martedì 21 dicembre 2010

Ma perché deve essere tutto facile?


Il problema è sempre lo stesso. Il luogo comune ha vinto la sua battaglia. L’ennesima sarebbe da aggiungere. Ma visto che qui ci occupiamo di immagine fotografica, chiarisco subito che a quella mi riferisco. Avete presente quando, non avendo niente di meglio da dire si finisce per ripetere pappagallescamente frasi del tipo Un’immagine vale più di mille parole? Chi di noi non lo ha mai fatto scagli la prima pietra. 

Bene forse sarebbe arrivato il momento di prendere coscienza che ogni volta che avalliamo concetti del genere stiamo contribuendo a creare un muro di ignoranza sempre più profonda intorno alle parole. E non tanto è ovvio perché il concetto utilizzato a mo’ di esempio non possa essere vero, ma perché stiamo liquidando con un rassicurante mantra la possibilità di riflettere sulla vera natura dell’immagine fotografica e sul senso di quello che in quel momento è davanti ai nostri occhi. Ma, che ancora peggio, ci stiamo assicurando che la stessa operazione di chiusura avvenga anche in futuro. Tutti oggi siamo consapevoli che una fotografia può manipolare fortemente la realtà fino a reinterpretarla completamente. E ovviamente non mi sto riferendo agli interventi di postproduzione da sempre possibili e oggi solo agevolati dalla tecnologia digitale. 

Mi riferisco proprio all’intervento interpretativo del fotografo che avviene in primis al momento della ripresa e successivamente in fase di selezione e processo (che non sottintende la sola postproduzione) ed edizione. Per non parlare dell’intervento di chi l’immagine fotografica poi la utilizza. Eppure anche se tutti lo sappiamo che una fotografia può mentire e in misura clamorosa, praticamente ovunque l’immagine fotografica viene ancora proposta come surrogato testimoniale di realtà. Del resto questo è possibile nella misura in cui c’è la diffusa credenza che tutti siano in grado di leggere una immagine fotografica. Certo se ci mettono davanti una fotografia tutti siamo in grado di riconoscere cosa vi viene raffigurato, a meno che questo non appartenga a sfere di sapere che ignoriamo. 

Al contrario se ci mettono davanti a un libro scritto in una lingua che non conosciamo o a uno spartito musicale senza che abbiamo imparato a leggere il pentagramma, ci troviamo bloccati e nell’impossibilità di accedere alle informazioni contenute in quel testoE basta questo a farci ritenere di essere in grado di leggere una fotografia. Ma in realtà a livello pratico riconoscendo cosa è raffigurato in una fotografia non stiamo facendo altro che agire allo stesso livello in cui ci muoviamo di fronte allo spartito che riconosciamo in quanto tale, ma che non sappiamo trasformare in musica, che in realtà è l’oggetto comunicativo di quel testoPer poter leggere quello spartito correttamente occorrono anni di studio e applicazione, proprio come per leggere una fotografia. Ma i conservatori esistono e fanno parte della nostra tradizione culturale, le scuole dove si insegna a leggere l’immagine, in particolare quella fotografica con tutto il suo portato specifico, invece no. Almeno nel nostro paese. 

La conseguenza più immediata di questo fenomeno è una completa esposizione a qualunque assalto proveniente dalle immagini fotografiche, ma non solo. L’assenza di consapevolezza previene la creazione di filtri che ci portino a discriminare sul messaggio contenuto nei testi che ci vengono sottoposti quotidianamente. E le possibilità di veicolare in modo efficace e apparentemente indiretto qualunque tipo di messaggio si amplificano a dismisura. E tutto questo vive per lo più sulla presunzione che tutti possano avere gli strumenti per decodificare i messaggi contenuti all’interno delle immagini fotografiche. Pur lavorando ormai da oltre venti anni nel settore dell’immagine fotografica, continuo ad avere sempre gli stessi riscontri anche all’interno di un ambiente che in teoria dovrebbe essere di addetti ai lavori o quantomeno di appassionati. 

Un esempio per tutti viene dalla stragrande maggioranza di quanti si presentano a una lettura portfolio a sottoporre le proprie immagini. Alla domanda Cosa volevi raccontare con queste immagini? L’assoluta maggioranza spalanca gli occhi facendogli assumere la forma dell’interrogativo cosmico per eccellenza. I più sinceri dopo averti guardato sbigottiti ti chiedono Perché che avrei dovuto raccontare? Cosa che secondo me fa onore ai soggetti in questione, perché per lo meno non si mascherano dietro facciate di circostanza, ma denota una situazione drammatica in cui non si è nemmeno compreso, magari dopo venti anni di frequentazione fotografica, che si sta utilizzando uno strumento che permette di raccontare qualcosa. Ed esprime anche il non troppo velato concetto che gli si sta chiedendo qualcosa che oscilla concettualmente tra l’osceno e il blasfemo. Ma tutto questo non è casuale perché se fossimo tutti in grado di avere una minima coscienza del funzionamento della comunicazione per mezzo delle immagini, almeno il novanta per cento della comunicazione pubblicitaria fallirebbe il suo intento primario. Per non parlare della creazione di altre forme di consenso.

Su questo discorso generale riferito all’immagine fotografica (ma anche alle immagini in movimento è abbastanza ovvio) si innesta un ulteriore elemento di distruttività costituito dalla deliberata volontà di semplificazione e alleggerimento. Il sacrosanto concetto che tutto dovrebbe essere comprensibile a tutti, finisce per essere declinato in semplificazione progressiva che invece di rendere accessibili i testi, finisce per occultarne il senso profondo mostrando solo ed esclusivamente la superficie originando una spirale di non comprensione dei fatti sempre più pericolosa. Le conseguenze le possiamo vedere in ogni angolo della nostra vita. Ciò che esula dalla comprensione immediata viene bollato, perché non aderisce alle logiche di comprensione immediata. Il bello è che in questo modo il concetto da cui origina il problema (ovvero rendiamo tutto accessibile a tutti) viene completamente capovolto, relegando in una profonda inconsapevolezza una percentuale enorme di popolazione. Ridurre progressivamente l’estensione del vocabolario utilizzato quotidianamente (sia esso visivo o testuale) comporta inevitabilmente una riduzione della capacità critica e nei casi peggiori la supponenza di essere in grado di giudicare ciò che non si è in grado di comprendere solo per carenza di strumenti. Invece di alzare il livello medio, stimolando a crescere con gli inevitabili sforzi e sacrifici connessi, stiamo solo portando il livello generale sempre più in basso rivendendoci tutto come una semplificazione. Ma non c’è proprio niente di positivo in questo. 

Forse è il momento di fermarsi a riflettere sul significato delle cose. Senza bollarle aprioristicamente solo perché il loro aspetto formale non ci appaga secondo canoni preconfezionati. Se qualcosa non ci piace o non la capiamo, impariamo a chiedere, facciamoci pervadere dal dubbio, chiediamoci perché qualcosa non ci convince. Proviamo insomma a farci più domande sul perché qualcosa non ci convince. Potremmo scoprire che qualche volta semplicemente non siamo in grado di comprenderla. E questo sarebbe un ottimo inizio per iniziare ad acquisire nuovi strumenti, quelli cui tutti abbiamo la possibilità di accedere con lo studio e un po’ di impegno. Quelli cui tutti abbiamo diritto.


n. 223






AddThis Social Bookmark Button

28 commenti:

Giancarlo Parisi ha detto...

"Perchè che avrei dovuto raccontare?"...
Frase emblematica del problema che evidenzi Sandro. La fotografia sta diventando sempre più un mero esercizio estetico, un mezzo per appropriarsi di ammalianti manifestazioni del mondo, da trasformare in una sequenza binaria che poi verrà condivisa su portali di fotografia, facebook e solo rarissimamente stampata in modo peraltro mediocre.
E questo, come dici, è dovuto alla mancanza di cultura e soprattutto di insegnamento di fotografia nel nostro Paese; una mancanza che porta a credere che "sia tutto facile": se non si insegna vuol dire che non ce n'è bisogno, perchè è facile, appunto. E questo non accade solo tra chi non pratica la fotografia, cioè tra i meri consumatori di immagine, ma anche (ed è il peggio) tra coloro che le fotografie le prendono! I c.d. fotoamatori.
Tra l'altro anche la mera cattura di immagini avviene spesso in modo sconsiderato, approssimativo e, paradossalmente, antiestetico, tradendo anche quell'unica applicazione del mezzo. In tutti gli spazi web dedicati al confronto fotografico (come Flickr per intenderci, ma accade ovunque) lo scambio di commenti si riduce ad una serie di salamelecchi reciproci, anche su immagini di basso spessore, che inducono i frequentatori a convincersi di essere bravi fotografi solo perchè hanno questo arido e conformato apprezzamento dai più, peraltro direttamente proporzionale alla mole dei commenti che si riesce a fare. Insomma, non solo la lettura delle immagini è misconosciuta, ma anche la produzione di esse è ormai caduta in un baratro senza fondo: la fotografia si è ormai ridotta ad un bieco sfoggio di tecnologia all'avanguardia, una tecnologia che neanche sappiamo a cosa serva realmente.

Claudio Arch ha detto...

Secondo me si tratta di un problema che ha una doppia faccia. E' vero che da un lato vi è una grande ignoranza diffusa nel pubblico che andrebbe sicuramente colmata, ma dall'altro lato vi è, secondo me, un arroccamento delle elites culturali dietro a linguaggi e metalinguaggi sempre più astratti e complessi. Non credo che il semplice fatto di raccontare qualcosa renda la fotografia una buona fotografia, è necessario creare un messaggio efficace a più livelli. Per fare un esempio lampante prendiamo in considerazione una fotografia di Basilico: quello che viene raccontato è solitamente un frammento urbano, spesso degradato. In essa si possono leggere svariate storie, sviluppi e degenerazioni urbane, la vita di un brano di umanità, si ha una prospettiva differente da cui osservare sviluppi sociologici nello spazio costruito, ma si può anche semplicemente contemplare la bellezza dell'immagine, la luce che vibra sulle pareti i contrasti perfetti. I grandi capolavori artistici devono il loro status alla loro capacità di comunicare ad ogni osservatore un messaggio sorprendente, secondo me anche il semplice stupore di chi non si capacita delle doti tecniche dell'esecutore deve essere considerato un aspetto importante per determinare il valore di un'opera.

Unknown ha detto...

e io chiedo:
"perchè deve essere tutto difficile?"

Mi sono sempre autodefinito un fotoAmatore xchè amo la fotografia e fotografo per il mio esclusivo piacere personale; gli apprezzamenti altrui sono i benvenuti ma non fondamentali.
L'alta tecnologia a portata di molti, i numerosi "portali" dove ognuno può masochisticamente mostrare i propri "prodotti fotografici" hanno provocato una gigantesca esondazione di immagini da quelli che erano i canali classici come riviste e circoli o club, non necessariamente a scapito della bontà del prodotto.
Ci sono gli artisti e i fotografi della domenica che fino a ieri erano relegati nelle gallerie gli uni e nelle riunioni di famiglia gli altri; oggi sono tutti in prima pagina sulla rete, galleria e condominio allo stesso tempo.
Manca la capacità di discernere la foto, di collocarla in un contesto preciso e darle il giusto valore; indipendentemente da quale sia l'autore e il mezzo tecnico, una fotografia che ha alla base tecnica e creatività non DOVRA' necessariamente essere "affiancata" all'immagine realizzata il sabato sera nel pub per ritrarre gli amici, magari con mano tremolante causa alcol...anche se il contenitore in cui sono collocate è lo stesso.
Il proliferare di pagine web di gente che si autodefinisce "PHOTOGRAPER" la dice lunga sulle bellicose intenzioni di certi "fruitori della tecnologia dell'immagine", ma ciò non deve sconfortare colui che si ritiene portatore sano di "cultura fotografica" ma bensì spronarlo a contaminare e diffondere il virus dell'immagine.
In poche parole, la prossima volta che vedremo un'immagine dovremo avere il coraggio di darle il giusto peso e il giusto giudizio accompagnati da qualche buon consiglio del tipo " se bevi meno la mono ti trema meno e la prossima volta i tuoi amici si vedranno meglio".
al prossimo portfolio che non racconta niente basterà spiegare all'interessato il significato di "portfolio" e suggerire di usare il suo come blocco appunti dal lato bianco.

Spero sia stato facile seguirmi sino qui. :-)

Grazie a Sandro per lo spazio concesso

Anonimo ha detto...

Sono pienamente d'acordo con quanto scritto nell'editoriale. Ora la domanda che le pongo è: se un giovane volesse imparare a leggere l'immagine e frequentare il "conservatorio delle fotografia" concretamente quali vie deve intreprendere? Personalmente ho già le basi, ma ho il terrore di "disimparare" e regredire.
Grazie mille,

Marta D.C.

sandroiovine ha detto...

Il valore estetico di un'immagine dovrebbe essere uno strumento finalizzato all'espressione. Il rischio è quello di avere come fine lo stupore per lo stupore e derivarne un'inaridimento calligrafico. Tutto questo in ultima analisi non si discosta così tanto dallo... stupore per i corpi delle belle ragazze proposte dal canone televisivo (senza voler tirare in ballo la reificazione del corpo femminile). Le vediamo sono belle, magari possiamo stupirci per il lavoro della natura o del chirurgo plastico.... ma poi?
«Il semplice stupore di chi non si capacita delle doti tecniche dell'esecutore» se rimane senza conseguenze (ovvero non induce una curiosità a cercare oltre) produce senso di appagamento a fronte di un livello di analisi di sconcertante superficialità. Il problema è forse che siamo ormai adusi e proni a tutto ciò. E proprio questo era il senso del discorso. Che i livelli di fruizione siano variegati è inevitabile e soprattutto sacrosanto. Ma il problema è che la tendenza attuale è verso l'appiattimento in direzione dei livelli più superficiali della percezione.

sandroiovine ha detto...

Le cose di questo mondo non sono facili come il marketing vuole farci credere, proponendoci di continuo «l'ultimo modello,: meno costoso, più piccolo, più automatico e più efficiente dei modelli precedenti.»* Per continuare a dirla con Flusser*: «Il dilettante si distingue dal fotografo per la gioia di fronte alla complessità strutturale del suo giocattolo. A differenza del fotografo e del giocatore di scacchi, egli non è alla ricerca di nuove mosse, di informazioni, dell'improbabile, ma vuole semplificare sempre più la propria funzione grazie a un'automazione sempre più perfetta. L'automaticità dell'apparecchio fotografico, per lui impenetrabile, lo inebria. I circoli di fotoamatori sono luoghi in cui ci si inebria delle complessità strutturali degli apparecchi, sono luoghi da trip, fumerie d'oppio postindustriali.
La macchina fotografica esige che chi la possiede (colui che ne è posseduto) continui a scattare foto, a produrre sempre più immagini ridondanti. Questa fotomania dell'eterna ripetizione dell'uguale (o del molto simile) conduce infine a un punto in cui, senza la macchina fotografica il dilettante si sente cieco: comincia la tossicodipendenza. Il dilettante riesce allora a vedere il mondo soltanto attraverso l'apparecchio fotografico e secondo le categorie fotografiche. Egli non è al di sopra dell'atto fotografico, ma è divorato dall'avidità del suo apparecchio, è divenuto il prolungamento dell'autoscatto del suo apparecchio. Il suo comportamento è il funzionamento automatico della macchina fotografica.»**
Prima che qualcuno se la prenda gratuitamente, sottolineo che nel testo di Flusser il termine dilettante non è contrapposto in senso dispregiativo a fotografo, ne tanto meno la citazione vuole distorcere il senso originale.
Mi sono permesso di citare Flusser, sia pure in modo parziale e incompleto, unicamente per dare il senso del ragionamento che sottende il post.

*Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, 2006; pagine 75.
** Ibidem, pagine 76-77.

Anonimo ha detto...

Grazie mille, Sandro. Hai reso in parole quello che è il mio "tormento interiore" da qualche mese. Sono una neofita e quindi guardo molto quello che fanno gli altri, non per copiare ma per capire. Quello che ho notato che si tende a "fotografarsi addosso", a produrre immagini secondo i parametri più scontati e facilmente fruibili dalla maggioranza. E giù ritratti in BN, paesaggi evocativi... tutti uguali. Ormai sono in overdose: riesco a sopportare solo la foto sportiva e quella naturalistica o le testimonianze dei grandi fotoreporter, cioè il racconto di una storia. Bella o brutta che sia. Io ne ho bisogno. Forse gli altri meno...
Simona Cardente

Giancarlo Parisi ha detto...

Esatto Sandro! La direzione intrapresa è quella che vuole tutto e subito nell'immagine. La fotografia dev'essere autoesplicativa e immediatamente fruibile, se devo sforzarmi troppo per comprenderla passo oltre, perchè non ho mica tempo da perdere! Per ricollegarmi a marcello, non è vero che dev'essere tutto difficile. Se per difficile intendi(amo) che ci può essere un senso altro rispetto a quello palese (se c'è), allora siamo fuori strada. Io non sono molto daccordo sulla teoria secondo la quale "io fotografo per me e quello che pensano gli altri mi interessa relativamente", perchè sembra legittimare solo l'ingresso ad apprezzamenti e non anche a critiche.
Insomma, fare le cose per se ed essere refrattari sarà anche lecito, ma non per questo intelligente. Ora non voglio essere frainteso, non mi sto riferendo in particolare a Marcello che non conosco, ho solo preso spunto dal suo intervento per esprimere un concetto.
Ma la verità è questa e si ricollega perfettamente a Flusser

sandroiovine ha detto...

Marta, il problema della strada da intraprendere lo abbiamo affrontato più volte, anche di persona. Purtroppo con i miei limiti che non sono ne pochi ne piccoli, riesco a individuare solo un paio di possibili soluzioni.
La prima è quella di emigrare all'estero e seguire dei corsi di livello universitario. E questa è la più semplice.
La seconda è impegnarsi personalmente, senza la speranza di un aiuto concreto o di un riconoscimento, nell'acquisizione di una conoscenza strappata a brandelli per ogni dove possibile e poi ricostruita.
Dopo di che non rimane che cercare di seminare, come stiamo facendo anche in questa discussione, nelle pagine di una rivista o nelle letture portfolio, come gentilmente riconosciuto da Marcello. Abbiamo dei semi, possiamo curarli e accudirli nella speranza che il terreno non sia così arido da farli morire prima che spunti una piantina.

Claudio Arch ha detto...

Ribadisco solo velocemente un concetto perchè temo di aver scritto un messaggio fraintendibile. Concordo pienamente nel dire che la complessità che una fotografia contiene è un valore da recuperare e difendere. E' necessaria una educazione all'immagine, tanto più perchè viviamo in un mondo in cui l'immagine è il linguaggio più diffuso per trasmettere messaggi. La volgarizzazione e l'appiattimento dei contenuti devono essere combattuti. Quello che secondo me va però evitato da parte di chi crea professionalmente immagini è il rischio di una intellettualizzazione estrema. Immagini che trasmettono messaggi incomprensibili se non si legge la lunga e articolata descrizione fornita dall'autore, o peggio, messaggi che rimangono oscuri anche dopo aver studiato l'apparato teorico su cui si è costruita l'opera, non sono sistemi validi per avvicinare la gente alla buona fotografia, anzi, si rischia di allontanare chi si vorrebbe educare, spingendolo a preferire immagini piatte e ripetitive, ma per lo meno accessibili.
Vorrei solo suggerire un punto di vista differente, quello di chi, come me, sta dall'altra parte della barricata rispetto ad un professionista, ma che per curiosità intellettuale si è creato una minima cultura all'immagine e vorrebbe capire quello che gli viene proposto da chi fa fotografia per professione. Io sono disponibile a leggere e studiare un pò per poter comprendere un'immagine, ma spesso mi sento tagliato fuori da un linguaggio intellettualistico e incomprensibile anche da chi dovrebbe essere il fruitore dell'opera.

fabio sirna ha detto...

Dove studiare? Hai libri da consigliare su come leggere le immagini? Grazie.

Fabio

PS. Trovo il blog è illegibile. Manca di contrasto (grigio chiaro su bianco davvero poco contrasto) e font troppo piccoli. Chi è ipovedente o ha problemi con i colori credo faccia molta fatica :)

sandroiovine ha detto...

Io credo che il nocciolo della questione sia proprio nell'impiego di linguaggi specialistici, che in teoria non dovrebbero esser utilizzati per escludere una parte di pubblico, bensì per esprimere maggiore precisione e sinteticità dei concetti specifici, riducendo al massimo il margine di errore interpretativo. Purtroppo spesso invece si usano solo per dimostrare una presunta superiorità. Mentre dall'altra parte troppo spesso si finisce per rifiutare un accrescimento personale che consenta di accedere ai suddetti linguaggi specialistici. Invece che attenderci l'abbassamento di livello da parte degli altri, perché non proviamo ad elevare il nostro di livello, almeno relativamente agli argomenti che ci interessano?

Consigli di lettura? Sarò poco fantasioso, ma per cominciare consiglio sempre l'ottimo Leggere la fotografia, Osservazione e analisi delle immagini fotografiche di Augusto Pieroni, Edizioni Edup. Partendo poi dalla bibliografia presente in questo volume si possono ampliare le proprie conoscenze.

Anonimo ha detto...

Sandro, so che ne abbiamo parlato più volte di persona. Ma forse avrai imparato a conoscere i miei "tormenti" e la mia incapacità a rassegnarsi, la mia incapacità a resare fruitore inconsapevole. Sai che ho il brutto vizio di dover conoscere e comprendere ciò che faccio, vero? Per questo continuo a chiederti quali sono le strade da percorrere per diventare "addetti ai lavori". Spero di non essere la sola a pormi questi problemi, ma a quanto pare non lo sono. E spero di riuscire a mantenere viva quella coscienza critica che ci fa porre domande quando osserviamo, ascoltiamo, leggiamo, che non ci fa vedere le cose "sempre tutte facili"
M.D.C.

Claudio Arch ha detto...

Per Fabio.
Io non sono un fotografo, ma mi sono avvicinato alla fotografia con "La camera chiara. Nota sulla fotografia." di Roland Barthes
Ma più genericamente sull'educazione visiva non solo fotografica ho letto "Punto Linea Superficie" di Vassily Kandinsky e "Arte del colore. Esperienza soggettiva e conoscenza oggettiva come vie per l'arte" di Johannes Itten (mi piace molto il Bauhaus), al momento non mi vengono in mente altri testi.. Per capire la tecnica ho invece studiato il corso di fotografia della National Geographic. Ripeto che non sono un addetto ai lavori, quindi riporto solo la mia personalissima bibliografia minima di riferimento.

sandroiovine ha detto...

La camera chiara è uno dei libri più letti e citati quando si parla di fotografia, ma richiede un minimo di competenze di base in campo semiotico per non essere frainteso o compreso parzialmente. Mi permetto di consigliare prima di affrontarne la lettura la presa di contatto con un manuale di semiotica. Altrimenti si rischia di unirsi alla folta schiera di quanto lo citano insieme a Cartier Bresson fuori luogo per far vedere che sanno di fotografia (per non creare equivoci non mi sto riferendo a Claudio, ma a numerosi altri personaggi incontrati personalmente nel corso della mia vita).

Claudio Arch ha detto...

Ringrazio Iovine per la precisazione. Ha pienamente ragione, in effetti è necessaria una base di semiotica per poter leggere quel libro, ma dal mio punto di vista una base di semiotica è necessaria anche per poter leggere la fotografia in modo corretto, e non cadere nella lettura semplice da cui era partito questo dibattito. Credo che una base di semiotica, di teoria della composizione, di storia dell'arte, di sociologia e di geometria descrittiva facciano parte del bagaglio fondamentale necessario per comprendere le immagini.

sandroiovine ha detto...

Considerato che la discussione partiva proprio dalla considerazione che la lettura delle immagini può essere più stratificata... direi che siamo perfettamente d'accordo, anche se aggiungerei almeno tra le basi indispensabili quella storica e quella filosofica.

francesco peluso ha detto...

Ma perché deve essere tutto facile?

perche come sai benissimo più è facile è più "cose" si vendono !

credo che l'azienda fotografia (come numero di macchine vendute) non abbia mai raggiunto queste cifre.

E' un bene o un male ?

non lo so

Io in particolar modo penso che se il processo tecnologico mi fa guadagnare tempo e risorse che poi posso utilizzare per approfondire il concetto "contenuto" sia un elemento positivo.
Ma ho il vago dubbio che non sia questo il concept che spinge la proliferazione di nuove tecnologie.

Non vorrei essere pessimista ma credo, forse (spero) sbagliando, che la gente non voglia perdere tempo, sudare e spremersi le meningi cercando di capire (o peggio studiando) un processo, sia esso creativo che tecnologico.

Vuole tutto e subito, in un clic come diceva una celebre pubblicità.
Il capitalismo (consumismo) decreterà la fine del mondo ?
o, visto il tempo che la tecnologia ci fa risparmiare, ci porterà ad annegare in una moderna forma di accidia ?

La tua battaglia (isolata !?) è sicuramente da apprezzare e da appoggiare ma mi ricorda molto la storia degli indiani e delle giacche blu.

Ma arrendersi mai.

Trovo questo tuo passaggio (che copio ed incollo) sia molto importante

"La seconda è impegnarsi personalmente, senza la speranza di un aiuto concreto o di un riconoscimento, nell'acquisizione di una conoscenza strappata a brandelli per ogni dove possibile e poi ricostruita.
Dopo di che non rimane che cercare di seminare, come stiamo facendo anche in questa discussione, nelle pagine di una rivista o nelle letture portfolio, come gentilmente riconosciuto da Marcello. Abbiamo dei semi, possiamo curarli e accudirli nella speranza che il terreno non sia così arido da farli morire prima che spunti una piantina."

Penso che questa sia la strada giusta e devo ringraziarti per la tua scelta di fare l'indiano in questa difficile battaglia.

Senza timore di cadere nell'imperante e totalmente falso buonismo natalizio penso che stai facendo veramente molto per il panorama fotografico nazionale.

PS per gli amici che vogliono approfondire devo dire che ho trovato molto interessanti i materiali del corso di semiotica di Giovanna Cosenza che ho trovato seguente il link DIS.AMB.IGUANDO sulla home page del blog Fotografia: Parliamone!.

sandroiovine ha detto...

DI sicuro sono queste le ragioni della ricerca di una presunta facilità, ma proprio per questo qualcuno dovrebbe provare a chiedersi dove porta tutto questo.
Grazie Francesco per le tue parole, ma non credo di poter interpretare degnamente un ruolo tanto eroico come quello da te descritto (anche perché di fare la fine dell'indiano non è che mi vada poi tanto...). Mi limito a condividere qualche riflessione personale su temi che mi stanno a cuore. Se poi questo risulterà di una qualche utilità per qualcuno, ovviamente non potrò che esserne felice e anche un po' orgoglioso.

TMax ha detto...

Ottimo spunto di riflessione quello di Sandro!

Mi permetto di indicare come libro
quello di Taddei: Lettura Strutturale della Fotografia
edito negli anni 80. Trovato per caso cercando in internet qualcosa sulla lettura della fotografia.
Indipendentemente dal giudizio che se ne può dare circa l'opportunità o meno di avere un metodo, trovo che il libro fornisca molti spunti di riflessione ed è per lo meno un punto di partenza solido!
Poi, non c'è dubbio, occorre come dice giustamente Sandro, anni di esperienza , visione di migliaia di fotografie per trovare il proprio metodo.
Una cosa mi lascia perplesso e incuriosito e che ho già scritto in un precedente topic: perchè questo libro e questo metodo è difatti misconosciuto ( almeno questa è la percezione che ho io)?
Ho provato a cercare 'critiche' al libro o al metodo ma non ne ho trovate, vorrei capire se è già stato bollato come una fesseria non degna di attenzione e se si perchè. So che la FIAF lo adottò come metodo per la 'valutazione' delle foto. Ma rimandi a questo metodo se ne trovano davvero pochissimi. Il libro di Pieroni, consigliato da Sandro, valido sotto molti punti di vista ( tranne forse per la sezione degli esercizi finali, che forse meriterebbero una spiegazione migliore), non lo cita per nulla nella bibliografia, eppure io ci ho ritrovato nella struttura del libro di Pieroni alcuni fondamenti indicati da Taddei.

Luca Lombardi ha detto...

Ho letto e riletto più volte questo pezzo del post:
"Il sacrosanto concetto che tutto dovrebbe essere comprensibile a tutti, finisce per essere declinato in semplificazione progressiva che invece di rendere accessibili i testi, finisce per occultarne il senso profondo mostrando solo ed esclusivamente la superficie originando una spirale di non comprensione dei fatti sempre più pericolosa. Le conseguenze le possiamo vedere in ogni angolo della nostra vita. Ciò che esula dalla comprensione immediata viene bollato, perché non aderisce alle logiche di comprensione immediata. Il bello è che in questo modo il concetto da cui origina il problema (ovvero rendiamo tutto accessibile a tutti) viene completamente capovolto, relegando in una profonda inconsapevolezza una percentuale enorme di popolazione. Ridurre progressivamente l’estensione del vocabolario utilizzato quotidianamente (sia esso visivo o testuale) comporta inevitabilmente una riduzione della capacità critica e nei casi peggiori la supponenza di essere in grado di giudicare ciò che non si è in grado di comprendere solo per carenza di strumenti. Invece di alzare il livello medio, stimolando a crescere con gli inevitabili sforzi e sacrifici connessi, stiamo solo portando il livello generale sempre più in basso rivendendoci tutto come una semplificazione. Ma non c’è proprio niente di positivo in questo. "

Esprime con lucidità ed essenzialità il problema della "caduta" della civiltà occidentale in genere, senza generalizzare né voler (s)cadere nelle teorie dei massimi sistemi.

Con particolare riferimento all'Italia ed al campo dell'istruzione superiore e universitaria, nel quale opero e lavoro, direi che si può fare un discorso simile su come è stata implementata l'istruzione obbligatoria e sui disastri del (necessario) livellamento verso il basso che ha comportato.
Argomento troppo complesso da elaborare in questa sede, ma ritenevo utile tirarlo in mezzo per ampliare il raggio della discussione.

sandroiovine ha detto...

@ Luca
Vorrei tanto poterti contraddire, ma, ahimè, temo proprio di essere costretto a darti ragione.
Ho apprezzato molto l'allargamento di campo.

Paolo Longo ha detto...

Comincio col ringraziare Sandro Iovine per il tema proposto, che credo possa riguardare e coinvolgere chiunque fotografi ( sia il neofita, sia il rpofessionista che, di tanto in tanto non può non rifarsi certe domande...).
Come ho già rilevato altrove e come appare dalla riflessione iniziale, non esiste nel nostro Paese una 'scolarizzazione' o 'alafabetizzazione' diffusa nei confronti del linguaggio fotografico. Nel senso che esso, pur essendo un linguaggio di amplissima e forte comunicazione, non è stato ancora considerato oggetto di insegnamento e di studio ( ad esempio nella scuola pubblica ), così come si trasmettono gli strumenti minimi necessari ad accostare un testo letterario o, in alcuni casi, pittorico o musicale.
La mia formazione in ambito umanistico e musicale ( ho fatto il musicista di professione per tutta la vita) mi permette di dire che l'esempio del linguaggio musicale e dello spartito cui non ci si può accostare se non ne si conoscono i 'codici', è perfettamente calzante.
Come pienamente condivisibile è la riflessione di un forzoso e subdolo abbassamento di certi livelli, al fine di offrire una illusoria e fallimentare fruibilità e appetibilità della Fotografia in generale.

Mi permetto di aggiungere o, meglio, sviluppare un tema implicitamente già presente nella riflessione.
Se è vero che, quando ci si accinge a scrivere un testo ( sia esso letterario che musicale), è necessario avere un minimo di chiarezza su ciò che si vuole comunicare e, di conseguenza, sul come farlo, così dovrebbe avvenire nella Fotografia.
Io chiamo 'progetto' una serie di scelte, di atteggiamenti, di obiettivi, i quali obbligano l'autore a evitare la casualità estemporanea e lo mettono in grado di comunicare con maggior chiarezza ed efficacia il senso del proprio lavoro e della propria ricerca.

'Perchè faccio questa foto e non un'altra?' ' Che cosa' appunto ' voglio esprimere a me e comunicare agli altri?'...e così via.
Spesso un'idea programmatica, un 'racconto', una serie, troveranno maggiore e migliore capacità espressiva e comunicativa. Sono convintoche anche una singola immagine, perfino estrapolata da una serie o da un racconto fotografico, sia capace, anche da sola, di avere più forza di uno scatto casuale, magari anche esteticamente corretto e attraente.

Aggiungo infine un dato che ho riscontarto nella mia modestissima esperienza: avviene di fotografare con più efficacia e profondità ciò che si conosce meglio.
Potrebbe essere un buon punto di partenza, capace di aiutarci, poi, ad afrrontare nel tempo temi e soggetti 'altri', ovvero sempre nuove frontiere da varcare nella ricerca, nella fatica di sbagliare e migliorarsi, cercando in sè e nel mondo circostante quella originalità che, almeno in parte, può essere presente tra i nostri piccoli talenti.

Antonio Trincone ha detto...

Durante la lettura della prima parte di questo post, in cui mi sono imbattutto non ricordo più come, mi è venuto un colpo, avendo giusto ieri varato un mio blog di fotografia (pur non conoscendo bene il mezzo tecnico dei blog) con un articolo intotolato Partiamo dal titolo (del blog) che è guarda caso: Imagines Volant scripta manent. Proseguendo nella lettura devo dire che riconosco le tue ragioni in quello che esprimi nell'articolo benchè ci siano movimenti di fotografia piuttosto estemporanea (lomography, per esempio) che sembrano contraddire quanto dici. Il surrealismo stesso è una corrente artistica che è stata la più vicina alla fotografia senza che ciò sia un caso senza significato.
Quello che voglio dire, usando le tue parole, è che si racconta anche se non si vuole/deve per forza raccontare.

sandroiovine ha detto...

Per chi abbia un minimo di confidenza on l'Oriente e la sua cultura, anche nella lomografia sarebbe facile individuare una volontà narrativa che prescinde dall'atto raziocinante e affonda le sue radici nell'inconscio. Anche se in una lettura di questo tipo sarebbero necessari a monte svariati anni di applicazione per far sì che lo studio della tecnica si annulli in se stesso. Per cui sì, sono convinto che si racconti sempre e comunque, anche quando non abbiamo intenzione di farlo, anche se non vogliamo farlo. Il problema semmai è che ci sia lì fuori qualcuno che abbia voglia di ascoltare quel che stiamo dicendo...

Claudio Arch ha detto...

Rispondo ad Antonio con questa citazione "Chi in arte e in letteratura (e, aggiungerei, nella vita), non è in grado di darsi delle regole diventa schiavo di regole altrui senza neppure saperlo", " Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo di regole che ignora" tratta dall'articolo
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2010-11-07/centomila-miliardi-calvino-160943.shtml?uuid=AYjBWthC
Chiaramente l'argomento è differente, ma penso che si possa ben adattare a quanto scritto da te, io ritengo utile avere qualche cosa da raccontare, piuttosto che affidarsi al caso, è vero che ogni soggetto fotografato è in grado di raccontare qualcosa all'osservatore, anche in rapporto alle differenti esperienze personali, ma il rischio è di raccontare qualcosa che non si vorrebbe, esprimere concetti e idee lontane da sè, senza poter esercitare controllo sulla narrazione, che ricadrebbe in qualche schema interpretativo confezionato da altri prima di noi.

Unknown ha detto...

Rispondo sia a Sandro Iovine che a Claudio Arch innanzitutto ringraziando per le due risposte e per l'articolo linkato che ho letto con piacere ma che ahimè per via della mia ignoranza nella materia non ho potuto coglierne lo spirito profondo.
A Sandro dico che il problema di trovare lì fuori qualcuno che ci ascolti c'è e dovrebbe essere, a mio parere, quel te stesso con cui vivere in compagnia nella vita.
Per Claudio dico che sono molto innamorato del Surrealismo e proprio della sua tecnica della scrittura automatica oserei dire fin quasi da bambino. Non è come ho detto sopra una familiarità culturale (ho estrazioni culturali molto diverse) ma proprio quasi una familiarità tal quale, come lo sarebbe un amico di infanzia. Capisco perfettamente il pericolo di ricadere in clichè culturali preconfezionati da altri ma a mio parere proprio educando l'istinto a "ricevere" la fotografia più che a "ri-prenderla" questo pericolo si potrebbe riuscire a non correrlo.
Approfondirò l'argomento sul sito dove ho conosciuto questo blog "Circolo Fotografico" cui mi sto apprestando a collaborare con una recensione di un bel libro il cui tema fondamentale gira intorno a questi argomenti. Mi permetto di anticiparvelo: http://www.amazon.com/Little-Contemplative-Photography-Justice-Peacebuilding/dp/1561484571

fabioliverani ha detto...

é sempre un piacere leggere le parole di sandro Iovine, la ri eplosione della fotografia amatoriale avvenuta con l'avvento del digitale ha elevato il numero di appasionati ai numeri dgli anni 70 - 80. ha elevato il livello teccnico ma ha impoverito quello "culturale", pare che il porsi domande sia un po' fuori moda. occorerebbe sopratutto muoversi in una direzione più culturale e meno teccnica, come fa sandro appunto, arrichendo il panorama dei contenuti fotografici con parole stimolanti ed intelligenti. Meno sharpen più linguaggio fotografico! Sta agli operatori di settore introdurre i principianti a non imparare solo la tecnica ma anche il linguaggio, ad imparare ad analizzare le immagini per connotati e denotati, a concentrarsi sulla propria idea di fotografia, sia essa idea armonica, idea narrativa, idea documentaria, imparare ad esprimersi attraverso la fotografia come ci esprimiamo attraverso la parolaa scritta o verbale. La fotografia altro non è che linguaggio, forma di comunicazione, e così anfrebbe approcciata...
f.