Arles. In memoria di Sergei Eisenstein verrebbe da scrivere Да здравствует Мексика! (¡Qué viva México!) dopo aver visitato la ricchissima serie di mostre dedicate alla fotografia messicana ai Rencontres d'Arles. Come tradizione, una cospicua parte delle esposizioni è dedicata anche quest'anno a uno stato. E dopo Cina, India e Iran nel 2011 è la volta del Mexico.
Alla mostra di Graciela Iturbide ho già dedicato un post in cui ho dato conto della nostra lunga conversazione, per cui non mi dilungherò oltre limitandomi, nel video a corredo di questo post a mostrare qualche immagine della visita guidata condotta dall'autrice il 7 luglio. Nella stessa sede espositiva, l'Espace Van Gogh, è poi possibile vedere la mostra la Mexique: Photographie et Révolution, un'interessante retrospettiva con documenti di grande interesse storico e iconografico. In particolare ho trovato interessante le sezioni in cui vengono mostrati gli utilizzi della fotografia nel racconto del contemporaneo e la lucida coscienza dimostrata da grafici ed editori nella messa in pagina delle immagini. In essa si nota inequivocabilmente una straordinaria chiarezza di intenti, soprattutto nell'esposizione dei corpi e della morte (vedi le immagini di Villa passato a... miglior vita) che appare esemplare sotto il profilo dell'impiego politico dell'immagine fotografica.
Arles, Église des frèeres Précheirs, l'allestimento della mostra Gabriel Figueroa, La traversée d'un regard. |
Della massima suggestione l'allestimento, presso l'Église des Frères Précheurs, della mostra Gabriele Figueroa, la traversèe d'un regard. L'impatto provenendo dalla luminosità esterna è straordinario. Lo slancio architettonico tra romanico e gotico, immerge lo sguardo verso l'alto a misurare l'ampiezza del buio punteggiato dagli schermi disposti lungo il perimetro interno. In quelle che devono essere state cappelle frammenti in loop di film di Luis Buñel (di cui Figueroa ha curato la fotografia) si trasformano in altari laici dedicati all'immagine. La penombra cui man mano l'occhio si adatta è accarezzata da una musica lenta ed evocativa che scandisce il rimando tra i due schermi più grandi su cui si disegnano volti e sguardi che amplificano gli spazi. La percezione del tempo diventa un'ipotesi. Man mano che gli occhi si abituano le postazioni di visione, corredate di testi esplicativi, emergono dal nero con il loro carico di spettatori. Scivolando verso il centro della sala ti ritrovi immerso in una sorta di effetto ipnotico per cui potresti rimanere ore a perderti nello sguardo di Figueroa.
Decisamente una delle cose migliori viste in questa edizione dei Rencontres. A dimostrazione di come sia sufficiente non considerare la fotografia con sguardo miope per realizzare delle opere di assoluto valore espositivo e culturale. Un'esperienza che consigli vivamente a chiunque ritenga di avere un minimo di interesse per l'immagine e si trovi a passare nei dintorni di Arles entro settembre.
Dissacrante invece la mostra Univers privés, illusions pubbliques, in cui Daniela Rossell scandisce le improbabili esternazioni private del potere economico delle classi più agiate in Messico. In un trionfo di cattivo gusto esasperato, i protagonisti sono incastonati nei loro ambienti intimi, di cui si riesce a non ridere solo in considerazione del fatto che il lavoro dell'autrice esclude di pensare il tutto come una farsa esasperata.
Un po' penalizzata dalla collocazione è invece a mio avviso la mostra di Maya Goded, che nelle sue due sezioni (Welcome to lipstick e Land of witches) affronta con immagini pacate e forti nel contempo temi antropologici che, da non messicano, ho trovato suggestivi e interessanti.A penalizzare l'esposizione la vicinanza con la sala in cui era proiettato il lavoro di Dulce Pinzon (La véritable histoire des super-heros) dedicata ai lavoratori messicani emigrati negli States. Questi sono stati ritratti in contesti di assoluta normalità lavorativa, ma con indosso costumi sa super eroi. A primo impatto il mio giudizio è stato assolutamente negativo per la retorica sottesa dal connubio tra scelte estetiche, titolo e argomento del lavoro fotografico. Rendere persone che compiono lavori mediamente umili dei super eroi facendogli indossare dei costumi, mi è sembrata una sovrapposizione di segni intollerabile e grondante di una retorica buonista piuttosto infantile. A farmi rivalutare il lavoro però i dati relativi alla professione e alle cifre che queste persone riescono ogni mese a inviare a casa in Messico. Purtroppo nel video a corredo di questo post, le informazioni proiettate a fianco delle immagini scompaiono a causa di un gap di esposizione non risolvibile. Uscendo dalla sala di proiezione sono rimasto con una serie di dubbi sull'opportunità delle scelte di tipo estetico, ma il lavoro di Dulce Pinzon ha comunque il grande merito di indurre alla riflessione su realtà che senza andare negli Stati Uniti, possiamo verificare sotto i nostri occhi tutti i giorni anche nelle nostre città.
Nel Cloître SaintTrophime, in pieno centro, è ospitata la mostra di Fernando Montiel Klint (Actes foi) la cui esasperazione formale vorrebbe, a suo dire, mettere in luce gli aspetti più inquietanti della nostro vivere quotidiano. La costruzione cinematografica, se mi è consentito riportare la definizione utilizzata dallo stesso autore (definizione che per altro mi rimanda immediatamente a Jeff Wall), è sicuramente di prima qualità e i rimandi a stilemi e stereotipi della fotografia pubblicitaria hanno indubbiamente un senso all'interno dell'impianto teporico che sottendenderebbe il lavoro. Ciò non di meno e nonostante la volitiva esposizione di Fernando Montiel Klint durante la visita guidata, la visione della mostra non ha fugato le mie perplessità sull'insieme del lavoro.
Come forti dubbi mi sono rimasti visitando, all'Atelier des Forges, 101 tragédies di Enrique Metinides. Un cartello all'ingresso della mostra avverte che le immagini possono risultare fastidiose per un pubblico sensibile. In effetti la cronaca seguita con attenzione regala spettacoli davvero poco piacevoli. In un florilegio di aerei accartocciati al suolo (dopo aver visto questa mostra semmai andrò in Messico mi terrò rigorosamente lontano da qualunque oggetto volante), spiccano immagini come quella di un bimbo con la mano finita nel tritacarne e portato al pronto soccorso con l'utensile da cucina ancora attaccato al braccio, o meglio a ciò che ne rimane. E ancora una radiografia che mostra una bottiglia di tequila finita all'interno del bacino di un uomo a seguito di pratiche su cui è meglio stendere un velo di pudore o il ritratto di una donna morta in un incidente stradale in cui colpisce l'irreale la cura di acconciatura e trucco (era appena uscita dal parrucchiere per andare a registrare una trasmissione televisiva). Potrei continuare e non direi nulla che chiunque abbia un po' di pratica con la cronaca non conosca a perfezione indipendentemente da dove viva. La cosa che infastidisce, o perlomeno che ha infastidito me, è l'esibizione di didascalie che ironizzano, quando non cercano di fare del discutibilissimo umorismo, sulle situazioni narrate dalle immagini. Considerato che in linea di massima ci si trova di fronte a qualche tragèdie, la cosa non mi sembra espressione di particolare buon gusto. Che poi Metinides possa essere un grande fotografo di cronaca, un catalogatore che riesce a cogliere una strana poesia della morte, non lo metto indubbio, ma c'è una morbosità di fondo in questa mostra che mi irrita a partire dal titolo che le è stato assegnato.
Tante parole e nessuna immagine per raccontare le mostre messicane di Arles 2011?
No, no, basta cliccare come al solito il video qui sotto.
No, no, basta cliccare come al solito il video qui sotto.
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