Qualche tempo fa (a dire la verità parecchio tempo fa se si considera che il primo post è del 6 luglio 2009 e l'invio delle domande è evidentemente precedente) Daniele Federico mi ha proposto di partecipare a un'iniziativa che stava realizzando per il suo blog BAPE (Becoming A Photo Editor) a sua iniziativa. La proposta era semplice e potenzialmente interessante. Danielae Federico mi avrebbe posto otto domande (al momento per quel che mi risulta sono state pubblicate solo le prime sette con le relative risposte) per realizzare un suo piccolo sondaggio sulla situazione della fotografia professionale con particolare riferimento alla figura dei photo-editor. Oltre a me sarebbero stati intervistati anche Maria Teresa Cerretelli (photo-editor di Class e presidente del GRIN), Manuela Fugenzi (photo-editor e ricercatrice iconografica), Gianni Mascolo (Art Director de Il Venerdì), Renata Ferri (photo-editor di Io Donna), Giovanna Calvenzi (una delle maggiori esperte in Italia di fotografia e photo-editor di Sport Week), Roberto Koch (fondatore e diretto re dell'Agenzia Contrasto). Credo che il lavoro di Daniele Federico possa essere comunque interessante e per questo mi permetto di riportare a seguire le domande e le mie risposte. Per confrontare le differenti o coincidenti opinioni su i temi del fotogiornalismo italiano, le domande poste da Daniele Federico riportate di seguito sono linkate al blog BAPE per prendere visione delle risposte degli altri intervistati.
Domanda 1
Sei fotografo/a o lo sei stato/a? Come hai iniziato la tua carriera di esperto/a di immagini fotografiche?
«Non sono un fotografo. Professionalmente mi limito a dirigere, da una decina di anni, una rivista di settore dedicata alla fotografia, pascolando nelle periferie del giornalismo. Per poter rispondere alla domanda mi piacerebbe capire innanzitutto quali sono i parametri che determinano l’essere o non essere esperti di qualcosa: chi stabilisce l’appartenenza alla categoria degli esperti e chi sono coloro che la applicano. In genere quando mi presentano come esperto di fotografia, non riesco a controllare l’associazione mentale che mi riporta al ricordo di una infausta trasmissione televisiva in cui un composto signore veniva presentato come esperto di rock satanico… E devo ammettere che la mia autostima risulta profondamente intaccata dall’idea di esser messo sullo stesso piano di un disgraziato costretto ad ascoltare, per di più anche al contrario, un numero di dischi che si conta al più sulle dita di due mani. In ogni caso farei risalire il mio rapporto professionale con le immagini al momento in cui ho verificato che per formazione e interessi personali le immagini costituivano per me un testo all’interno di un processo comunicativo e non rappresentavano solo l’epifania di quell’onanismo tecnologico professato come linea editoriale del giornale per cui lavoravo all’epoca.»
Domanda 2
Quand’è che ci si può definire un photoeditor?
«Se ci riferiamo all’Italia, probabilmente non appena si decide di proclamarsi esperti di rock satanico. Fuor di metafora, direi quando svegliandosi una mattina e avendo bisogno di un lavoro si decide di essere un photo-editor.. O almeno questo si evince osservando quanto accade nell’editoria nostrana. Io credo che se si seguissero i curriculum vitae dei pochi fortunati personaggi che possono fregiarsi del titolo di photo editor (basta guardare i colophon dei periodici per verificare come questa figura sia ufficialmente assente da numerosissime testate) forse potremo scoprire interessanti percorsi. Tanto per fare un esempio riferito alle ultime leve di questa professione, un paio di photo editor di importanti testate periodiche negli ultimi dieci anni possono vantare una comune esperienza all’interno di una notissima agenzia fotografica da cui sono stati proiettati direttamente all’interno di testate con il ruolo di scegliere le fotografie da acquistare. Senz’altro l’esperienza accumulata seguendo giovani fotografi all’interno di un’agenzia è fondante e formante, ma in assoluto se fossi il titolare di un’azienda e avessi i contatti giusti e la possibilità di trasformarli in azioni concrete, credo che considererei con attenzione i vantaggi derivanti dalla possibilità di piazzare con potere decisionale uno dei miei dipendenti all’interno di una struttura che normalmente acquista il mio prodotto.»
Domanda 3
Quanti veri photoeditor ci sono in Italia? Perché? Qual è la ragione principale dell’arretratezza culturale in Italia? Sono necessarie le scuole?
«Prima di azzardare qualunque ipotesi vorrei rivolgere un pensiero colmo di gratitudine al buon vecchio Fibonacci responsabile di aver traghettato nella cultura occidentale, attraverso la traslitterazione dall’arabo sifr in zephirum, quel concetto elaborato dai filosofi arabi nel medioevo, grazie al quale oggi possiamo rispondere in modo esaustivo a questa domanda. Il photo editor dovrebbe essere un giornalista. Dovremmo chiederci, quindi, quanti veri giornalisti viventi e operanti ci sono in Italia? Ma in ogni caso le varianze all’interno del computo finale non sarebbero sufficientemente significative da consentire di formulare la risposta in termini di unità quantificabili. Le ragioni di questa affermazione sono da ricercarsi nella totale dipendenza dei giornalismo dal potere economico e politico… ammesso che la distinzione possa ancora generare senso al giorno d’oggi. Il giornalismo in Italia non assolve a quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria: informare. Il giornalismo è oggi solo un contenitore di introiti pubblicitari e come tale deve comportarsi senza interferire con le dinamiche commerciali. Si pubblica, indipendentemente dalla forma in cui ciò si concretizza, solo quanto è funzione della raccolta pubblicitaria. Prima di ricevere il tassativo ordine del mio epatologo di astenermi dal partecipare a ulteriori riunioni dell’associazione dei photo editor, ricordo di aver assistito all’esternazione del responsabile di uno dei maggiori quotidiani italiani, che sosteneva che il ruolo dei photo-editor. era quello di dare al pubblico ciò che il pubblico desidera. Inutile sottolineare che un atteggiamento simile trascende completamente diritti e doveri dell’informazione, a favore di un appiattimento massificato e massificante. Del resto allo stesso personaggio che, è importante ricordarlo, non lavora in una pubblicazione di provincia, ma in uno dei più accreditati quotidiani italiani, posso ascrivere un altro edificante episodio che la dice lunga sulla professionalità dei photo-editor. Qualche anno fa accompagnai un fotografo a proporre un lavoro sulla psichiatria nel Tempio del giornalismo italiano. Il lavoro mostrava, con una qualità fotografica perfettibile, l’esito dell’applicazione della famigerata legge 180 in quella che allora era la Quinta Circoscrizione del Comune di Roma. Tutto era stato impostato sulla documentazione di ciò che accadeva applicando alla lettera il dispositivo giuridico. Risultato: il degente psichiatrico era ricondotto alla dimensione di persona e non di reietto della società come appariva nelle documentazioni fotografiche di D’Alessandro, Berengo Gardin e Cerati della fine degli anni Sessanta. Il photo editor in questione dopo aver visionato i materiali commentò, con la classica formula di disimpegno utilizzata con i fotografi: il lavoro è molto bello e si potrebbe utilizzare per fare una mostra e un libro (entrambi per altro già realizzati e documentati sotto i suoi occhi). Quindi: complimenti vivissimi, ma lui per il giornale aveva bisogno dei matti non delle persone… Ovvero: la ratio con cui e per cui le foto erano state realizzate, la notizia, non erano importanti per il giornale, il cui compito è notoriamente quello di confermare un rassicurante stereotipo che consenta al lettore di non innescare un possibile processo di identificazione con il malato psichiatrico. Sono necessarie le scuole? Certo che lo sono. Peccato che l’unica di cui sia a conoscenza consista di fatto in un corso fortemente ispirato se non proprio gestito dalla succitata associazione di photo-editor, fatto questo che suppongo non meriti ulteriori commenti.»
Domanda 4
Perché su molti giornali mancano i credit dei fotografi? Non curanza? Difficoltà nella gestione delle immagini? Hai mai mancato l’indicazione dell’autore delle foto nel corso della tua carriera professionale?
«Perché il fotografo nella filiera produttiva editoriale è l’anello più debole. Il fotografo per il giornalista italiano è quello che fa una cosa che può fare chiunque e il cui lavoro si utilizza per riempire i buchi che rimangono nelle geometrie della pagina quando non si sa più che scrivere. La fotografia è intesa come illustrazione del testo scritto, non è testo essa stessa. Inoltre in Italia abbiamo una lunga tradizione di ignoranza in senso etimologico da parte dei fotografi, una tradizione che si è risolta nell’incapacità di concepire e attuare una difesa della dignità professionale. Ricordo di aver sentito un fotografo di cronaca romana vantarsi del fatto di non aver mai firmato le proprie foto, perché in questo modo poteva venderle contemporaneamente sia a Il Tempo sia a Il Messaggero. Partendo da logiche del genere come si può pretendere rispetto per il proprio lavoro? Nella mia carriera ricordo di essere stato assalito da un autore che non aveva trovato il credit a fianco alla sua foto. In realtà in quel caso aveva tra le mani una copia tagliata male in fase di confezione e il suo nome era stato rifilato via in quanto molto vicino al bordo. In assoluto comunque di sicuro mi sarà capitato di far saltare qualche nome involontariamente. Sono cose che non dovrebbero succedere, ma nella confusione di una chiusura possono capitare. Fondamentale credo sia comunque l’avere ben chiaro nella propria coscienza che in casi del genere si è comunque commesso un errore grave, al di là della volontarietà. Non è meno grave che far saltare la firma di un articolo (altra cosa capitata purtroppo). Quanto alla difficoltà nella gestione delle immagini oggi il discorso dovrebbe essere relativo. Di fatto in passato la maggior parte dei rapporti tra fotografo e giornale erano gestiti in maniera alquanto superficiale soprattutto da parte dei fotografi, che spesso non mettevano nemmeno le proprie indicazioni dietro alle stampe, ma torniamo al discorso fatto poc’anzi.»
Domanda 5
Come trovi i nuovi fotografi? Quanto tempi dedichi a questa attività? La diffusione delle tecnologie digitali ha aumentato l’esposizione dei fotografi e aspiranti tali. In media, da quanti sei contattato/a? Dai qualche consiglio ai nuovi fotografi per contattare professionisti come te.
«Nello specifico del mio caso il discorso è particolare. Lavorando in un giornale dedicato alla fotografia è quotidiano l’afflusso spontaneo di immagini. All’interno di questo fiume in piena i fotografi accettabili sono più o meno l’equivalente del contenuto di un contagocce carico a metà. Al di là di questo ci sono occasioni pubbliche di incontro come le letture portfolio, che però troppo spesso hanno vocazione amatoriale, e soprattutto l’incontro prolungato all’interno dell’attività di insegnante, dove è possibile veder crescere ogni tanto qualche personalità interessante. Fare numeri è impossibile, in ogni caso tra una cosa è l’altra parliamo di migliaia di fotografi di varia estrazione e aspirazione incontrati ogni anno. Di questi forse l’uno o due per mille ha reali possibilità di riuscire nella professione. Il consiglio che posso dare a chi aspiri a fare la professione di fotografo è quello di trovarsi un buon lavoro e fotografare per hobby. Per descrivere la situazione professionale del fotografo oggi prendo a prestito le parole che un amico fotografo romano, all’alba dei quant’anni di cui una quindicina spesi nella professione, si sentì dire dalla madre: "Fijo mio, ma quann’è che te trovi ‘n lavoro che te spesi?". Saggezza popolare e conti della serva indubbiamente, ma sia pure in modo ellittico mi sembra una una descrizione perfetta della condizione di fotografo oggi.»
Domanda 6
Cosa diresti che manca ai fotografi italiani? Riguardo i temi, lo stile e il modo di lavorare?
«Manca la cultura visiva e spesso non solo quella. Manca l’umiltà di mettersi a studiare per anni senza sentirsi arrivati prima ancora di cominciare. Manca la coscienza che si tratta davvero di un lavoro e che come tale richiede sacrifici non indifferenti se si vuole riuscire. Manca il contatto con una dimensione che sia men che provinciale. Manca spessissimo la coscienza che è di comunicazione che stiamo parlando e che alla base di questa ci sono delle regole, sia pur flessibili e estremamente dinamiche. E in tutto questo vorrei sottolineare che le colpe non sono necessariamente dei singoli, ma in buona parte dell’intero sistema educativo italiano che prevede interessanti programmi di educazione visiva che però nessuno applica. Ho provato un’infinità di volte a chiedere al pubblico di fronte al quale mi sono trovato a parlare a chi fosse stato insegnato a leggere e scrivere nella scuola dell’obbligo e ovviamente tutti mi hanno sempre risposto che si trattava di nozioni che avevano ricevuto. Riformulando la domanda in termini di insegnamento sulla lettura e scrittura di immagini ho trovato solo una volta, a Catania, una ragazza bionda in prima fila che ha alzato la mano. Alla domanda "Ma dove hai fatto la scuola dell’obbligo?" rispose "In München". A parte casi limite non credo che il problema siano i temi, lo stile o il modo concreto di lavorare, Semmai le difficoltà derivano dalla capacità di collegare i vari elementi in un unicum. E il problema è più avvertibile all’interno del mondo del fotogiornalismo, dove le derive commerciali para-artistiche stanno assestando il colpo finale a una professionalità già complessa e in crisi.»
Domanda 7
Attualmente è difficile intraprendere il mestiere del photoeditor. Quali sono le vie praticabili?
«Spazio non mi pare che ce ne sia un gran che, necessità invece ce ne sarebbe di sicuro tantissima. Ma ci vorrebbe anche maggiore professioanlità giornalistica alle spalle e maggiore autonomia decisionale. Cosa poco probabile in un mondo in cui il contatto continuo con i fotografi non può che indurre giustificati sospetti di degradante contagio da parte dei veri giornalisti, ovvero quelli che scrivono. Nelle redazioni se non si ha la pretesa di essere pagati è facile fare stage. Salvo che poi invece di farti fare un lavoro dal quale imparare qualcosa non ti mettano a fare telemarketing o se ti va bene rimettere a posto l’archivio. Non ho strade da consigliare se non quella di imparare bene una lingua e andare all’estero a costruirsi la professione. Una mia studentessa si è iscritta al citato corso per photo editor mentre frequentava con me quelli di comunicazione visiva e reportage e frequenta uno stage presso una nota casa editrice. A quanto mi dice ciò che ha potuto apprendere in quel corso è prossimo allo zero, ma credo che in Italia sia il massimo che si possa fare per puntare a questa professione. Per il resto tanti auguri.»
Sei fotografo/a o lo sei stato/a? Come hai iniziato la tua carriera di esperto/a di immagini fotografiche?
«Non sono un fotografo. Professionalmente mi limito a dirigere, da una decina di anni, una rivista di settore dedicata alla fotografia, pascolando nelle periferie del giornalismo. Per poter rispondere alla domanda mi piacerebbe capire innanzitutto quali sono i parametri che determinano l’essere o non essere esperti di qualcosa: chi stabilisce l’appartenenza alla categoria degli esperti e chi sono coloro che la applicano. In genere quando mi presentano come esperto di fotografia, non riesco a controllare l’associazione mentale che mi riporta al ricordo di una infausta trasmissione televisiva in cui un composto signore veniva presentato come esperto di rock satanico… E devo ammettere che la mia autostima risulta profondamente intaccata dall’idea di esser messo sullo stesso piano di un disgraziato costretto ad ascoltare, per di più anche al contrario, un numero di dischi che si conta al più sulle dita di due mani. In ogni caso farei risalire il mio rapporto professionale con le immagini al momento in cui ho verificato che per formazione e interessi personali le immagini costituivano per me un testo all’interno di un processo comunicativo e non rappresentavano solo l’epifania di quell’onanismo tecnologico professato come linea editoriale del giornale per cui lavoravo all’epoca.»
Domanda 2
Quand’è che ci si può definire un photoeditor?
«Se ci riferiamo all’Italia, probabilmente non appena si decide di proclamarsi esperti di rock satanico. Fuor di metafora, direi quando svegliandosi una mattina e avendo bisogno di un lavoro si decide di essere un photo-editor.. O almeno questo si evince osservando quanto accade nell’editoria nostrana. Io credo che se si seguissero i curriculum vitae dei pochi fortunati personaggi che possono fregiarsi del titolo di photo editor (basta guardare i colophon dei periodici per verificare come questa figura sia ufficialmente assente da numerosissime testate) forse potremo scoprire interessanti percorsi. Tanto per fare un esempio riferito alle ultime leve di questa professione, un paio di photo editor di importanti testate periodiche negli ultimi dieci anni possono vantare una comune esperienza all’interno di una notissima agenzia fotografica da cui sono stati proiettati direttamente all’interno di testate con il ruolo di scegliere le fotografie da acquistare. Senz’altro l’esperienza accumulata seguendo giovani fotografi all’interno di un’agenzia è fondante e formante, ma in assoluto se fossi il titolare di un’azienda e avessi i contatti giusti e la possibilità di trasformarli in azioni concrete, credo che considererei con attenzione i vantaggi derivanti dalla possibilità di piazzare con potere decisionale uno dei miei dipendenti all’interno di una struttura che normalmente acquista il mio prodotto.»
Domanda 3
Quanti veri photoeditor ci sono in Italia? Perché? Qual è la ragione principale dell’arretratezza culturale in Italia? Sono necessarie le scuole?
«Prima di azzardare qualunque ipotesi vorrei rivolgere un pensiero colmo di gratitudine al buon vecchio Fibonacci responsabile di aver traghettato nella cultura occidentale, attraverso la traslitterazione dall’arabo sifr in zephirum, quel concetto elaborato dai filosofi arabi nel medioevo, grazie al quale oggi possiamo rispondere in modo esaustivo a questa domanda. Il photo editor dovrebbe essere un giornalista. Dovremmo chiederci, quindi, quanti veri giornalisti viventi e operanti ci sono in Italia? Ma in ogni caso le varianze all’interno del computo finale non sarebbero sufficientemente significative da consentire di formulare la risposta in termini di unità quantificabili. Le ragioni di questa affermazione sono da ricercarsi nella totale dipendenza dei giornalismo dal potere economico e politico… ammesso che la distinzione possa ancora generare senso al giorno d’oggi. Il giornalismo in Italia non assolve a quella che dovrebbe essere la sua funzione primaria: informare. Il giornalismo è oggi solo un contenitore di introiti pubblicitari e come tale deve comportarsi senza interferire con le dinamiche commerciali. Si pubblica, indipendentemente dalla forma in cui ciò si concretizza, solo quanto è funzione della raccolta pubblicitaria. Prima di ricevere il tassativo ordine del mio epatologo di astenermi dal partecipare a ulteriori riunioni dell’associazione dei photo editor, ricordo di aver assistito all’esternazione del responsabile di uno dei maggiori quotidiani italiani, che sosteneva che il ruolo dei photo-editor. era quello di dare al pubblico ciò che il pubblico desidera. Inutile sottolineare che un atteggiamento simile trascende completamente diritti e doveri dell’informazione, a favore di un appiattimento massificato e massificante. Del resto allo stesso personaggio che, è importante ricordarlo, non lavora in una pubblicazione di provincia, ma in uno dei più accreditati quotidiani italiani, posso ascrivere un altro edificante episodio che la dice lunga sulla professionalità dei photo-editor. Qualche anno fa accompagnai un fotografo a proporre un lavoro sulla psichiatria nel Tempio del giornalismo italiano. Il lavoro mostrava, con una qualità fotografica perfettibile, l’esito dell’applicazione della famigerata legge 180 in quella che allora era la Quinta Circoscrizione del Comune di Roma. Tutto era stato impostato sulla documentazione di ciò che accadeva applicando alla lettera il dispositivo giuridico. Risultato: il degente psichiatrico era ricondotto alla dimensione di persona e non di reietto della società come appariva nelle documentazioni fotografiche di D’Alessandro, Berengo Gardin e Cerati della fine degli anni Sessanta. Il photo editor in questione dopo aver visionato i materiali commentò, con la classica formula di disimpegno utilizzata con i fotografi: il lavoro è molto bello e si potrebbe utilizzare per fare una mostra e un libro (entrambi per altro già realizzati e documentati sotto i suoi occhi). Quindi: complimenti vivissimi, ma lui per il giornale aveva bisogno dei matti non delle persone… Ovvero: la ratio con cui e per cui le foto erano state realizzate, la notizia, non erano importanti per il giornale, il cui compito è notoriamente quello di confermare un rassicurante stereotipo che consenta al lettore di non innescare un possibile processo di identificazione con il malato psichiatrico. Sono necessarie le scuole? Certo che lo sono. Peccato che l’unica di cui sia a conoscenza consista di fatto in un corso fortemente ispirato se non proprio gestito dalla succitata associazione di photo-editor, fatto questo che suppongo non meriti ulteriori commenti.»
Domanda 4
Perché su molti giornali mancano i credit dei fotografi? Non curanza? Difficoltà nella gestione delle immagini? Hai mai mancato l’indicazione dell’autore delle foto nel corso della tua carriera professionale?
«Perché il fotografo nella filiera produttiva editoriale è l’anello più debole. Il fotografo per il giornalista italiano è quello che fa una cosa che può fare chiunque e il cui lavoro si utilizza per riempire i buchi che rimangono nelle geometrie della pagina quando non si sa più che scrivere. La fotografia è intesa come illustrazione del testo scritto, non è testo essa stessa. Inoltre in Italia abbiamo una lunga tradizione di ignoranza in senso etimologico da parte dei fotografi, una tradizione che si è risolta nell’incapacità di concepire e attuare una difesa della dignità professionale. Ricordo di aver sentito un fotografo di cronaca romana vantarsi del fatto di non aver mai firmato le proprie foto, perché in questo modo poteva venderle contemporaneamente sia a Il Tempo sia a Il Messaggero. Partendo da logiche del genere come si può pretendere rispetto per il proprio lavoro? Nella mia carriera ricordo di essere stato assalito da un autore che non aveva trovato il credit a fianco alla sua foto. In realtà in quel caso aveva tra le mani una copia tagliata male in fase di confezione e il suo nome era stato rifilato via in quanto molto vicino al bordo. In assoluto comunque di sicuro mi sarà capitato di far saltare qualche nome involontariamente. Sono cose che non dovrebbero succedere, ma nella confusione di una chiusura possono capitare. Fondamentale credo sia comunque l’avere ben chiaro nella propria coscienza che in casi del genere si è comunque commesso un errore grave, al di là della volontarietà. Non è meno grave che far saltare la firma di un articolo (altra cosa capitata purtroppo). Quanto alla difficoltà nella gestione delle immagini oggi il discorso dovrebbe essere relativo. Di fatto in passato la maggior parte dei rapporti tra fotografo e giornale erano gestiti in maniera alquanto superficiale soprattutto da parte dei fotografi, che spesso non mettevano nemmeno le proprie indicazioni dietro alle stampe, ma torniamo al discorso fatto poc’anzi.»
Domanda 5
Come trovi i nuovi fotografi? Quanto tempi dedichi a questa attività? La diffusione delle tecnologie digitali ha aumentato l’esposizione dei fotografi e aspiranti tali. In media, da quanti sei contattato/a? Dai qualche consiglio ai nuovi fotografi per contattare professionisti come te.
«Nello specifico del mio caso il discorso è particolare. Lavorando in un giornale dedicato alla fotografia è quotidiano l’afflusso spontaneo di immagini. All’interno di questo fiume in piena i fotografi accettabili sono più o meno l’equivalente del contenuto di un contagocce carico a metà. Al di là di questo ci sono occasioni pubbliche di incontro come le letture portfolio, che però troppo spesso hanno vocazione amatoriale, e soprattutto l’incontro prolungato all’interno dell’attività di insegnante, dove è possibile veder crescere ogni tanto qualche personalità interessante. Fare numeri è impossibile, in ogni caso tra una cosa è l’altra parliamo di migliaia di fotografi di varia estrazione e aspirazione incontrati ogni anno. Di questi forse l’uno o due per mille ha reali possibilità di riuscire nella professione. Il consiglio che posso dare a chi aspiri a fare la professione di fotografo è quello di trovarsi un buon lavoro e fotografare per hobby. Per descrivere la situazione professionale del fotografo oggi prendo a prestito le parole che un amico fotografo romano, all’alba dei quant’anni di cui una quindicina spesi nella professione, si sentì dire dalla madre: "Fijo mio, ma quann’è che te trovi ‘n lavoro che te spesi?". Saggezza popolare e conti della serva indubbiamente, ma sia pure in modo ellittico mi sembra una una descrizione perfetta della condizione di fotografo oggi.»
Domanda 6
Cosa diresti che manca ai fotografi italiani? Riguardo i temi, lo stile e il modo di lavorare?
«Manca la cultura visiva e spesso non solo quella. Manca l’umiltà di mettersi a studiare per anni senza sentirsi arrivati prima ancora di cominciare. Manca la coscienza che si tratta davvero di un lavoro e che come tale richiede sacrifici non indifferenti se si vuole riuscire. Manca il contatto con una dimensione che sia men che provinciale. Manca spessissimo la coscienza che è di comunicazione che stiamo parlando e che alla base di questa ci sono delle regole, sia pur flessibili e estremamente dinamiche. E in tutto questo vorrei sottolineare che le colpe non sono necessariamente dei singoli, ma in buona parte dell’intero sistema educativo italiano che prevede interessanti programmi di educazione visiva che però nessuno applica. Ho provato un’infinità di volte a chiedere al pubblico di fronte al quale mi sono trovato a parlare a chi fosse stato insegnato a leggere e scrivere nella scuola dell’obbligo e ovviamente tutti mi hanno sempre risposto che si trattava di nozioni che avevano ricevuto. Riformulando la domanda in termini di insegnamento sulla lettura e scrittura di immagini ho trovato solo una volta, a Catania, una ragazza bionda in prima fila che ha alzato la mano. Alla domanda "Ma dove hai fatto la scuola dell’obbligo?" rispose "In München". A parte casi limite non credo che il problema siano i temi, lo stile o il modo concreto di lavorare, Semmai le difficoltà derivano dalla capacità di collegare i vari elementi in un unicum. E il problema è più avvertibile all’interno del mondo del fotogiornalismo, dove le derive commerciali para-artistiche stanno assestando il colpo finale a una professionalità già complessa e in crisi.»
Domanda 7
Attualmente è difficile intraprendere il mestiere del photoeditor. Quali sono le vie praticabili?
«Spazio non mi pare che ce ne sia un gran che, necessità invece ce ne sarebbe di sicuro tantissima. Ma ci vorrebbe anche maggiore professioanlità giornalistica alle spalle e maggiore autonomia decisionale. Cosa poco probabile in un mondo in cui il contatto continuo con i fotografi non può che indurre giustificati sospetti di degradante contagio da parte dei veri giornalisti, ovvero quelli che scrivono. Nelle redazioni se non si ha la pretesa di essere pagati è facile fare stage. Salvo che poi invece di farti fare un lavoro dal quale imparare qualcosa non ti mettano a fare telemarketing o se ti va bene rimettere a posto l’archivio. Non ho strade da consigliare se non quella di imparare bene una lingua e andare all’estero a costruirsi la professione. Una mia studentessa si è iscritta al citato corso per photo editor mentre frequentava con me quelli di comunicazione visiva e reportage e frequenta uno stage presso una nota casa editrice. A quanto mi dice ciò che ha potuto apprendere in quel corso è prossimo allo zero, ma credo che in Italia sia il massimo che si possa fare per puntare a questa professione. Per il resto tanti auguri.»
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