mercoledì 20 luglio 2011

Il punto della situazione: From here on...

Arles. Mentre in certi ambiti ci si chiede ancora se sia meglio la pellicola o il digitale, c'è chi, preso definitivamente atto, di come sono andate le cose, cerca di fare il punto della situazione. Tra questi i soliti nomi noti nel mondo della fotografia che pensa e si fa domande: Clément Chéroux, Joan FontcubertaErik Kessels* e Martin Parr. E dalle domande che questa brava gente si è posta è nata la mostra From here on... che si può visitare all'Atelier de Mécanique. Il luogo, come sempre suggestivo, è stato allestito circondando l'area espositiva con cospicue  grate metalliche. Per oltrepassarle è necessario passarci letteralmente sopra. Ovvero salire una scala che porta in cima ad un soppalco metallico dove vengono controllati i biglietti, per poi poi scendere una seconda scala e trovarsi all'interno della mostra. Il tutto ricorda a primissima impressione un carcere o un campo di concentramento dall'esterno del quale è possibile spiare al vita dei prigionieri che si aggirano tra le immagini che a loro loro volta sembrano articolarsi in membrane che isolano fra loro gli individui. Fatte salve le considerazioni sull'opportunità di una soluzione del genere ai fini della sicurezza, quando si accede alla mostra si ha davvero l'impressione di immergersi all'interno di una realtà parallela visibile solo dall'esterno fino a poco prima. A rafforzare la sensazione di ingresso in un'altra dimensione l'arco che accoglie i visitatori come all'ingresso di una città antica. O per riprendere la metafora di poco fa, di una moderna prigione. 
Il manifesto della mostra
From Here On...
Ai lati di questo ingresso ufficiale possiamo leggere oltre alle generalità degli illustri curatori, un vero e proprio manifesto relativo alla progettualità  che sottende la mostra. Scusandomi in anticipo per la traduzione estemporanea e un po' pedestre, eccone il contenuto: «Ora, siamo come editori, tutti  noi ricicliamo, tutti facciamo dei copia e incolla, tutti uploadiamo e misceliamo. Possiamo fare alle immagini qualsiasi cosa. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è un occhio, un cervello, un apparecchio fotografico, un telefono, un computer, uno scanner e un punto di vista. E quando non non editiamo, creiamo. Noi creiamo più mai, perché le nostre risorse sono illimitate e le possibilità infinite. Internet è piena di ispirazioni, di profondità, di bellezza, di fastidio, di ridicolo, di volgare, di dialettale  e d'intimità. I nostri piccoli apparecchi catturano senza sforzo la luce più viva come l'oscurità più densa. Questo potenziale tecnologico ha delle ripercussioni estetiche. Trasforma l'idea che ci facciamo della creazione. Ne risultino dei lavori che assomigliano a dei giochi, che trasformano il vecchio in nuovo, rivalutano il banale. Dei lavori che hanno una storia, ma si iscrivono pienamente nel presente. Noi vogliamo dare a questi lavori un nuovo statuto. Perché le cose saranno diverse a partire da adesso.»
Al di là della forma enfatica che rimanda ai manifesti di inizio novecento con tanto di evoluzioni tipografiche, il contenuto della mostra è decisamente interessante. Certo non ci si deve avvicinare avendo in mente canoni estetici classici e tantomeno parafotografici. Ma il valore delle riflessioni che la mostra costringe a fare è indubbio. Già dall'allestimento siamo portati a farci delle domande sul modo in cui viviamo il nostro essere assediati dalle immagini e l'essere al tempo stesso artefici, o almeno partecipi della realizzazione di quell'assedio che contribuiamo ad alimentare ogni volta che produciamo in qualche modo un'immagine.  Fermarsi, estraniarsi e uscire per qualche istante dal vortice in cui siamo presi, dal flusso che noi stessi rendiamo sempre più potente, permette di prendere le distanze e forse iniziare a capire qualcosa. I criteri della catalogazione una volta esplicitati come chiave di ricerca permettono infatti di misurare il livello di omologazione che sono in grado di produrre. Ne è un  esempio l'interminabile sequenza di balde fanciulle sculettanti che si esibiscono in danze più o meno improbabile a beneficio della webcam e di un pubblico non identificabile a priori. Ma attenzione a non cadere in ipocriti moralismi che conducono a immancabili condanne aprioristiche. Non è prendendosi gioco della superficialità di queste... creature che aiutiamo la nostra comprensione. Ridurre tutto all'omologazione e chiudere lì il discorso non porta da nessuna parte.  Se il senso del relativo ci assale (ad esempio davanti alle immagini di Walker Evans che prelevate dalla rete e ridotte alla stessa dimensione di stampa mostrano trasformazioni inaspettate mettendo a repentaglio la stessa riconoscibilità dell'immagine)  non dobbiamo dimenticare che a fronte dell'omologazione, della perdita di certezze più o meno affidabili, c'è comunque un processo generale di formazione di una coscienza comune, anche se nelle sue forme non coincide con quella che siamo abituati a gestire. 
E allora quello che dovremmo chiederci mentre giriamo per l'Atelier de Mécanique è fino a che punto quel turbinio di immagini che subiamo e che produciamo non influisce sulle modalità in cui nasce e si sviluppa nostro pensiero e conseguenzialmente la nostra esistenza? Fino a che punto tutto questo è un gioco? Cos'è veramente la società che produce pareti di tramonti tutti uguali o esibisce organi sessuali avulsi dal contesto di appartenenza all'individuo che ne è portatore e la cui ripetizione finisce per annullare ogni individualità?
Forse dovremmo semplicemente prendere coscienza dell'assunzione di responsabilità implicita in ogni azione visiva che compiamo. Fare una fotografia e uploadarla, non è un gesto privo di conseguenze. In ogni caso unendosi ad altre cellule  creerà un corpo vivo di miliardi e miliardi di altre immagini, all'interno delle quali si evolverà un processo di pensiero collettivo. E potrà essere una cellula sana che contribuisce alla rigenerazione del corpo, o una cellula tumorale che finirà per consumare il corpo. Veicolare, raccogliere, produrre, fruire, modificare immagini sono tutti aspetti di uno stesso processo che per la sua immensità tende a sfuggire tanto alla nostra vista quanto alla nostra comprensione immediata. Forse è il caso di cominciare a prendere atto della sua esistenza. Provate! E... scommettiamo che dopo il gesto ossessivo di Clement Dullaart che trasforma se stesso in un salvaschermo umano (lo trovate alla fine del video qui sotto) smetterà di farvi sorridere per la sua stupidità e vi obbligherà a riflettere un po' di più?




Se cliccando il link di Erik Kesseles doveste avere la sensazione che il vostro computer e il relativo browser siano definitivamente impazziti, non vi preoccupate, il problema psicotico non è ne vostro dei vostri strumeti informatici. Si consiglia di ricaricare più volte la pagina.

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2 commenti:

Sandro Bini ha detto...

Buongiorno Sandro
Riflessione profonda e ampiamente condivisibile, che si sposa direi abbastanza bene e approfondisce quanto ho descritto nel mio ultimo post su "Binitudini" http://www.blogger.com/comment.g?blogID=2677824462982247107&postID=5115675966347949784
La responsabilità di chi fotografa e pubblica in qualsiasi modo le proprie immagini non diminuisce certo con la superproduzione dell'era digitale!
Prima o poi spero ci sia un'occasione di incontrarsi personalmente! Grazie per i continui spunti di riflessione.
Sandro Bini / deaphoto

sandro ha detto...

Sembra un'immensa opera di demistificazione della fotografia, forse il tentativo di riportarla ad una dimensione meno seriosa o di indurre una maggiore riflessione, anche se tutto sembra toglierle quel poco di autorevolezza che le rimane.
Non so se è solo demistificazione, ma se lo fosse, non basterebbe.