domenica 28 gennaio 2007

Ma bravo Pellegrin!

Mercoledì 31 ottobre 2006, La Repubblica, pagine 54 e 55, quelle della cultura. Mario Calabresi in un articolo dal titolo Paolo Pellegrin, un passo indietro di fronte al dolore ci riempie di orgoglio annunciando la vittoria da parte di Paolo Pellegrin del premio Eugene Smith, giustamente definito il premio più prestigioso per i fotoreporter. Indubbiamente Pellegrin ha dimostrato fin dagli esordi capacità decisamente al di fuori del comune, confermate da numerosi riconoscimenti internazionali e dall’ingresso in Magnum. In poche parole forse il talento più cristallino del fotogiornalismo italiano. Per questo fa piacere riprendere alcuni brani del coerente articolo di Calabrese. Presentando Pellegrin, l’attento collega afferma «Ad emergere in questa ricerca è un fotografo romano di 42 anni, Paolo Pellegrin, che esprime nei suoi reportage il senso di un rispetto forte per il soggetto, di un pudore che lo spinge, soprattutto di fronte al dolore, a fare un passo indietro, privilegiare il senso del dettaglio». Proseguendo, qualche paragrafo più in là, come segue: «In quell’indefinitezza, in quel approccio “sfocato” c’è anche un rispetto per le vittime: “Il pudore di fronte al dolore l’ho sempre avuto, sto un passo indietro, ma con gli anni e l’esposizione continua alla sofferenza questo processo si è accentuato: oggi sto due passi indietro e lo sguardo si fa più discreto”…». E ancora, dando di nuovo la parola a Pellegrin: «… “Con Scott Anderson del New York Times eravamo corsi sul luogo di un’esplosione: c’era un uomo in terra, si trascinava, era l’obiettivo del primo missile. Appena sono sceso dalla macchina ne è arrivato un secondo. L’esplosione mi ha fatto volare per alcuni metri. Mi sanguinava la testa. Siamo scappati in una stradina laterale. Poi, di colpo, mi sono messo a correre. Sono tornato indietro, ho fotografato quell'uomo. La seconda esplosione gli aveva staccato un braccio, ma respirava ancora. La strada era deserta, siamo rimasti noi due soli per una manciata di secondi. Poi sono corso via di nuovo. Mi sono chiesto spesso perché sono tornato lì. Probabilmente perché ero scappato e non lo accettavo e poi volevo capire, vedere, dare un senso a tutto quel rischio”…». Complimenti Paolo, davvero, da tutti noi!

n.176 - dicembre 2006

32 commenti:

:: haku :: ha detto...

un bel coraggio riprendere un articolo doppia pagina con questo piglio.
la domanda che mi verrebbe da fare è:
stare due passi più indietro per non sentire il rantolo della morte e permettersi di fotografare?
o essere così gelidi (per questo interiormente indietro di due passi) da sapersi avvicinare ad un uomo mutilato che respira ancora, per fotografarlo e scappare senza sentirsi abbrancare dal dolore e dalla compassione? credo si indovini la risposta... e non è una questione di discrezione... né tantomeno di rispetto o di pudore. qui non si discute del talento indiscutibile di Pellegrin... ma di quello che si può vedere e dunque trasmettere fotografando.
quello che addolora è associare (e suona quasi una beffa essendo il titolo di un premio...) due uomini e due visioni così distanti. Pellegrin e Smith. un insopportabile stridore.

Anonimo ha detto...

che uomo meraviglioso lui.
lo stimo uasi di più dell'ippopotamo della pubblicità dei pampers di una volta,
l'ippopotamo azzurro ricordi?

hem..forse no,
stimo di più l'ippopotamo.

Bruno ha detto...

Inizialmente avevo trovato delle analogie con alcune situazioni nelle quali anch'io come Pellegrin ho fatto due passi indietro per rispetto delle persone che fotografavo.
Ma che rispetto è ritornare per fotografare una persona, dopo essere scappato la prima volta per la comprensibile e legittima paura di perdere la vita?
Tornare, vedere un corpo straziato e morente, fotografarlo e scappare una seconda volta, lo trovo insopportabile se in quel ritorno l'unico intento è quello di portare a casa uno scatto.
Forse questo è il grande fotogiornalismo, quello da premio, quello che ti rende "famoso".
Io provo solo ad immaginare la disperazione assoluta di un uomo morente steso a terra che spero non abbia visto il volto di chi lo fotografava.

Ma forse in quella manciata di secondi in cui i due sono rimasti soli è accaduto anche dell'altro. Voglio pensarlo.

Anonimo ha detto...

"Rispetto" forse vuol dire testimonire con la foto la soffernza della vittima. La fine di una vita in modo tragico e doloroso che senza la sua testimonianza sarebbe rimasta sconosciuta. Poi ognuno ha diverse sensibilità rispetto alle immagini di una persona che muore e reagisce in modo diverso.
Il comportamento dei fotoreporter in guerra e tutti i dubbi morali dello "scattare/documentare" chi muore sono molto ben descritti nel libro "the bang bang club" che consiglio vivamente a tutti
http://www.amazon.com/Bang-Bang-Club-Snapshots-Hidden-War/dp/0465044131

:: haku :: ha detto...

Bruno... mi obblighi moralmente ad un profondo rispetto. trovo la tua ipotesi meravigliosa, toccante.
il tuo volerci credere di una purezza che vorrei aver conservato. la ammiro e in questo momento cerco di recuperarla.

mi piace che ci sia qui la segnalazione di un libro.

ma perché? mi chiedo, perché dovere usare parole che profumano di etica, quando si è intimamente feroce cacciatore?
la tua indole (e il tuo talento) è del cacciatore, forse del bracconiere... ti è permesso di rivestirne il ruolo (non tutti arrivano a vedere coincidere la propria indole con il poprio ruolo), ricevi un premio che ti riconosce che puoi esserlo senza dovertene giustificare.
perché rivestirti di falso oro?

la mia impressione è che questo sia stato il sasso d'inciampo per Pellegrin [lo... scandalo per Iovine]... e non solo in questa occasione.

tuttavia... amo pensare al pensiero di Bruno, perché mi fa bene.
e perché confido sia un modo per credere al potere "medicale" della fotografia per chi la fa.

Anonimo ha detto...

Mi spiace per Bruno e Haku ma non ci credo... Se fosse cambiato qualcosa in lui non l'avrebbe detto... Non si sbandiera una vera conversione perché è troppo intima e dolorosa soprattutto se un "cacciatore diventa preda delle emozioni"... Scusate ma non posso far tacere il cinismo e la rabbia che mi bollono dentro... Se poi vorrete tacciarmi di "buonismo" liberi di farlo ma ci sono luoghi, dentro e fuori di noi, dove non si deve entrare, neanche in punta di piedi, alle volte neanche se invitati... Non posso accettare uno scatto del genere e neanche un racconto del genere e un attaggiamento e, perdonatemi lo sfogo, credo che il desiderio di testimoniare non centri una fava... C'è solo la voglia di fare "lo scatto dell'anno" o forse della vita... quella degli altri...
:-|
BigG

Anonimo ha detto...

Vabbe' buttiamola sul cinico: che ci è andato a fare un fotografo in zona di guerra? A fare fotografie, di gente che muore (anche e non solo)e non a scappare sotto le bombe, sennò è meglio che la macchina la lasci a casa che così più leggero scappi meglio. Il punto è che se sei lì per scattare, scatti. Altrimenti sei lì per altro e fare foto è solo una scusa. Ma perchè, fotografare un funerale e "moralmente" diverso? Siete stati ad un funerale di un vs parente? Vi avrebbe fatto piacere essere fotografati? A me no.
Il problema è etico? Ossia il fotografo che vede qualcuno che sta morendo, e non è possibile fare nulla per lui, fa bene a fotografare? Ma se non lo fa che c...o ci è andato a fare lì? Ovvio che forse il buon P ha degli scrupoli, dei ricordi da cancellare (fotografa anche il cervello mica solo la nikon)che vengono sempre fuori.
Per finire la testimonianza ci entra per me e per tutti quelli che leggono la foto. Forse è involontaria, magari P ha scattato perchè è un bracconiere. Chissenefrega. La foto testimonia lo stesso.
Quando P dice che voleva dare un senso a tutto quel rischio forse voleva dire semplicemente che era lì per scattare e non per fuggire.

Ma voi che avreste fatto?

Anonimo ha detto...

Valter, mi permetto di darti del tu, forse in un recondito anfratto della mia coscienza riesco anche a essere d'accordo con la lucidità del tuo intervento ma il cuore mi porta altrove... Il concetto "già che ci vai fai le foto" potrebbe essere tranquillamente assoggettato alla propria coscienza così come l'urgenza di testimoniare (che ribadisco non riesco a trovare in P, soprattutto se si tratta di una testimonianza solidale) potrebbe scegliere altre vie, diverse da quelle che passano dal sensazionalismo... ripeto, mi sembra tanto uno scatto fatto con il premio in testa invece che con il cuore in mano...
BigG

Anonimo ha detto...

Mah, dai tempi del miliziano di Capa, reale o comparsa che fosse, la crudezza delle immagini di reportage ha subito un'escalation in negativo, secondo me, al pari del degrado morale di una societa' decadente perche'solo tecnologica. se c'e' piu' sangue, piu' piace la foto. l'ho sempre sostenuto. si confonde ormai documentazione con reportage. E' colpa dei fotoreporter o delle giurie che assegnano i premi, chissa'. ma se il criterio delle giurie e' orientato in un certo senso, allora bisogna fotografare in linea.
come quando vai a farti leggere il portfolio, se sai che c'e' un fotografo di moda puoi star certo che neanche considerera' le tue foto di sport, se e' un fotografo di nudo odiera' i tuoi paesaggi ecc.
io vedo un pericolo nella diffusione delle immagini di guerra : le vedete in questo periodo le immagini ripetute continuamente degli scontri fuori dello stadio di Catania, ultimo fiore all'occhiello della democristiana Trinacria? servono di contorno al messaggio parlato, come immagini ormai di repertorio, ma ogni sera ascoltando i vari tg noto che mi sto assuefacendo a quello scempio visivo, gli spezzoni di video in continua successione, sfocate e con colori innaturali, stanno diventando un film astratto, o forse futurista, le persone perdono i contorni umani per diventare forme del kaos, esteticamente amorfe, neutre, prive di connotazione umana. e' questo il rischio, credo dell'abuso delle immagini.
io so solo che nel posticino dove lavoro avrei potuto faredecine e decine di reportage, sullla sofferenza, la malattia, l'anonimato degli ospedali, sull'abbandono, sulla decomposizione fisica e morale degli anziani , sulla incongruita' delle strutture sanitarie, avendo a disposizione tutto il tempo possibile per pose rubate, pose lunghe, a luce ambiente, artificiale, in lightpainting ecc. a colori in bn, in polaroid manipolate, in digitale e via. anno dopo anno fotografando le stesse cose, corpi, membra, occhi, ferite, mani morte o morenti, anno dopo anno con sensibilita' e curiosita' diverse, ma-
non mi ha mai sfiorato o solleticato l'idea di fotografare chi soffre, di materializzare in immagine bidimensionale la puzza del dolore, della malattia, che invece mi porto a casa assieme a qualche chilata di germi ogni giorno. ma non perche' sono buono e bello e bravo, ma perche' se sei dentro una realta' e devi fare un lavoro, sporco ma necessario, non pensi materialmente ad altro. ecco, ci ragiono da un po' di tempoa questa parte, forse e' questo il punto, che ne pensate : se a fotografare la guerra fosse un soldato, e non un fotoreporter, dite che ci riuscirebbe, e se si', quanto sarebbero diverse le sue foto da quelle di unocentopellegrin?
forse, ripeto ancora, meglio limitarsi a fotografare campi di girasoli e tramonti colorati e poppe al vento sulla spiaggia

sandroiovine ha detto...

Ieri sono stati proclamati i vincitori del World Press Photo 2007.
Nell'ambito dei commenti a questo articolo del blog vorrei segnalare il Primo premio per la categoria General News singles.
Difficile non constatare qualche... coincidenza...
Quanto all'interpretazione dell'immagine, alla coscienza e formazione personale di ognuno esprimere una valutazione.

:: haku :: ha detto...

... «La seconda esplosione gli aveva staccato un braccio, ...»
...
scusate la disgustosa battuta: ma colleziona braccia mutilate? a me pare un braccio mutilato quello per terra...
speriamo almeno che il braccio vivente, teso enfaticamente a creare una doppia diagonale per lo spettatore, non sia di Scott Anderson... non oso pensare ad un'altra possibilità più agghiacciante.

aggravante: non so se sia una mia distorta impressione, ma mi pare non avere nulla di naturale questo scatto, dunque nemmeno la sensazione della scena colto al volo... cosa resta?
certo non una testimonianza, qui la testimonianza (semmai fosse stata cercata) mi pare scavalcata dalla sospetta costruzione della foto. due braccia vive a racchiudere il morto in un corridoio che sbatte l'occhio contro la panchina.
una chicca: la linea tra le due mani vive (che poi è una sola essendo una delle due l'ombra... tanto per sottolineare la costruzione dello scatto) "tirata" dal braccio staccato...

tt ha detto...

mi pare che vi sia una pervadenza dilagante della pornografia, che poco ha a che fare con la testimonianza e con la verità, malgrado vi sia la tendenza a confonderle in nome di un'etica troppo strumentale per non ritenerla personalmente molto discutibile.

Anonimo ha detto...

Uno dei primi libri fotografici-censurato perchè non politicamente corretto- di guerra che la storia ricordi è stato realizzato durante la prima guerra mondiale,in Austria.
Perdonatemi,non ne ricordo il titolo:sono certo che molti di voi abbiano avuto occasione di vederlo.
E' un lavoro di catalogazione:oggetto di tale
catalogazione è l'orrore,nelle sue varie forme.
Pagina dopo pagina corpi mutilati,volti sfigurati,profili agghiaccianti,orbite vuote che guardano in macchina.
Quegli uomini sapevano di essere fotografati.
Le fotografie sono, tecnicamente,delle fotografie efficaci:per esserlo, per trasmettere con forza il messaggio-la guerra è orrore,dramma,morte,sangue e merda-dovevano rispondere,allora come oggi,a determinati criteri.
Di forma,di contenuto, e paradossalmente di estetica.Il linguaggio fotografico.
Io non credo di avere delle verità in tasca, non penso di essere un mostro di insensibilità e nemmeno un uomo particolarmente freddo,o padrone delle proprie emozioni.
Ho, d'altra parte, una certa famigliarità con la morte,quella violenta,quella di corpi bruciati,straziati,smembrati.
So che in certe occasioni non lavoro io,lavora una specie di super io molto più elementare,ed efficace in rapporto all'obiettivo che devo raggiungere.
Pellegrin è un fotografo.
Fa fotografie di guerra.
La guerra è braccia staccate, occhi allucinati rantoli e terrore.
E' anche un fotografo eccezionale:immagino che la sua padronanza del linguaggio fotografico gli consenta di scattare all'istante fotografie che molti di noi impiegherebbero una buona mezz'ora ad immaginare e realizzare.
Per abitudine,quasi inconsapevolmente:sono sicuro che dopo 10000000 di scatti le cose vengano un pò da sè,o sbaglio....
La mia opinione?Pellegrin fa il suo mestiere, e per quanto mi riguarda è un mestiere egregio.
Racconta la guerra come penso sia giusto raccontarla:per quello che è.
Lo fa utilizzando uno strumento, quello fotografico,in modo magistrale.
In merito all'episodio scandaloso,penso che abbia agito di impulso:spiegare perchè l'ha fatto è assurdo tanto quanto aspettarsi delle spegazioni.
Quanto al sentirsi abbrancare dal dolore e dalla compassione bè....
Non compatibile con il mestiere di fotoreporter di guerra, di oncologo,di infermiere, di pompiere etc.
Credo che il pudore dovrebbe riguardare più le tette che la guerra:per quanto riguarda le prime, un pò di curiosità non farebbe male.Per quanto riguarda la seconda,direi che è meglio sapere che diventare carne da cannone non conviene.
Per ragioni estetiche.

:: haku :: ha detto...

ciao Ugo,
forse non ho saputo spiegarmi e me ne dispiace,
credo come te che Pellegrin ormai le foto possa farle da cieco... senza quasi bisogno di vedere intendo, ma percependo, immagino. e questo per talento e per esperienza, come tu dici.
ma una soglia sottile qui mi pare infranta oltreché sorpassata.
non vorrei questionare sulla forma della foto premiata come esplicitarsi della capacità di cogliere e ricostruire fulmineamente una scena [purtroppo però questa foto a me non dà per nulla l'impressione di essere fatta in velocità... mi sembra bensì che simuli questa situazione, ma non posso sapere come sia andata e ammetto potrebbe esser l'abilità di Pellegrin ad illudermi del contrario della realtà, paradossalmente].
vorrei considerare invece insieme l'uso della forma qui spietato, e a parer mio profondamente offensivo, proprio perché distrae dalla realtà anziché rivelarla come farebbe una testimonianza.
a me pare che qui la forma porti via l'attenzione dall'esito dell'azione violenta, in questo caso dallo smembramento, riducendolo quasi ad elemento grafico.
e, premesso che un'eccellente forma credo non sia un passepartout, e che sia fondamentale saper adeguare la forma al contenuto ed al messaggio che si vuole portare, trovo esteticamente "brutto" (dia-bolico forse?) vedere (ma ripeto, può essere una mia distorsione) come la forma qui porti via l'attenzione dalla realtà sovrapponendosi ad essa con altrettanta violenza, una violenza che sta dentro la struttura della fotografia. dentro ai suoi punti di attenzione e alle sue vie di fuga per l'occhio. dentro/dietro l'occhio di chi l'ha fatta.

:: haku :: ha detto...

... più esplicitamente...
forse si può dire che non esiste una forma eccellente in sé quando si voglia trasmettere un contenuto.
ma che l'aspetto formale raggiunga l'eccellenza quando sia mezzo esatto per la trasmissione di quel contenuto.
... si può dire?

Anonimo ha detto...

foto pornografiche e foto di guerra, le seconde quando sono foto di morti e di sangue, sono la stessa cosa, mi spiego : sono l'essenza muta della fotografia, non parlano, non trasmettono, non comunicano, non spiegano, bensi' sono un simulacro neutro di realta' che trovera' fruitori che non vogliono messaggi ma solo guardare certe cose. Non hanno bisogno di interpretazioni, di commenti, ritraggono cose persone gesti e situazioni che devono solo farsi vedere.Come le foto della scientifica checrudemente ritraggono i corpi delle vittime o i loro contorni di
gesso.
cosi' la penso io.
L'estetica poi e' un'altra cosa, diciamo che il premio fotogiornalistico va a chi sa comporre meglio gli elementi in gioco.
Non so che tipo di messaggio o di informazione possa contribuire ormai a dare il fotogiornalismo cosi' inteso. lo sappiamo ormai che la guerra causa morti stragi dolore , in quanto esseri razionali basterebbe questo per condannare la guerra tucur.
pensiamo ad una cosa : almeno ai miei tempi, da bambini tutti giocavamo sempre e soltanto con le armi giocattolo, impazzivamo per i film di indiani e caubois, dove i primi erano ovviamente i cattivi, e improvvisavamo giochi di guerra di duelli di sparatorie. Certo non siamo diventati killer solo per questo, anzi crescendo e studiando e ragionando poi sono venute le rivelazioni, c'e' stato soldato blu', abbiamo approfondito, ci siamo documentati, e abbiamo capito che la guerra vera non e' gioco, ma una cosa terribile.
Non abbiamo bisogno di foto di morti ammmazzati in pozze di sangue per condannare la guerra, questo vorrei dire.
Ma forse il rimedio e' questo, non considerare mai piu' questo tipo di fotografia Fotografia, e lasciare i collezionisti di braccia mozzate alle loro collezioni private.
Vi voglio dire una cosa, anni fa lo stesso tipo di foto le venivano a fare qui in Sicilia, come avvoltoi, quando c'era una strage di mafia, e riprendevano le donne di paese avvolte negli scialli neri che si accalcavano attorno alle pozze di sangue. poi facevano il reportage sociale nei vicoli regalando pistole giocattolo ai bambini mezzi nudi sporchi e morti di fame e li fotografavano per indicare che l'infanzia cresce in Sicilia con il culto delle armi e della violenza.
Oggi non e' diverso, i compari di Santoro Michele vengono a Palermo, scelgono il vicolo piu' diseredato e malfamato e chiedono alla prima faccia da canaglia che incontrano: lei e' contento che abbiano finalmente arrestato Taldeitalinotomafiosiassassino?
e fanno fotogiornaismo coraggioso.
La realta', se si puo', deve essere guardata in faccia, anche la morte se capita, per capire.
la fotografia a questo scopo non basta, la fotografia e' e sara' sempre maledettemente ambigua, come constatiamo con queste nostre elucubrazioni, quindi succube di deformazioni concettuali o manipolazioni.
Certo che tante volte sentire l'impulso di vedere gli effetti di una azione violenta e' a noi connaturato, ma la distanza dalla morbosita' e' notevole.
Quando cadde l'aereo a Punta Raisi aeroporto di Palermo, con + di cento vittime , negli anni 70, io andai a Medicina Legale piena di pezzi di carne bruciacchiata, per riconoscere il cadavere di un amico, perche' i genitori non ne avevano il coraggio, e constatai gli effetti di un incidente simile, inalando l'odore di bruciato, senza morbosa curiosita' che' ne avrei ftto volentieri a meno, piu' di quanto avrebbero potuto fare mille foto artistiche, mentre tutto attorno all'istituto la folla si' morbosa si accalcava per rubare qualche sguardo dei corpi mutilati.
Quando salto' i aria Borsellino, dopo precedenti stragi, io con moglie e figlioletto sentii l'impulso di andare in via D'amelio per constatare gli effetti della crudelta' di quei cornuti responsabili della strage, per essere presente, per testimoniare una partecipazione emotiva a noi stessi, e c'erano tanti palermitani sani senza morbosita'. Non potei vedere niente, i cordoni di polizia, ma chi vide mi racconto', e il racconto nelle parole e nelle espressioni era piu' di mille foto, il racconto del corpo della poliziotta diviso in due, meta' in strada e meta' sul balcone del 2° piano era piu' efficace di una eventuale fotografia che avrebbe saputo scattare pellegrin dei miei cabbasisi.
d'altro canto, ognuno fotografi quel che vuole, ma non si imponga come esempio, c'e' chi continua ad andare a venezia e fotografare i musi delle gondole, chi glielo impedisce, ma non le spacci per Fotografia, e' come farmi pipi' sul tappeto

Anonimo ha detto...

Scusate, mi intrometto a questa tarda ora per una sola analisi: vogliamo davvero parlare di questo scatto come forma di TESTIMONIANZA??? Le foto di Mejeroviz (spero si scriva così) di Ground Zero sono testimonianza... ma non ho visto un goccio di sangue in Aftermath, ne un brandello di pelle ma compassione, voglia vera di testimoniare quanto stava accadendo da parte di una persona chiamata in causa che guarda caso è anche un fotografo... Il Sig. P. (fresco di premio e scusate se mi sento "orgoglione" delle mie capacità divinatorie) cosa testimonia... testimonia forse la macchina degli autovelox le stragi del sabato sera, il dolore delle famiglie??? Allora non vorrei cadere nel patetico o essere tacciato di moralismo ma credo che la differenza sia tutta nella compassione. Sentimento che un fotografo può permettersi di esercitare quanto meno decidendo di non mostrare certe foto che ha scattato, sentimento che, rispondendo ad ugo, un infermieri un oncologo o un pompiere non possono permettersi di esercitare perché dalla loro freddezza, dal loro super io dipende la vita di qualcuno, la compassione credo venga poi fuori appena smessa la divisa... Allora, vorrei dire al premiatissimo P., che di sucuro ha un Io super, se l'aver fatto 10000000000 di queste foto ti permette la pulizia formale, la capacità di cogliere l'attimo, la freddezza di fermarti a coglierlo possibile che le stesse foto guardate a casa non ti abbiano insegnato ad aver più rispetto????
Scusate lo sfogo e buona notte a Tutti

Anonimo ha detto...

E' una linea sottile, quella che divide lo splatter da certe fotografie di guerra.
Ciò che cogliamo in un'immagine è poi molto personale.
Però mi chiedo,vi chiedo una cosa:cosa vi fa pensare che nella sofferenza, nel sangue, nel dolore non vi sia dignità umana?
Io non credo che un'esplosione,un cancro,un incidente possano privare un uomo della sua dignità.
Penso che possano privarlo di un braccio,di una mandibola.
Deformargli il volto.
Penso che possano privarlo della libertà.
Ma non della dignità.
Siamo noi ad attribuire alle vittime l'assenza di dignità,e siamo noi a confondere il pudore con la ferma volontà di non vedere,non sapere.
Pornografici sono i film di propaganda,la retorica pacifista quanto quella militarista,sono i film di guerra in cui i cattivi muiono all'istante e senza dolore, senza sangue,con tutte le loro cosine a posto.
Gli altri, quelli buoni, corrono più veloci delle esplosioni,e rimangono pettinati.
Se muoiono,non ci mostrano le budella,in sintonia con la nostra visione kitsch della vita e dell'uomo.
E' troppo intima la morte?
Troppo personale la sofferenza?
Tanto da desiderare che nessuno, più,ce le sbatta in faccia?
La morte,la malattia,il dolore,il sangue ci rendono meno grandi,umani,meritevoli?
Ci rendono colpevoli?
Sono fatti umani.
Vogliamo censurare i fotoreporter di guerra?
Sono sicuro che in molti accoglierebbere l'istanza.
Oppure vogliamo invitarli a fare le stesse foto,ma brutte,sbagliate,in modo che l'"estetica" dello scatto non ci distolga dal suo contenuto?
Confrontarsi con il dolore fa paura.
Non lo vogliamo vedere.
Lo giudichiamo sporco, e perverso è chi ce lo mostra tale e quale.
Insensibile.
Crudele.
Forse più di quelli che quel dolore l'hanno provocato.
Perchè loro, di certo,eviteranno di mostrarcelo.

Anonimo ha detto...

Caro Ugo, mi sento in obbligo di chiarire una cosa rispetto al tuo post che trovo molto coraggioso e che condivido in molti punti... so che già questo potrebbe stupirti... Lungi da me l'idea di censurare un fotogiornalista, vorrei si censurasse da solo e non per salvaguardare le mie chiappe al caldo della copertina del nord del mondo, la mia macchina e la mia possibilità di andare a comprare l'acqua senza rischiare di essere steso da un cecchino o da un uomo bomba sul'autobus. Forse vorrei che lo facesse perché non so, se io fossi con un braccio staccato da un missile, se vorrei essere fotografato, si dice che si muore da soli e, onestamente vorrei che fosse così... Per quanto riguarda il tuo discorso sulla "censura estetica" ti esprimo il mio modestissimo, non è retorica, parere: nel momento stesso in cui l'estetica di una foto ci rende guardabile e apprezzbile una cosa che dovrebbe ripugnarci in quanto persone nrmali e non dotate di quel super io di cui si parlava ieri, nel momento in cui voglio rendere attraente, attraverso trucchi e stilemi, una cosa che dovrei invece condannare con tutto me stesso proprio perché ci sono in mezzo... allora, proprio in quel momento mi sono venduto l'anima all'estetica e quella foto diventerà per me ciò il rtratto era per Dorian Gray...
Grazie comunque delle ottime riflessioni che mi hai fatto fare Ugo.
BigG

Anonimo ha detto...

«Agisci in modo tale da trattare sempre l'umanità, in te e negli altri, come fine e mai come mezzo».
I. Kant.
E' difficile inserirsi in questo scambio, i contributi offerti mi hanno tenuta inchiodata alla questione per due giorni, ho concluso che non riesco a farmi una ragione, non tanto del perchè questa foto sia stata scattata, ma del perchè sia stata pubblicata, anzi un motivo mi sovviene ed è raggelante. Una volta mi è stato detto che un fotografo in certe situazioni scatta, deve scattare come guidato da un istinto primordiale, come una difesa suprema dal male, come un'esigenza sopra volontà e razionalità. Il momento della riflessione verrà dopo, in camera oscura, oggi probabilmente di fronte ad un più "asettico" computer, quello sarà il momento in cui veramente il fotografo si troverà "davanti al dolore degli altri" senza filtri e obiettivi, solo e nudo e lì dovrà decidere che tipo di uomo vuole essere, che storia raccontare e per chi la vuole raccontare. Ugo sono con te quando dici che la sofferenza non intacca la dignità dell'uomo, talvolta anzi ne rivela la profonda essenza e la dimensione, ma chi si serve di quella sofferenza per raggiungere un obiettivo altro ha perso se stesso e non sta calpestando soltanto la dignità dell'uomo che ha di fronte, ma anche la sua. Io, con te, Ugo penso che la guerra e anche la morte crudele vada ancora testimoniata, raccontata, urlata se vogliamo, senza smettere fino a quando anche un solo uomo morirà ingiustamente. Ma questo senza dimenticare che il fine deve essere appunto l'altro e guarda io mi rifiuto in questa circostanza di accettare che sia giustificato come scopo un qualche Bene Supremo, il fine deve essere l'essere umano in sè e per sè, il singolo. Quando invece il fine della "testimonianza" smette di essere l'uomo, per diventare un premio, la fama, il potere mediatico, il riconoscimento pubblico, e se raccontando al mondo quella morte la si mette in scena con la stessa cura con cui viene rappresentata una natura morta in un lavoro di Still Life commissionato, allora si rischia di non vedere più l'uomo e l'effetto della guerra, ma solo un potente senso scenico, uno straordinario uso della luce, insomma di leggere solo il nome dell'"artista", l'unico ad uscirne vincitore di qualcosa... forse.

Anonimo ha detto...

penso che cosi' abbiamo gia' detto tutto, non c'e' altro da aggiungere, la sentenza e' definitiva, vedo con piacere che ho avuto la fortuna di entrare in un blog dove finora postano commenti pertinenti persone di cui ammiro la personalita'e la chiarezza.
vorrei conoscere, appena avra' il tempo di metabolizzare meglio la situazione, l'opinione del Direttore su questi commenti.

Anonimo ha detto...

Scusate se insisto,ma la tentazione è troppa,la conversazione decisamente interessante,e se anche propongo con forza le mie opinioni,non sono certo privo di dubbi.
Quella che ho in mente è un'immagine di Salgado.
L'autore,tra gli altri,di un libro che è sofferenza pura,dal titolo "Avec une certaine grace".
La dignità dell'uomo nella sua sofferenza,nelle sue pene.
Di certo lo conoscete:un magistrale,epico,meritato cazzotto nello stomaco.
Lo stesso autore,in un altro libro dal titolo "In cammino",pubblica una foto sul dramma dei profughi hutu in Ruanda.
Nel quarto di destra,primo piano,c'è il corpo di un ragazzo.
Il corpo scheletrico,non è morto in fretta:ha gli occhi aperti.
Le gambe ed un braccio penzolano dalla benna di una pala meccanica che lo sta trasportando verso il quarto di sinistra,secondo piano:immondizia,carogne di animali,rifiuti,putrefazione,qualche cane a caccia di bocconi.
Sullo sfondo, se non ricordo male,una lunga fila di profughi in marcia.
Nessuno di loro,comprensibilmente, volge lo sguardo alla scena.
Che significa?
Io credo-ma è una lettura personale- che significhi che quell'uomo viene trattato come spazzatura.
Che è morto lentamente,e solo:nessuno si è preso la briga di chiudergli gli occhi.
Che la sua gente non solo non si indigna per come le sue spoglie vengono trattate,umiliate,disumanizzate,ma che addirittura si rifiuta di vedere.
La sorte di quel corpo è la loro sorte.
Ora:io non credo che quella foto privi di dignità quel corpo, quell'uomo.
E' una vittima.
E non credo che condanni la lunga fila di profughi che passa lì vicino senza vedere.
Rifiutandosi di guardare.
Sono vittime.
Io credo che condanni noi:perchè non non condividiamo nulla con quel corpo.
Il nostro rifiuto di guardare,di vedere,non ha giustificazioni.
Non so se Salgado abbia vinto un premio con quella foto,o se abbia scattato pensando al World Press.
Ma sono contento che l'abbia fatta.

Anonimo ha detto...

Ecco, ugoBorga, l'hai detto: aspettavo che qualcuno lo dicesse. Questa e' la differenza tra una fotografia diguerra qualsiasi e una fotografia che fa capire che cosa sia la guerra. C'e' modo e modo di fotografare per testimoniare, documentare, esprimere il proprio orrore visto che si fa il lavoro di reporter di guerra. scegliere prima durante e dopo gli scatti che cosa si vuole dire e far capire, trasmettere,m uovere dentro agli altri. Il pugno nello stomaco e' la contrapposizione delle situazioni ( il cadavere a occhi aperti e l'indifferenza sullo sfondo) che materializza una sintesi e la trasmette.
cio' puo' fare di una foto di guerra una Foto.

IL SENZANOME ha detto...

... lascio i discorsi morali, etici eccecc ad altri .. io non ne ho la capacità intellettuale per affrontarli.
quello che invece vorrei sottolineare sono alcune parole, a cui io do personalmente una importanza corposa nel voler esercitare il linguaggio fotografico, PERCHE' anticamera del volere CAPIRE.


"Mi sono CHIESTO spesso PERCHE' sono tornato lì. Probabilmente PERCHE' ero scappato e non lo accettavo e poi volevo CAPIRE, vedere, dare un senso a tutto quel rischio"

:: haku :: ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
:: haku :: ha detto...

«Wim Wenders diceva che la fotografia è come "un ultimo sguardo sul mondo"».
Luigi Ghirri, da Niente di antico sotto il sole, in Gran Bazaar, n. 62, 1998.

... personalmente non vorrei fosse questo l'ultimo sguardo sul mondo: un sguardo che vuole trovare senso al proprio rischio con un trofeo.

Anonimo ha detto...

Cercavo in questi giorni un numero passato de Ilfotografo, poi l'ho trovato in casa. Ricordavo un bel servizio su Zizola, dicembre 2005, ed e' stato un piacere rileggere l'intervista e rileggere le foto alla luce delle considerazioni vostre di cui mi sono arricchito. Certo c'e' un altro stile , Zizola usa strumenti del linguaggio fotografico che dimostrano la sua partecipazione alle scene ritratte, rinunziando al sangue, ai morti, ma privilegiando l'umanita' viva dei vivi sofferenti .
Non ricordavo invece che sullo stesso numero e' presente un servizio su M. Kenna, non reportagista di guerra ma reportagista di stati d'animo mediati dalla realta' circostante, fotografo che usa altri strumenti del linguaggio fotografico per esprimersi.
In entrambi i casi, begli esempi di fotografia come espressione e comunicazione.

dany ha detto...

Sono d'accordo con bruno!
Poi..in queste circostanze non credo si possa parlare di rispetto ..

Anonimo ha detto...

ma che vi siete ammosciati
sara' la nebbia che respirate, lo smog o la polenta che vi appesantisce .
qui le salsicce e la pastasciutta ci tengono allegrotti.
e allora scrivete, sacripante, ditemi che ne pensate della fotografia istantanea, delle polaroid, se ne avete mai fatto, se conoscete Maurizione Galimberti ecc.
scusate, e mi scusi il Direttore Iovine, ma mi ero abituato a leggere sempre nuovi commenti e contributi che ho trovato molto stimolanti.
ciao

:: haku :: ha detto...

Essendo cocciuta e impenitente, e avendo ritrovato con colpevole ritardo un articolo uscito su Repubblica a febbraio per il WPP... nonostante il tempo trascorso, mi piace citare proprio qui il titolo dell'articolo, anzi una sua parte: Così si fabbrica una foto-icona [...] e una frase, una citazione a sua volta, che mi pare particolarmente calzante essendo proprio riferita alla difficoltà etica del lavoro di chi faccia reportage:
«È un delicato equilibrio: entrare nel dolore senza offenderne la sacralità.» Christian Caujolle, direttore dell’agenzia francese Vu.

Il pezzo apparso su La Domenica di Repubblica il 12 febbraio, è online scaricabile come pdf, pag. 30 dell'inserto.

rawnef ha detto...

Ma davvero il settore della fotografia è tutto orientato al
marketing e ai termini da master da Università Bocconi? Leggendo le
pagine di una nota rivista sembrerebbe di si. I consigli su come
rivitalizzare il business con termini anglosassoni si sprecano. Un
esperto del settore consiglia di ristrutturare i negozi secondo la
moda hi-tech, ma se ci si rivolge ad un pubblico femminile anche
colori pastello possono andare bene. Straordinario! Un'intero
universo sta vivendo sconvolgimenti epocali e gli esperti pensano di
metterci una toppa con colori pastello o moda hi-tech. Fare
investimenti rilevanti in periodo di nuovi canali distributivi e
soprattutto di internet rischia solo di fare fare affari a
produttori di arredamento negozi, e di tante inutili diavolerie
presentate come affari sicuri. E' inutile dannarsi l'anima. La
storia insegna che nelle fasi di cambiamento alcuni soccombono e
altri riescono a superare la crisi. Più che alle interessate
indicazioni degli esperti di marketing io guarderei con interesse
alla ricomparsa nel settore reflex di marchi storici dopo un periodo
di impasse. Questo fa ben sperare in una ripresa del settore che non
deve essere solo ripresa dei consumi. E' questo che conta e non
certamente le analisi "sicure" degli esperti di marketing.
Polavision, Photodisk, Aps, Photocd:sono solo alcuni dei nome di
prodotti che promossi a pieni voti dai guru del marketing si sono
rivelati degli autentici fiaschi.

Giovanni B. ha detto...

L'attenzione per il dettaglio mi ha ricrodato il bell'articolo (a mio parere) di Francesca Micheletti "La scala Richter e la legge di McLurg", che vi consiglio di andare a leggere.
Saluti
Giovanni B.