Prima di leggere queste poche righe vi prego di dedicare 22 secondi della vostra esistenza alla visione e all'ascolto (consiglio di utilizzare un volume abbastanza elevato) di questo brevissimo video.
Bene, adesso che lo avete visto e ascoltato vi dò qualche dato in più. Il video è stato realizzato il 14 dicembre 2010 a Roma nei pressi del Senato, durante gli scontri con le forze dell'ordine.
Tra il frastuono di elicotteri e lo stridore delle sirene, che rimanda chi ha vissuto a Roma nella seconda metà degli anni Settanta direttamente a quei cinquantacinque giorni del 1978 durante i quali fu sequestrato l'onorevole Aldo Moro, si può distinguere quanto segue «Carabinieri. Non fotografi! ... Non deve fotografare, perché se la vedono che fotografa, poi sono cazzi suoi. Per la sua incolumità, glielo dico per la sua incolumità, per cortesia, non fotografi».
A questo punto do per scontato che si siano create almeno due fazioni divise dall'analisi e dalla valutazione dell'episodio.
Da una parte ci sarà senza dubbio chi legge le frasi del rappresentante delle Forze dell'Ordine, come l'esternazione di una volontà di protezione, frutto dell'esperienza di paizza, nei confronti del cittadino un po' incosciente che stava effettuando riprese in una situazione potenzialmente pericolosa per la sua incolumità.
Dall'altra parte, altrettanto certamente, ci sarà chi interpreterà le parole del Carabiniere come espressione della volontà di esercitare una coercitiva censura nei confronti della libertà di opinione e informazione, in cui l'incolumità dell'operatore è solo una scusa per impedire che vengano realizzate testimonianze sull'operato delle Forze dell'Ordine.
Chi ha avuto la fortuna (o la sfortuna dipende dai punti di vista) di frequentare il liceo o l'università negli anni Settanta, di episodi del genere potrebbe raccontarne a bizzeffe. E non ci sarebbe davvero da stupirsi a scoprire che le chiavi di interptazione sostanzialmente sono immutate. Ma non è dar ragione o dar contro al Carabiniere che mi interessa. Quello che mi preme sottolineare è come, indipendentemente dalla cromia dell'approccio ideologico all'analisi del video, ci sia comunque una costante implicita: la pericolosità dell'immagine.
Che l'immagine sia pericolosa perché svela i misfatti dei manifestanti o quelli delle Forze dell'Ordine (la generealizzazione è voluta per semplificare l'esposizione) poco importa. Il problema è l'immagine. Che poi sia una fotografia o un video, cambia poco.
In ogni caso da evitare è la produzione perché a far paura è sempre l'immagine.
E non trovate che sia singolare? Sì, perché un'immagine di per sè non è ne buona ne cattiva, come non sono ne buoni ne cattivi i picconi o le pale portate da qualche povero di spirito in manifestazione. Pale e picconi si possono usare per dissodare e coltivare un terreno e allora sono strumenti buoni. Ma se si usano per sfondare o provare a sfondare il cranio di qualcuno non lo sono più strumenti buoni, ma diventano armi pericolose e cattive.
Inoltre come veniva fatto notare in un recente commento (vedi l'intervento di Marco Ambrosi) la fotografia ha perso la sua aura. Ma se il concetto (a mio avviso condivisibile anche se forse non in toto) è vero, perché allora si continua ad avere paura delle immagini, o ,come sarebbe più proprio, del loro presunto valore probatorio?
O ancora perché si utilizzano immagini come questa qui sopra per dimostrare, attraverso la comparazione del logo sulla suola delle scarpe, la presenza tra i dimostranti di agenti provocatori presumibilmente appartenenti alle Forze dell'Ordine? Salvo poi dover riconoscere che l'immagine era stata ripresa in tutt'altra situazione e luogo.
Al di là della buona o cattiva fede nell'utilizzo delle immagini fotografiche, il nodo della questione, figlia illeggittima dell'elucubrazione di Barthes, rimane nella tendenza tragicamente immortale a riconscere nell'analogon qualcosa che ci prendiamo l'arbitrio di considerare vero, essendosi necessariamente trovato davanti all'obiettivo perché potesse sussistere l'immagine fotografica.
Forse è qui il nodo insoluto, quello in base al quale nonostante l'arbitrarietà dell'assunto si continua ad attribuire un valore probatorio (anche sul piano legale e investigativo) all'immagine. Forse per questo si continua, in determinate situazioni, ad averne paura. Cosa quest'ultima che in realtà mi pare abbastanza abbastanza saggia, ma non perché l'immagine, fotografia o video che sia, possa realmente essere latrice in quanto tale di quakche pericolo. Quanto piuttosto perché sono ancora troppo pochi quelli che hanno coscienza dello strumento e delle sue strutture e conseguentemente enorme è il margine operativo di chi le immagini le usa per ottenere finalità di cui, purtroppo, solo un'esigua minoranza ha percezione.
Tra il frastuono di elicotteri e lo stridore delle sirene, che rimanda chi ha vissuto a Roma nella seconda metà degli anni Settanta direttamente a quei cinquantacinque giorni del 1978 durante i quali fu sequestrato l'onorevole Aldo Moro, si può distinguere quanto segue «Carabinieri. Non fotografi! ... Non deve fotografare, perché se la vedono che fotografa, poi sono cazzi suoi. Per la sua incolumità, glielo dico per la sua incolumità, per cortesia, non fotografi».
A questo punto do per scontato che si siano create almeno due fazioni divise dall'analisi e dalla valutazione dell'episodio.
Da una parte ci sarà senza dubbio chi legge le frasi del rappresentante delle Forze dell'Ordine, come l'esternazione di una volontà di protezione, frutto dell'esperienza di paizza, nei confronti del cittadino un po' incosciente che stava effettuando riprese in una situazione potenzialmente pericolosa per la sua incolumità.
Dall'altra parte, altrettanto certamente, ci sarà chi interpreterà le parole del Carabiniere come espressione della volontà di esercitare una coercitiva censura nei confronti della libertà di opinione e informazione, in cui l'incolumità dell'operatore è solo una scusa per impedire che vengano realizzate testimonianze sull'operato delle Forze dell'Ordine.
Chi ha avuto la fortuna (o la sfortuna dipende dai punti di vista) di frequentare il liceo o l'università negli anni Settanta, di episodi del genere potrebbe raccontarne a bizzeffe. E non ci sarebbe davvero da stupirsi a scoprire che le chiavi di interptazione sostanzialmente sono immutate. Ma non è dar ragione o dar contro al Carabiniere che mi interessa. Quello che mi preme sottolineare è come, indipendentemente dalla cromia dell'approccio ideologico all'analisi del video, ci sia comunque una costante implicita: la pericolosità dell'immagine.
Che l'immagine sia pericolosa perché svela i misfatti dei manifestanti o quelli delle Forze dell'Ordine (la generealizzazione è voluta per semplificare l'esposizione) poco importa. Il problema è l'immagine. Che poi sia una fotografia o un video, cambia poco.
In ogni caso da evitare è la produzione perché a far paura è sempre l'immagine.
E non trovate che sia singolare? Sì, perché un'immagine di per sè non è ne buona ne cattiva, come non sono ne buoni ne cattivi i picconi o le pale portate da qualche povero di spirito in manifestazione. Pale e picconi si possono usare per dissodare e coltivare un terreno e allora sono strumenti buoni. Ma se si usano per sfondare o provare a sfondare il cranio di qualcuno non lo sono più strumenti buoni, ma diventano armi pericolose e cattive.
Inoltre come veniva fatto notare in un recente commento (vedi l'intervento di Marco Ambrosi) la fotografia ha perso la sua aura. Ma se il concetto (a mio avviso condivisibile anche se forse non in toto) è vero, perché allora si continua ad avere paura delle immagini, o ,come sarebbe più proprio, del loro presunto valore probatorio?
L'immagine circolata sulla rete che avrebbe dovuto dimostrare la presenza di provocatori appartenenti alle Forze dell'Ordine tra i dimostranti di Roma. (clicca per ingrandire) |
Al di là della buona o cattiva fede nell'utilizzo delle immagini fotografiche, il nodo della questione, figlia illeggittima dell'elucubrazione di Barthes, rimane nella tendenza tragicamente immortale a riconscere nell'analogon qualcosa che ci prendiamo l'arbitrio di considerare vero, essendosi necessariamente trovato davanti all'obiettivo perché potesse sussistere l'immagine fotografica.
Forse è qui il nodo insoluto, quello in base al quale nonostante l'arbitrarietà dell'assunto si continua ad attribuire un valore probatorio (anche sul piano legale e investigativo) all'immagine. Forse per questo si continua, in determinate situazioni, ad averne paura. Cosa quest'ultima che in realtà mi pare abbastanza abbastanza saggia, ma non perché l'immagine, fotografia o video che sia, possa realmente essere latrice in quanto tale di quakche pericolo. Quanto piuttosto perché sono ancora troppo pochi quelli che hanno coscienza dello strumento e delle sue strutture e conseguentemente enorme è il margine operativo di chi le immagini le usa per ottenere finalità di cui, purtroppo, solo un'esigua minoranza ha percezione.
7 commenti:
Penso che uscire la vigilia di Natale con un post di questo genere sia alquanto arduo, ma, conoscendo Sandro, non posso far altro che apprezzarne l'impegno preso a portare avanti un discorso profondo per quanto riguarda la cultura dell'immagine che, lo sappiamo, nel nostro Paese è pressoché assente. Al di là di qualsiasi polemica sulla natura e sull'uso delle immagini video-fotografiche, da parte mia sento di poter commentare che in questo momento la nostra sofferenza, di fotografi intendo, sia quella che oggi si ripeta una atavica situazione d'ignoranza, nella sua accezione letterale. Proprio perché non c'è alcuna cultura dell'immagine, il pubblico è abituato a "bere" qualsiasi cosa senza pensare, vede l'immagine ma non osserva, non "sente" il messaggio, per due motivi principali. Primo: non è capace a pensare, non ha voglia di pensare, dunque non perde tempo a documentarsi su cosa sta vedendo. Secondo (il più grave): non gliene frega nulla. Questo è il punto, secondo il mio pensiero attuale, su cui si deve lavorare; mancano l'impegno e la volontà di creare ognuno la propria cultura a 360°. Guardare in una singola direzione è più comodo, non impegna, si può fare (e si fa quotidianamente) dal divano e non sulla strada. I risultati sono davanti ai nostri occhi, quello che beviamo è pilotato e solo l'avere una propria opinione ben documentata e consapevole può portare ad un cambiamento. Diversamente si subisce il lavoro di fino che stanno facendo i politici, siamo sotto anestesia quasi totale, se continuiamo così manca poco ed il sonno giungerà eterno.
A conclusione, per mia natura uso la fotografia in modo più che altro poetico, mi mancano le parole ma, proprio perché perfette, cito quelle ultime di Sandro "Quanto piuttosto perché sono ancora troppo pochi quelli che hanno coscienza dello strumento e delle sue strutture e conseguentemente enorme è il margine operativo di chi le immagini le usa per ottenere finalità di cui, purtroppo, solo un'esigua minoranza ha percezione."
Un caro augurio per un periodo natalizio di Pace e Serenità.
Marco
Ma io penso che la fotografia sono come le pale ed il piccone.
Strumenti.
E' l'uso che se ne fa, come ha accennato Sandro nel suo intervento, a qualificarne l'azione.
Ma soprattutto si ha paura del potere distorsivo, l'utilizzo, della fotografia.
La strumentalizzazione.
Perchè se è vero che una fotografia mostra è anche vero che nasconde anche.
Io oggi ad esempio in una stessa strada potrei scattare cento foto di una Napoli pulita e serena e nello stesso momento scattare cento foto di una Napoli colma, straripante di spazzatura.
E pubblicando un servizio o l'altro sicuramente influenzare un'eventuale osservatore.
E' l'interazione tra l'uomo e l'azione meccanica della fotografia che spaventa.
Il suo inserimento (e sfruttamento non utilizzo)nel circuito dei media.
Ancora una volta una questione di educazione, nel senso più ampio del termine.
Ottima fotografia. Molto interessanti informazioni. E 'vero?
Caro Sandro,
leggo questa mattina di vigilia natalizia il tuo blog (che mi sembra ci imponga una attenta riflessione) ed immagino la frase conclusiva dello stesso come tema utile da proporre e sviluppare con i nostri fotografi universitari nella giornata conclusiva dei lavori che, con Nino, stiamo immaginando di organizzare per i primo giorni di febbraio.
Il tuo blog mi fa venire in mente un episodio, quasi dimenticato, di tanti anni fa (quando la fotografia era solo analogica) e mi trovavo a Termini Imerese e fotografavo, al tramonto, la costa inquinata e devastata da alcuni industrie chimiche li presenti con i loro apparati giganteschi di acciaio arrugginito (confesso soggetti interessantissimi per un magnifico bianco e nero) e fui avvicinato da una guardia giurata che, pretendendo con decisione il mio rullino di fotografie, mi rivolse una frase simile a quella sentita nel blog, alludendo genericamente anche alla mia salute ed alla inopportunità di stare in quel luogo tossico, per cui tornando a Palermo, senza le fotografie "rapite", mi interrogai a lungo se, per caso, quel tizio, non mi avesse voluto veramente bene.
Ci sentiamo presto per riprendere i contatti; intanto carissimi auguri per le prossime festività.
Giovanni
Dopo aver passato la nottata per cercar di portare a casa il compito di natale sotto la pioggia, leggo interessato questo post. Purtroppo oltre ad un'ignoranza di alcuni appartenenti alle forze dell'ordine c'è il solito disegno comunicativo-deformante.
Cito giusto 2 casi in situazione di mobilitazione che mi hanno direttamente coinvolto:
Brescia 8-11-2010 (giorno delle cariche), sotto la gru il vicequestore attacca letteralmente al muro il giornalista di anno zero dopo aver difeso un suo cameraman, intimandolo di portarlo in questura se non si levava dai ... e che della stampa non glene fregava un ... con un ovvio risultato di aumento della tensione da parte del presidio.
Genova ven. 20 luglio 2001 durante il G8 ad durante le azioni dei famosi black bloc, i carabinieri fermano un fotografo che stava scattando e strappandogli l'attrezzatura lo manganelano.
Senza contare i casi di intimidazione da parte delle forze dell'ordine che qualcuno di noi ha subito anche per foto scattate per strada in situazioni normali.
Credo sia ormai chiara e non è assolutamente nuova la devianza e la strumentalizzazione di determinati avvenimenti.
Forse per malafede verso l'informazione davanti a questi avvenimenti mi vien da guardare dalla parte opposta e mi vien da domandarmi... Cosa sta succedendo di importante che vogliono nascondere?
E' chiaro che il 14 dicembre era una data importantissima per la politica, ma "purtroppo" è passata in secondo piano rispetto alle sensazionali fotografie degli scontri e i titoli sui giornali che parlavano di infiltrati agitatori come una grandissima novità che rende tragicamente comiche le pagine dei giornali, sopratutto chi prima e chi dopo cerchi meccanismi li ha visti all'opera.
.... E ancora chi ricorda cosa hanno deciso i capi di stato al G8 di Genova? peccato, anche allora c'erano degli scontri che hanno oscurato la scena, ed anche se non ancora nato, mi collego a storia recente degli anni 60-70, chi ricorda i sogni e le proposte e le lotte del movimento studentesco ed operaio? Peccato all'ora c'erano le Bombe che facevano paura e i movimenti armati che identificavano un movimento come terrorista.
Il problema è così chiaro che mi trovo disarmato, schifato, atterrito e inc***to per tutto questo senza vedere però una soluzione. Buon Natale Mauro
Come la strumentalizzazione delle parole, del resto (lo vediamo già dall'enunciato del carabiniere). Tutto ciò che prevede un pensiero, e quindi un punto di vista, è parziale, e ovviamente fa paura che qualcun'altro possa sostenere la sua parzialità nel migliore dei modi a discapito della propria. La "visione delle cose per come sono" si potrebbe avere forse con un inquadratura "dall'alto". Ma ancora non basterebbe, ci vuole qualche zoommata, e seguire un filo di causa-effetto. Perchè è ogni singolo particolare che fa la differenza, e le intenzioni degli attori, sia di chi solleva un bastone, che di chi invita i fotografi ad andare altrove, fanno il senso.
Mi viene in mente Manzoni, i Promessi Sposi e la rivolta in cui si ritrova Renzo. Si rinnova una certa ironia. Nei giorni in cui i giornali, o sul web, si faceva di un'immagine la bandiera di un'ideologia, o una prova a sostegno di una tesi, ho trovato anche testimonianze vive di persone che hanno osservato tutto "da dentro" e a loro volta raccolto e riportato testimonianze. Quelli sono stati i migliori "pezzi giornalistici" (sulla protesta) che ho letto. Purtroppo questa tendenza ad affidare tutto il senso a una foto, questa ingannevole idolatria, continua ancora una volta a distrarre, a semplificare, invita a smettere di approfondire, cercare, anche chi avrebbe tutte le buone intenzioni per farlo. Eppure per le "cose come sono" l'impressione è che si poteva dire tutto con 4 righe, vecchie come la storia.
Il futuro del Paese si decide dentro a un Palazzo, fuori qualcuno cerca con le buone o le cattive di far sentire la propria voce. Il Palazzo si difende, e la macchina dell'informazione lavora a pieno ritmo sugli eventi, lo scoop. All'alba del nuovo giorno sembra tutto finito e vacuo. L'evento è trattato come uno scandalo, per entrambe le parti, che presto Dio piacendo passerà. Quelli che davvero REGNANO sono l'abitudine e il torpore.
Riporto una parte del racconto di Sebastiano Gulisano:
Poliziotto: «Se tornano gliele suoniamo di nuovo».
Giornalista: «Speriamo che non tornino, allora».
Poliziotto (sorriso smagliante): «Hanno perso e si sono arrabbiati».
Altro poliziotto (capo chino, sconfortato): «Non hanno perso loro, abbiamo perso tutti».
Tutto dipende da chi legge, dalla consapevolezza di chi guarda ed è portato a dare una risposta. Ogni foto poteva avere un solo titolo, con sincero stupore, una domanda:
"Democrazia?"
Informare è anche insegnare, di necessità, perchè significa "dare una forma a qualcosa agli occhi della mente". Chi sono i nostri professori, cosa sanno coloro che ci informano? Cosa è comunamente accettato che possano dire?
Se un giornalista scrivesse un pezzo su che cos'è la democrazia, si direbbe con fare dispregiativo che fa politica (che invece è il senso genuino e civile di tutti i cittadini), si direbbe che "non si attiene ai fatti". Il che in un certo senso è vero, parla di qualcosa che abbiamo letto sui libri.
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