lunedì 4 luglio 2011

Photoshop fa male, parola di medico





A parte una più o meno in-giustificabile inesettazza da parte dell'estensore**, nell'articolo  Angelo Acquaro, spiega come, secondo la già citata associazione di medici statunitensi, l'utilizzo massivo del fotoritocco nei ritratti di personaggi particolarmente in vista porterebbe a una percezione distorta delle aspettative nei confronti del proprio corpo, con tutte le conseguenze del caso nel medio e breve periodo.

Una schermata della gallery Photoshop fa male alla salute che è stata linkata nell'articolo di Angelo Acquaro.

Non voglio entrare nel merito della legittimità della presa di posizione dei medici statunitensi, ma non posso fare a meno di riflettere circa il fatto che, al di là del Photoshop della situazione, di prodotti e situazioni che propongono realtà impossibili sul mercato ce ne sono molte di più di quante il più accanito tossicodipendente visivo possa mai sperare di assumere nella sua vita di perdizione. E non serve citare gli scontati rischi connessi all'abuso di videogiochi. Basta prendere una qualsiasi puntata di una delle più o meno irreali serie di telefilm trasmesse quotidianamente per trovare, al di là trame sempre meno correlate al mondo reale, incongruenze di illuminazione o di cromia. Certo, lo sappiamo tutti che servono a rendere il prodotto più appetibile a un pubblico annoiato, a dare riconoscibilità alla serie e via così con tutte le giustificazioni che la mente razionale dei produttori riesce a partorire. Tutto vero. Ma è vero anche che le immagini sempre meno realistiche che vengono proposte lavorano in silenzio e scollano sempre di più il pubblico dal reale.

Ben venga quindi chi sottolinea i rischi dell'abuso di artifici per creare bellezze impossibili, ma forse è il caso di preoccuparsi anche di altre tensioni all'alienazione, come quando si fa giornalismo ricorrendo costantemente alla banalizzazioneCi chiediamo mai quanto il rendere accessibili per forza le cose per mezzo di artifici linguistici riduttivi non possa essere rischioso? Quanto non aiuti ad uccidere la capacità di pensare? Scegliere vocaboli attraenti e conosciuti (come nel caso di Photoshop usato per intendere fotoritocco) comporta quasi sempre la banalizzazione dei concetti che si vorrebbero (o dovrebbero?) trasmettere. E questo è assai probabile che alle lunghe scateni un processo di sempre più preoccupante acriticità e forse anche ignoranza. Trattare da deficienti (in senso etimologico stretto) i lettori non può che produrre lettori deficienti.

E in ogni caso il problema rimane legato all'utilizzo e ai motivi per cui si applica tanto frequentemente il fotoritocco. Fin troppo banale dirlo, ma non si può certo dire che una cintura per pantaloni non sia un accessorio utile. Fa star su un capo d'abbigliamento consigliato dalla decenza e può perfino contribuire a migliorare l'aspetto generale di chi la indossa. È quindi un oggetto positivo. Ma se la si utilizza per strangolare qualcuno che non ci è troppo simpatico diventa un oggetto negativo. Il che nulla toglie al fatto la sua pericolosità non sia congenita alla cintura in se stessa, bensì derivi dall'impiego che si decide di farne.

Acquaro, in conclusione del suo testo, strizza l'occhio con grande mestiere al lettore lamentando che gli stessi medici che condannano l'applicazione del fotoritocco alle immagini di personaggi di riferimento, non usino lo stesso metro di giudizio nei confronti degli interventi assai meno virtuali effettuati con il bisturi dai colleghi chirurghi plastici. A parte il tono vagamente populista dell'affermazione, è difficile non essere d'accordo. Meno facile per me è invece accettare la tesi che, a partire dai tempi di Platone, siamo abbastanza attrezzati a diffidare delle immagini. Su questo non riesco ad assentire perché per lavoro sono quotidianamente costretto a confrontarmi con la capacità media di valutare un'immagine. E, a meno di non essere proverbialmente sfortunato negli incontri che faccio, il quadro della situazione che rilevo è in questo senso desolante quando si tratta di comprendere il senso dei testi visivi che ci assalgono attraverso i media più svariati. Il problema è che  le immagini veicolano, con frequenza inquietante, sottotesti e messaggi che raggiungono il bersaglio nella più completa inconsapevolezza dello stesso. 




La ricostruzione diffusa dalla Polizia di Stato del volto che si presume abbia Matteo Messina Denaro nel 2011.


La cronaca offre poi altri spunti di riflessione. Se assumiamo come corretta la posizione dei medici statunitensi e accogliamo l'urgenza di sottolineare le conseguenza e i rischi dell'eccesso di manipolazione delle immagini, in quali termini dobbiamo porci nei confronti di notizie come quella relativa all'identikit di un noto mafioso latitante diffuso dalla Polizia di Stato? 
Scrive Romina Marceca (ma praticamete tutti utilizzano formule grammaticalmente e sintatticamente equivalenti): «Ecco com'è Matteo Messina Denaro, l'ultimo superlatitante di Cosa nostra, quattro anni dopo il primo identikit del 2007. Il nuovo ritratto è stato diffuso dal servizio di polizia scientifica della Polizia di Stato, che ha  utilizzato una nuova tecnica, l'Age Progression, che si basa sull'evoluzione di un volto calcolando il trascorrere del tempo.»* Ecco com'è indica la certezza del risultato dell'elaborazione e non lascia adito a quel minimo di leggittimo dubbio che una tecnica basata sulla ricostruzione completamente computerizzata di dati fisiognomici parentali dovrebbe garantire. Non contesto l'utilità di queste ricostruzioni ai fini investigativi, ma trovo assolutamente impropria la scelta delle forme verbali con tutto l'indotto propagandistico che palesemente si portano dietro. In pratica si esalta il risultato ottenuto nella ricostruzione virtuale di un volto da parte della Polizia di Stato, ma si evita accuratamente di ricordare da quanto tempo Matteo Messina Denaro sia ricercato senza successo dalle stesse forse dell'ordine. 

Chiudo con un appunto che intende sollevare gli strenui difensori di La Repubblica e della categoria dei giornalisti, specificando che queste righe non vogliono essere un attacco ne alla testata ne alla stimata categoria professionale. Si tratta solo di considerazioni generali scaturite incidentalmente dalla lettura di Repubblica.it. Repliche in questo senso risulterebbero quindi poco pertinenti ancorché gradite per il prestigio del loro estensore.


*   Clicca sulla citazione per leggere l'articolo.
** [...] Ritoccata, magari non solo dai semplici ferri ma anche da quel particolarissimo trucco fotografico che si chiama Photoshop. Vedi I medici USA contro Photoshop "Crea aspettative non realistiche"  pubblicato su Repubblica.it il 29 giugno 2011.


AddThis Social Bookmark Button

1 commento:

Michelangelo ha detto...

A volte mi domando se la vera intenzione sia quella di trattare i lettori come "deficienti" banalizzando tutto ed utilizzando una terminologia non adatta o quanto in realtà non siano alcuni giornalisti ad essere ignoranti su determinati argomenti.

In ambo i casi non accetto la cosa poiché il conoscere o l'informarsi prima d'informare dovrebbe essere alla base del loro lavoro. Nel primo caso invece vedrei un comportamento malevolo atto a non permettere una crescita culturale e critica dei lettori.