giovedì 26 agosto 2010

Il mondo di Francesca

Francesca Woodman, Senza titolo, Boulder, Colorado, 1972-1975, stampa alla gelatina d’argento.
Si ha l'impressione di non riuscire ad abbandonare l'universo evocato dalle immagini. Ci si allontana fisicamente certo, ma dentro di sé non si riesce ad abbandonarlo del tutto. Questo è quello che si prova scendendo gli scalini che dalla sala della mostra porta all'esterno di Palazzo della Ragione a Milano, dove fino al 24 ottobre sono esposte le immagini di Francesca Woodman. La distanza aumenta ogni passo, il mondo della ragazza di Denver ti resta dentro, anche quando ti allontani dal reliquiario dove sono esposte le immagini che ha prodotto in meno di dieci anni di attività. L'uso di un sostantivo con tanto palesi evocazioni funebri non è per altro casuale e ben si attaglia, a mio modo di vedere, all'improbabile illuminazione che in molti punti sarebbe più adatta a una camera ardente che non a un'esposizione. Pesanti cadute di luce su intere fotografie affliggono infatti in più punti la mostra, non inficiando in non poche occasioni la scelta dei curatori, per certi versi filologicamente corretta, che hanno optato per stampe di dimensioni mediamente piccole. Ma chi è avvezzo alla frequentazione di mostre di fotografia nel nostro Paese, non si sarà certo sorpreso, soprattutto se ha già avuto la ventura di inoltrarsi in qualche evento in aree afferenti la meneghina piazza del Duomo. Del resto per farsi un'idea dell'approccio estremamente rigoroso con cui si lavora in zona, non è nemmeno necessario venire a Milano,  basta dare un'occhiata al sito dedicato alla mostra, dove nelle didascalie delle opere utilizzabili recensire la mostra, Francesca Woodman, cambia cognome e diventa,  per ben dieci volte, Francesca Wodman (potenza del Copia e Incolla e della professionalità). 
http://www.mostrawoodman.it/opere.php
mercoledì 25 agosto 2010, ore 9,55.
(Cliccare sull'immagine per ingrandire)
Al di là del potente impatto emotivo che queste immagini offrono, o meglio impongono, allo spettatore a distanza di quasi trenta anni dalla scomparsa di Francesca Woodman, le riflessioni che si potrebbero fare sono tanto ampie e diversificate da gettarmi personalmente in grande confusione al momento di scegliere di cosa parlare. Le problematiche interpretative che insorgono di fronte a questo corpus, sono infatti molte. Il primo problema da affrontare è quello dell'influenza che esercita sulla lettura delle immagini l'esito biografico dell'esistenza terrena di Francesca Woodman. Al di là del personalissimo disgusto provocato dall'ipocrisia politicamente corretta implicita nell'espressione Nel settembre dello stesso anno Francesca abbandona volontariamente la vita universalmente adottata per descrivere il suicidio della Woodman ventiduenne, rimane il fatto che questo episodio risulta determinante in molte letture. Altrettanto oggettivo a questo punto è il rischio di condizionamento che questa informazione pone nella fase interpretativa. Potenzialmente infatti si rischia di ottenere una lettura dei dettagli, delle immagini e delle serie limitante o peggio ancora addirittura fuorviante. Detto questo a livello personale non mi sento nemmeno di escludere completamente, come fanno alcuni devoti studiosi della vita e dell'opera di Francesca Woodman, l'episodio finale della sua esistenza dalla lettura del suo lavoro. Al cospetto delle opere esposte mi sono chiesto più di una volta quanto ciò che mi suscitavano in quel momento fosse frutto della conoscenza dell'epilogo della storia personale dell'autrice. Indubbiamente la conoscenza di questo dato, tende a far valicare le leggi della fisica conosciuta, trasportando seduta stante lo spettatore nella sede di Quantico (Virginia) del Federal Bureau of Investigation, per trasformarlo in un aspirante profller. Né per contro si può negare l'importanza dell'evento. Come non si può negare che anche elidendo l'informazione, non rimanga una sensazione di disagio insopprimibile nei confronti del proprio corpo e dei rapporti che questo può generare con l'esterno. La sottolineatura continua della dicotomia tra interno ed esterno rispetto al proprio involucro fisico, sembra voler accentuare una dicotomia tra un sentire interiore e un sentire fisico con tutte le sue implicazioni relazionali. Fin qui sembrerebbe di essere di fronte al tipico andamento di una crisi di adeguamento adolescenziale. Solo che inizia a essere sintomatica già a tredici anni con il primo autoritratto in cui il volto è negato da una massa di capelli che lo coprono, creando una sorta di allucinazione straniante per la quale guardando un po' a lungo l'immagine non si riesce più a capire se il soggetto sia rivolto verso di noi o se sia di spalle. La scoperta del proprio corpo e degli aspetti di collegamento relazionale, della sessualità sono sempre venati di un sotterraneo timore, a volte terrore, che si concretizza nella restituzione di una sensazione da una parte di alterità estremamente pronunciata nei confronti dell'esterno, dall'altra di vera e propria invasione del proprio spazio e della propria integrità. In tutto questo però prevale la necessità di restituire un ordine alle cose, una ricerca che sembra preludio a un tentativo di comprensione di eventi interiori che forse non sempre sono pienamente spiegabili quando vissuti direttamente. Da qui, forse la necessità di esporlo quel corpo fonte di disagio, mostrarlo o meglio mostrarselo per dargli un senso. Proteggerlo forse con esili barriere che ne impediscano una penetrabilità non accettata. Ed ecco comparire i vetri, le mani a protezione del sesso, le mollette che mortificano la carne, gli accessori di abbigliamento intimo replicati e sovrapposti ostentatamente tra il dubbio e la costrizione.
Se una delle costanti rilevabili si può ragionevolmente riassumere nell'esposizione di una corporeità che si avvale spessissimo del nudo, non me la sento però di liquidare con Scianna la questione con una definizione di narcisismo adolescenziale. Su quest'esternazione peraltro evito di esprimere il mio pensiero, in quanto nella remota ipotesi in cui il suo autore dovesse leggere queste righe, non potrebbe certo sottrarsi al dovere morale di sporgere denuncia nei miei confronti. E sinceramente in questo momento preferirei occuparmi di altro.
Anne Brigman,The Bubble, 1907.







Ma se quanto detto attiene direttamente ai contesti interni, saltellando qua e là nell'infinite possibilità di analisi che il lavoro della Woodman offre, vorrei aprire anche una piccola parentesi sui contesti esterni, approcciando a volo d'uccello le influenze di altri autori che potrebbero essere state accolte da Francesca Woodman e filtrate dalla sua sensibilità e visione. Certamente si rimane nel campo delle supposizioni, ma anche in caso di deduzione errata, rimangono singolari coincidenze plastiche, sulle quali vale comunque la pena di soffermare per qualche minuto la propria attenzione. Difficile, ad esempio, non supporre una qualche conoscenza di un'autrice dei primi anni del novecento come Anne Wardrope (Nott) Brigman (1869–1950) di cui sembrano riecheggiarsi a livello plastico* alcune tensioni del periodo iniziale della produzione in cui il corpo femminile viene rappresentato in una sorta di simbiosi panica con la natura. Se però il corpo della Woodman, pur distendendosi in acqua, è in qualche modo limitato e bloccato dalle radici dell'albero, quello della Brigman si protende libero verso la bolla. Quest'ultima peraltro ci riporta, sempre a livello formale di associazioni visive alle bolle di vetro che compaiono nelle serie scattate da Francesca Woodman a Providence tra il 1975 e il 1978 con la collaborazione di Charlie the model


A sinistra, Anne Brigman, Storm Tree, 1915; a destra, Anne Brigman, Soul of the Blasted Pine, 1908.
Anne Brigman, The Dryad, 1905.


Sempre nella giustapposizione delle immagini della Woodman con quelle della Brigman, colpisce anche, sempre a livello plastico, la coincidenza della rappresentazione-identificazione del corpo femminile nudo con l'elemento arboreo del tronco o diparte di esso in una fusione-personificazione in cui emerge potente il fattore tematico del perturbante. Questo assume importanza fondamentale grazie al costruzione dell'immagine che nella fase iniziale della sua percezione rende assai problematica la distinzione tra l'elemento umano e quello arboreo. Ma mentre nelle immagini realizzate a inizio secolo dalla Brigman ad essere perseguita sembra più che altro l'identificazione-fusione, in quelle di Francesca Woodman il corpo umano sembra essere più che altro un elemento estraneo che insinuatosi (alla ricerca di una qualche forma di protezione?)  tra le radici ne rimane intrappolato. O, altrimenti, finisce per sparire all'interno di un mimetismo forzato in cui le braccia spariscono all'interno di corteccia. Una sorta di anticipazioni delle serie romane di fine anni Settanta in cui il corpo tende a scomparire dissolvendosi tra i segni del tempo esposti alla visione da intonaci martoriati di malridottl muri.
Francesca Woodman, Senza titolo, MacDowell Colony, Peterborough, New Hampshire, estate 1980,
stampa alla gelatina d'argento.
Ma le singolari consonanze plastiche si possono riscontrare anche confrontando altre immagini delle due autrici come appare abbastanza evidente dalla giustapposizione di queste altre due fotografie. Ancora una volta però il corpo pur rimanendo distinto dalla roccia nell'immagine della Brigman, sembra ambire a una fusione con l'elemento naturale, come se cercasse di diventarne parte. Nell'immagine di Francesca Woodman il corpo sembra rimanere un elemento estraneo rispetto al contesto naturale in cui si trova.
A sinistra, Anne Brigman, The Cleth in the Rock, 1907; a destra, Francesca Woodman, Senza titolo,
Andoven, Massachussetts, 1972-1974, stampa alla gelatina d'argento.
Considerazioni analoghe sotto il profilo formale potrebbero essere fatte anche nei confronti del lavoro di Ana Mendieta (1948-1985), anche se quest'ultima rispetto alla Woodman mostra una forte apertura all'impegno sociale. La presenza-assenza del corpo femminile nei lavori della Mendieta è infatti espressione di un posizione sostanzialmente femminista. Mentre nelle immagini di Francesca Woodman la sparizione progressiva del corpo femminile sembra più che altro riferibile a un contesto assolutamente personale in cui si cerca di metabolizzare attraverso la creazione artistica, forse soprattutto grazie alla componente performativa, il disagio avvertito nei confronti del proprio corpo.


A sinistra, Ana Mendieta, Tree of Life; a destra, Francesca Woodman, Senza titolo, Roma,
maggio 1977-agosto 1978, stampa alla gelatina d'argento.


Plastico, qui e altrove in questo testo, è utilizzato nell'accezione relativa alla semiotica plastica. 







La mostra
Francesca Woodman
Milano, Palazzo della Ragione
Piazza Mercanti, Milano
fino al 24 ottobre 2010 

Orari
Da martedì a domenica h 9.30 – 19.30
Giovedì h 9.30 – 22.30
Lunedì h 14.30 – 19.30


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9 commenti:

Angelo Nesci ha detto...

Complimenti per il bell'articolo. Purtroppo non ho ancora visto la mostra ma cercherò di non farmela scappare. Nel frattempo girando per la rete qualche immagine sono riuscito a vederla (e di conseguenza in un atmosfera meno funerea, rispetto a quella descritta).
Non riesco, o forse non voglio, sentire "disagi insopprimibili", vedo una ragazza adolescente che inizia l'esplorazione del mondo che la circonda. Esce dalle radici sicure del vecchio albero perchè si sente grande e vuole andare da sola (quasi come l'abbandono della fanciullezza sia una seconda nascita ... e forse lo è). Prende coscienza, positivamente, della natura, vuole diventare albero a sua volta, cerca la simbiosi, l'armonia con l'ambiente naturale, pur mantenendo sempre una certa distanza.
Credo usi il suo corpo (ci può stare il "narcisismo adolescenziale", ma assolutamente non in senso negativo) a volte sfocato a volte senza volto per rappresentare la sua anima, il suo "io", gioca con noi mostrandoci le sue geometrie astratte (azzeccatissimo il titolo "Some Disordered Interior Geometries"), la sua capacità di adattarsi simmentricamente alle cose oppure di disaccoppiarsi, diventa invisibile e riappare (chi da ragazzo dopo aver commesso una marachella o aver preso un brutto voto a scuola non ha sognato di diventare invisibile per non sentire la romanzina dei genitori?).
Non abbiamo, da ragazzi, nella penombra della nostra cameretta intrapreso con la mente viaggi fantastici ai confini del mondo conosciuto, dopo aver letto il nostro romanzo (o fumetto ... ) preferito, mentre fisicamente eravamo "carcerati" tra le mura di casa?
Questo Francesca Woodman mi ha fatto pensare e ricordare.
E' un vero peccato che si sia lasciata andare così giovane, ma già così evoluta nella comunicazione visiva, sicuramente ci avrebbe mostrato moltre altre bellissime, profonde e assolutamente vere immagini.
O forse (e qui viene fuori il profiler ...)sono proprio le sue immagini così vere ed emotivamente vissute e sofferte ad averla svuotata della voglia di continuare a vivere.
Saluti
Nesci Angelo

Anonimo ha detto...

Io l'ho vista.
Devo dire che appena uscita mi son detta: ho buttato via 8 eurini

Ero incazzata perche' la luce e' scarsissima, le fotografie piccine (perchè devi avvicinarti tantissimo e se c'e' un po' di gente devi aspettare il tuo turno, interrompendo tutta la poesia).

Le fotografie... mi hanno dato di brodo allungato.

Per me non sono state immediate, le ho metabolizzate qualche giorno dopo.


A mio parere tante ripetitive e confermo che o ci sei dentro (e quindi ti prepari bene ed entri con la giusta preddisposizione) oppure ne esci quasi stufo.
Sembrano piu' fotogrammi di un video, infatti la sola visione del video rende bene l'opera fotografica secondo me.


Infine ho trovato le sue visioni, nonostante la grande comunicatività, ancora in uno stato embrionale....

Cmq sia e' un'esperienza visiva che consiglio

laura marcolini ha detto...

1.
Caro Angelo, a proposito di "radici sicure":
dietro quell'albero mi sa che ci sta un camposanto.
«April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.»
«What are roots that clutch, what branches grow
Out of this stony rubbish? Son of man,
You cannot say, or guess, for you know only
A heap of broken images»
«[...] I could not
Speak, and my eyes failed, I was neither
Living nor dead, and I knew nothing,
Looking into the hearth of light, the silence.»
da T.S. Eliot, The Waste Land, I. The Burial of the Dead versi varii.

laura marcolini ha detto...

2.
Cara Anonimo, tutti i corsivi sono parole del tuo commento (in ordine differente):
tutta la poesia è brodo allungato e per "metabolizzarla" devi aspettare il tuo turno, ma devi esserci dentro perché la luce è scarsissima dove ogni cosa è illuminata, soprattutto se sei appena uscita quasi stufa da un'esperienza visiva in uno stato embrionale (quella del vedere quotidiano). Allora devi avvicinarti tantissimo perché le sue visioni qualche giorno dopo tornano immediate per rendere bene l'opera fotografica, interrompendo la sola visione del video nonostante la grande comunicativa.
A parte questo esperimento che vorrebbe mostrarti giocosamente come la maggior parte delle parole che hai usato potrebbe indicare apprezzamenti positivi o interessati nonostante l'aria da contestatrice (un po' embrionale a dire il vero :-) ) che hai preferito assumere, e che potrebbero persino tradire qualcosa di te che forse non avresti pensato. A parte questo, dicevo, mi fermerei un attimo, e, fossi in te, proverei a scrivere di nuovo con parole davvero tue, tentando di distinguere tra le tue idiosincrasie e il lavoro di FW. Mi divertirei a cambiare punto di vista e proverei a ripartire proprio dalle fotografie piccine con gli appunti scritti a mano, pensando quanto sono preziose (reliquie? in parte sì) in quel formato a cui devi avvicinarti tanto... come a chi ti stia facendo una confidenza, e ricordando che potrebbero essere così come le hai viste anche perché Francesca Woodman la ha stampate così con le sue mani, talvolta scrivendoci sopra brevi considerazioni. È impossibile separare le sue parole dalle sue immagini (ma questa è un'opinione personale – molto – e di nessun conto).
Proseguendo così potresti sorprenderti persino a pensare che quello che davvero stufa ed è ripetitivo è proprio l'"immediatezza" perché non ti concede niente da scoprire, niente da "metabolizzare", niente da "avvicinare", niente per farti "incazzare", niente da "aspettare" e pregustare, un po' come un "brodo allungato". :-)
L'immediatezza troppo spesso finisce subito.


3.
Infine: il post di Sandro Iovine credo dimostri in modo evidente alcune cose cruciali su chi ha strumenti non embrionali per leggere le immagini. Mentre Francesca Woodman credo dimostri in modo evidente cose cruciali su chi ha assorbito immagini fin dallo stato di vita (?) embrionale e trova presto strumenti adeguati alla propria complessità per proiettare altre immagini (o immagini altre), proprie, fuori di sé.
Esistono molti modi di essere o non essere embrionali.

Anonimo ha detto...

Laura, devo dire che mi ha fatto sorridere (dolcemente intendo), come mi ha rivoltato l' "embrione".
Sa cosa le dico...che io ci ritorno a vederla(FW). Spero di ritornare con le idee piu' chiare.
Adoro come queste esperienze (positivamente/negativamente) mi scombussolino.
Grazie
Anna Montuori (la contestatrice embrionale)

Anonimo ha detto...

Laura,
mi ha rivoltato l'embrione... e io sorrido (dolcemente). Sicura che di mestiere non faccia l'analista di commentatori di blog "fotografici"?
Scherzi a pare la ringrazio.
Nei prossimi giorni tornero' a vedere Francesca, chissà che non riesca a mettere tutte le mie parole nell'ordine giusto.
Anna Montuori (la contestatrice embrionale!)

Anonimo ha detto...

ops ho mandato due commenti, quasi uguali...non sapevo dell'approvazione...sorry
Anna Montuori

Angelo Nesci ha detto...

Cara Laura, apprezzo molto la tua citazione di Eliot in particolare la frase
"Son of man,
You cannot say, or guess, for you know only
A heap of broken images" la trovo molto poetica.

E' vero, dietro l'albero c'è proprio un cimitero ma quale posto è più sicuro di un cimitero ?
E quale metafora, meglio di un cimitero, può descrivere un mondo reale piatto ed insignificante da cui allontanarsi per iniziare una nuova vita ... artistica?
E per dirla alla Eliot:
"Città irreale ...
Quel cadavere che l'anno scorso piantasti nel giardino,
Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest'anno?"
Battute a parte, credo che sia molto difficile decodificare un mondo immaginario (e quello descritto dalle immagini di FW penso sia il suo mondo immaginario).
Sicuramente, purtroppo, la breve vita di Francesca rappresenta lo stereotipo dell'artista "maledetto" e, anche involontariamente, la miticizzazione è quasi sistematica, ma questo come ho già detto nulla toglie alla sua grande sensibilità e alla grande comunicatività delle
sue immagini.

Scusandomi per eventuali "bestialità"
saluto tutti

Anonimo ha detto...

Ho visto la mostra, sicuramente meritava un allestimento migliore, ma la forza delle immagini non appare così diminuita. Possiamo anche chiederci se guarderemmo le fotografie diversamente se non sapessimo della breve vita dell'autrice, ma facciamo lo stesso per gli altri autori che sappiamo si sono suicidati? Facciamo lo stesso per Diane Arbus e Primo Levi? Sinceramente non so rispondere, certo da molte foto traspare un grande malessere, una lotta con la vita che Francesca Woodman ha perso in anticipo, ma noi in fondo cosa stiamo facendo? Alla fine la partita la perderemo anche noi, lei ne era solo più consapevole e dai suoi tormenti traeva l'arte che ce la farà ricordare.
Andrea