluzione individuale e soprattutto di massa sapiente, siamo sulla cosiddetta “via del non ritorno”, perché come diceva mio nonno, se le radici sono storte, l’albero “verrà su di conseguenza”.
G.
Sapete una cosa? faccio fatica a capire cosa dite.
Forse perchè non state dicendo niente.
Il terremoto, i reporter troppo insistenti, troppo poco,le foto scialbe.
Autorialità, money e radici storte.
Certo l'educazione è importante. La prima lezione dovrebbe consistere nel cercare una monetina in un bidone pieno di merda. Tanto per capire che a fare le cose, e non a stare a guardare, ci si sporca le mani.
Interessante questo editoriale, perché da' la possibilità di esprimere considerazioni e riflessioni sul tema del fotogiornalismo ma penso anche del fare fotografia in generale. Fermare il tempo per restituirlo in un' immagine, che rimandi una lettura ed un punto di vista personali, può aiutare a capirne di più la realtà ed il valore. Ma quando questa lettura porta più persone a riconoscervi qualcosa di sé, a sentirsi "interpellati", quando è capace di suscitare emozioni e riflessioni più profonde, allora la semplice immagine acquisisce lo status di Arte e chi l'ha realizzata si può definire "Autore". Cosa ha a che fare ciò con il calcolo ed il ritorno economico? Ma sopratutto cosa ha a che fare con la"autorialità" un lavoro fatto per informare e testimoniare? Potrebbero entrare in campo considerazioni sulla motivazione, la tecnica, il punto di vista, il coinvolgimento esistenziale con i soggetti e le situazioni descritte, la consapevolezza, la progettualità ed infine il bisogno dell'autore stesso di "vivere" del suo lavoro. Cose appropriate, nulla da eccepire. Il punto nodale mi sembra però la professionalità ed essa non va' mai disgiunta dall'onestà intellettuale. questo per non far passare una cosa per quello che non è. Se si cerca innanzitutto il "profitto" inevitabilmente l'informare sarà funzionale al "quanto ci guadagno" e non al "dare una forma interiore alla "verità". E da quì, il passo ad una forma di dittatura non è lontano.
Mario Migliarese
Posta un commento