giovedì 31 maggio 2007

Come nasce una cover story


All’epoca del liceo uno dei miei migliori amici disegnava fumetti e io passavo a volte delle ore a guardare, con stupore e invidia, la sua mano che partendo da punti apparentemente casuali sviluppava attraverso una serie di tratti il progetto che si era formato nella sua mente. Se pensavo alla velocità con cui avevo sempre sfogliato un qualsiasi fumetto, il mio sgomento cresceva rispetto al lavoro che c’era dietro quello che consumavo in pochi istanti. Questo preambolo solo per introdurre il motivo di questa breve chiacchierata intorno ai ragionamenti fatti per presentare il lavoro di Hiroshi Sugimoto nella cover story pubblicata su IL FOTOGRAFO di giugno.
Spesso infatti credo che i non addetti ai lavori non si pongano troppi problemi di fronte agli impaginati, valutando solo, forse, se il tutto risulta o meno di gradimento personale. Non voglio generalizzare o attribuire a un prossimo generico una superficialità di cui in realtà spero non sia in possesso, ma credo possa essere naturale non farsi certe domande se qualcosa o qualcuno non ti ha dato occasione di rifletterci un pochino sopra. Io stesso prima di fare il lavoro che faccio non mi sarei davvero posto troppe domande su un argomento del genere, come (ahimé) temo di continuare a non pormene abbastanza relativamente a cose che non conosco o conosco poco.
Proprio partendo da questa constatazione e dal fatto che, quando ho l'occasione di sottoporre a interrogatorio di terzo grado chi ne sa più di me, finisco sempre per apprezzare molto meglio quanto ho di fronte, ho pensato di rendere pubblica una parte delle... elucubrazioni che sottendono la forma grafica dell'articolo su Sugimoto, autore di per se stesso non tra i più facilmente approcciabili.
Vorrei iniziare chiarendo per prima cosa un semplice concetto a vantaggio di chi non dovesse conoscere questo autore. Hiroshi Sugimoto è un artista contemporaneo. Attenzione vorrei sottolineare l'importanza delle parole per non cadere nel classico fraintendimento che aleggia perennemente intorno al mondo della fotografia e alle frustrazioni di chi lo vive. Chi mi segue da un po' sa bene che personalmente non amo l'utilizzo della parola Arte riferita alla fotografia, non perché non ritenga che questa forma di espressione non possa assurgere ad elevatissimi livelli, ma perché troppo spesso si finisce per abusare della parola Arte e non riesco a non nutrire il sospetto che alla base di quell'utilizzo ci sia un aristotelico sillogismo del tipo: la fotografia è Arte, io faccio Fotografia, quindi io sono un Artista. Sillogismo che quasi sempre quando è alimentato in modo autoreferenziale finisce per non essere altro se non un succedaneo di probabilmente più gratificanti pratiche onanistiche. La maggior parte dei fotografi sono artigiani, professionisti, semplici appassionati, cosa che non toglie nulla al fatto che possano essere anche bravi, ma raramente hanno qualcosa a che vedere con l'arte.
Ho detto artista e non fotografo perché per Sugimoto la fotografia è solo uno dei possibili mezzi con cui esprimersi, tanto è vero che nella suggestiva mostra di Villa Manin, in provincia di Pordenone, ci sono anche due sculture che accompagnano le fotografie interfacciandosi a livello estetico e contenutistico con queste ultime. Quello che Sugimoto rappresenta non è tanto il soggetto materiale che ha di fronte (basti pensare alla serie sulle formule matematiche espresse attraverso oggetti), ma solo uno spunto per renderlo percepibile.


Nell’ampia retrospettiva di Villa Manin si può vedere come Sugimoto abbia affrontato e sviscerato molte delle problematiche teoriche che ruotano intorno all'immagine fotografica e alla sua presunzione di rappresentazione del reale. Prendiamo ad esempio le immagini realizzate lasciando aperto l'otturatore per tutta la durata di un film che così finisce per apparire concentrato in un unico candido fotogramma.




Oppure pensiamo ai ritratti delle statue di cera dei musei Madame Tussaud's, che suggeriscono una complessa interpretazione del ritratto che di per sé è già una copia, ma in questo caso diventa copia copia, lasciando l'osservatore spiazzato in prima battuta.



Ma sono assolutamente da ricordare anche le riflessioni sulle origini della ricerca fotografica che arrivano a ripercorrere con acume le tappe compiute dai pionieri della fotografia come Talbot,



fino a registrare in modo non controllabile la luce emessa da una scarica elettrica, cosa che stavolta neppure troppo simbolicamente richiama e rimanda alla natura ultima, più vera e misteriosa della fotografia: la stessa energia che rende possibile tutto il processo.



Un percorso quello di Sugimoto che pone una riflessione profonda, con origini molto remote, che finisce per approdare sulla sue stesse radici, sondando la natura più profonda, l'essenza della stessa immagine fotografica che finisce per avere come soggetto prima se stessa e poi il fenomeno ultimo che la rende possibile. Ecco perché nel titolo, che altro non è se non il cognome e nome dell'artista secondo l'usanza giapponese di far precedere il cognome al nome, il secondo Kanji (ideogramma), che vuol dire radice, nonché (... guarda caso) libro, è stato messo in evidenza cromatica. A sottolineare fin dalla prima visione un elemento fondante attorno al quale ruota la ricerca di Sugimoto: la ricerca delle radici.



La tradizione giapponese tende a privilegiare i numeri dispari, scartando accuratamente il quattro la cui pronuncia cino-giapponese, ha lo stesso suono (Shi) della parola morte. Purtroppo le esigenze di foliazione hanno impedito di far rispettare questo concetto nel numero complessivo delle foto, ma non di riprenderlo nell’ultima pagina dove intorno alla foto ruotano infatti cinque blocchetti di testo, di cui uno di cinque e l’altro di tre righe, che a loro volta ruotano, sempre simbolicamente, intorno alla quarta foto che rappresenta una veduta marina in cui l'apparente immobilità del mare nel corso dei milleni, contrasta con il moto continuo che invece ne anima l'essenza.



Infine, a riprendere quella circolarità di pensiero che ritorna dall'indagine sullo strumento fino alla sua meno evidente natura, l’ultima pagina intesa nel suo insieme grafico, si proponeva di richiamare graficamente la struttura della prima immagine dell’articolo. In questo caso lo schermo bianco nell'area centrale dell'immagine, è stato sostituito da una fotografia intorno alla quale si struttura radialmente il layout.




Per concludere vorrei approfittare del maggiore spazio a disposizione in questo luogo virtuale rispetto alle pagine della rivista, per mostrare alcune immagini dell'allestimento molto suggetivo realizzato sotto la diretta supervisione di Sugimoto a Villa Manin a Passariano. L'autore ha voluto che nella maggior parte delle sale si creasse un'alchimia assai particolare tra gli ambienti, le immagini e la luce naturale che è quasi sempre dominante sull'illuminazione artificiale, con l'eccezione delle sale dedicate alle immagini della serie Theaters, dove la luce artificale piuttosto bassa e le finestre rigorosamente chiuse creano una suggestione che riporta con ancor maggior forza all'interno delle immagini stesse.




n.182 - giugno 2007







Riferimenti audio
1 - Hiroshi Sugimoto e la mostra all'Hirshhorn Museum
(16 febbraio - 14 maggio 2006)
(25:35)

2 - Incontro con Hiroshi Sugimoto
(52:35)

3 - Hiroshi Sugimoto e David Elliott, co-curatore della mostra all'Hirshhorn Museum
(16 febbraio - 14 maggio 2006)
(6:28)


Dall'alto:
Il layout dell'articolo su Hiroshi Sugimoto.
Hiroshi Sugimoto, Autoritratto.
Mechanical Forms 0026, © Hiroshi Sugimoto, Gelatin-silver print, 2004.
Al.Ringling (Baraboo, © Hiroshi Sugimoto, Gelatin-silver print, 1995.
Winnetika Drive-In (Paramount), © Hiroshi Sugimoto, Gelatin-silver print, 1993.
Henry VIII, © Hiroshi Sugimoto, Gelatin-silver print, 1999.
Richard I, © Hiroshi Sugimoto, Gelatin-silver print, 2004.
Talbot 3, © Hiroshi Sugimoto, Gelatin-silver print, 2006.
Lightning Field 3032, © Hiroshi Sugimoto, Gelatin-silver print, 2006.
La prima doppia pagina dell'articolo su Hiroshi Sugimoto.
L'ultima doppia pagina dell'articolo su Hiroshi Sugimoto.
Villa Manin, la sala dedicata dedicata ai Portraits vista dall'alto.
Villa Manin, la sala in cui è esposta l'opera Mathematical Model 005: Venice 2006.
Villa Manin, la sala dedicata ai Theaters.
Villa Manin, la sala dedicata ai ritratti di Napoleone e Wellington, nella stanza dove la tradizione vuole abbia dormito lo stesso Bonaparte.






LA MOSTRA
Hiroshi Sugimoto a cura di Francesco Bonami, fino al 30 settembre, Villa Manin, piazza Manin 10, Passariano, Codroipo UD; tel. 0432-906509; internet: www.villamanincontemporanea.it.





23 commenti:

Anonimo ha detto...

grazie! grazie infinite per avermi fatto conoscere Sugimoto.
è stata una vera folgorazione che credo mi porterò avanti per molto tempo. solo con Micheal Kenna ho avuto le medesime sensazioni e ho impiegato molto tempo a rielaborare quell'incontro.
queste opere sono il corrispettivo visivo degli haiku: dei distillati di passione e del sentire.
davvero sublime.
gioVanni

:: haku :: ha detto...

La prima volta che ho visto l'autoritratto pur solo in riproduzione di Hiroshi Sugimoto avevo già assorbito qualcosa di indefinibile circa il suo modo di accumulare e trasformare la luce attraverso un mezzo che tutti noi usiamo, ma di cui egli trasmette e dimostra una consapevolezza sorprendente, nuova quanto primordiale. Mi arrivava qualcosa di fortemente contemporaneo nel suo essere concettuale e qualcosa di originario della fotografia, per quella sorpresa che mi trasmettevano le sue immagini. Nel suo ritratto gli occhi sono coperti da lenti (anche davanti alla nostra macchina fotografica abbiamo lenti)... le lenti sono raggiunte da una precisa luce di cui producono un riflesso. Per un attimo si può pensare Sugimoto si sia voluto rappresentare cieco, con occhi abbagliati dalla luce stessa, dalla luce accecati, ma osservando ci si accorge che i suoi occhi si vedono dietro un lucido velo luminoso. Così, in questo stesso modo, vediamo le lenti delle nostre macchine fotografiche: con un riflesso circolare e in trasparenza, un po' più opaco, quello che sta dietro e che ci permetterà di impressionare una superficie. Trovai questo modo di rappresentare se stesso folgorante... La sua immobilità quasi da rettile e la sensazione di scatto che avevo da quel modo di rappresentare il suo sguardo. L'attesa di un battito di palpebra come della chiusura dell'otturatore... La nitida sensazione che da quegli occhi si veda altro, forse che si misuri proprio il Tempo.
Dalla mostra a Villa Manin sono uscita con sensazioni ovattate e intense. Con una percezione somma di ordine, con la sensazione rassicurante e insieme "naufragante" che mi fosse stata sussurrata una Visione dell'ordine universale.
L'anello che in me ha congiunto tutto sono stati i lavori senza fotocamera... paradossalmente o significativamente, chissà. Lo sconcerto di fronte alla rappresentazione tridimensionale di formule matematiche, alla loro bellezza asciutta, perfetta perché non decorativa, il loro rimandare alla ricerca (scientifica) di un ordine sotteso alle cose del mondo, alla ricerca dell'Eleganza einsteiniana, dell'estetica ineccepibile e universale perché fondativa dei processi di creazione e sviluppo dell'universo... tutto questo ha per me trovato senso conchiuso nei Lightning Fields. Le scariche elettriche che simulano la condizione del fulmine hanno lasciato sulla carta strutture che guardate da molto vicino sono state per me sconvolgenti: sono strutture che si ripetono nelle forme organiche e particolarmente nel loro svilupparsi e nel loro ramificarsi. Mi hanno fatto pensare agli studi di Leonardo sulle proporzioni delle foglie basate sulla Sezione Aurea. Mi han fatto pensare ai frattali -altre visualizzazioni di formule e funzioni matematiche-, che all'occhio avvezzo alle immagini paiono foreste, delta di fiumi, nervature di foglie moltiplicate all'infinito, reticoli organici, labirinti cerebrali, paesaggi lontanissimi, forse infine nebulose. Mi han fatto pensare al concorrere di formule rigorose e casualità. Grazie a queste opere non fotografiche ho rivisto tutto come un faticoso lavoro di cesello sulla rappresentazione delle luce come energia di vita, generante, originaria. Alla mostra le forme di vita (e non) rappresentate sono fantocci, fantocci tridimensionali... addirittura presenze che rimandano ad assenze. Rappresentazioni di personaggi deceduti ritratti in cera (Portraits), rappresentazioni di ambienti naturali (Dioramas), rappresentazioni di formule e meccanismi (Conceptual Forms)... fantocci... a cui Sugimoto pare concedere di nuovo vita/luce attraverso quella luminosità che essi stessi restituiscono alla superficie sensibile. Succede così -per una grazia insondabile- che la luce sembri provenire dalle sue fotografie più che dall'ambiente in cui vengono esposte e questo risulta evidentissimo nelle sale dei Theaters, che perdipiù si riflettono sui pavimenti specchianti. Già colpita da tutto questo, mi sono trovata di fronte ad un paradosso ulteriore: la vita/la luce è per definizione movimento, il movimento è possibile nel tempo. Il tempo è la grande presenza assente (invisibile, impalpabile...) nella vita. Il senso di magnetica staticità senza dimensione, che sembra arrivare dalle sue immagini è paradossale se si osserva che spesso sono lunghe esposizioni... così lunghe da vanificare la percezione del movimento, poiché la luce, ancora la luce, lo ha sopraffatto.

E, dunque, come non apprezzare che davanti ad un autore così nitido e complesso, un direttore di un giornale elabori un'impaginazione così rispettosa e sintetica, così apparentemente semplice proprio grazie all'accurata elaborazione che l'ha prodotta?

Mi associo a gioVanni... grazie, Iovine, per Sugimoto e per aver condiviso l'elaborazione di un lavoro, per questa opportunità di analizzare il "nascosto".

Anonimo ha detto...

Camminando tra le sale di Villa Manin anche chi non ha alcuna formazione all’immagine come me deve arrendersi e abbandonare definitivamente l’errato convincimento che la fotografia sia un modo oggettivo di riprodurre la realtà. Infatti la prima sensazione che ho provato è stata di assoluto stordimento, di vertigine, solo più tardi le opere di Sugimoto hanno trovato una dimensione come luoghi della storia o meglio della memoria, e solo dopo un paio di letture di questo blog hanno trovato anche una loro collocazione in un mio spazio mentale. Confesso che il mio non è stato un innamoramento folgorante come quello di Giovanni, e nemmeno si è accompagnato alle “luminose” sensazioni di Haku, ne ho subito un fascino più razionale, che è passato anche attraverso il racconto delle immagini qui scelte per descrivere l’arte di Sugimoto, dagli strumenti grafici e dalla loro disposizione.
Elementi che quando rispettano il contenuto dell’opera senza stravolgerlo sanno veicolarlo guidando sguardo e spirito e creando una suggestiva unità d’intenti con il pensiero dell’autore, una magia.
Aldilà di queste considerazioni personali trovo sia un segno di grande rispetto e considerazione aprire un dialogo con i propri lettori per spiegare loro le modalità con cui si usano le fotografie, in contesti in cui i sacerdoti della carta stampata calano dall’alto le loro decisioni, spesso inintelleggibili a noi mortali, come depositari di un sapere sciamanico segreto trasmesso in riti oscuri tra adepti unti da una qualche divinità.

Poi, anzi prima, c’è Sugimoto in cui ogni immagine può essere letta come allegoria, icona, forse simbolo della realtà che rappresenta e che rinvia ad altro, che scegli come suo oggetto d’indagine il tempo, non quello convenzionale scandito dalle lancette dell’orologio, ma quello infinito, trascendente, a priori (sì lo so questa l’ho rubata). Penso soprattutto a quando di fronte ad un palco fisso e luminoso i nostri sensi ci ingannano raccontando un istante fisso, congelato, mentre l’autore l’ha colto nella sua essenza, nel suo fluire inarrestabile nella sua dimensione sensibile. Nel suo essere tempo appunto. Unendo in un paradosso i due estremi in cui pensiamo il tempo: l’attimo immutabile dello scatto e l’eternità.

Anonimo ha detto...

L'installazione di Sugimoto mi stimola, peccato che sia lontana e io non possa vederla e ammirarla piu' volte.
Ma questa sensazione non e' mediata certo dal layout editoriale, sorry se sono fuori dal coro ma il mio destino e' polemizzare. Per cominciare, il testo stampato in bianco su nero non e' certo il massimo dell'intelligibilita', ma mi rendo conto che e' un fatto personale. Poi l'elucubrazione orientalista sui numeri pari e dispari, sul numero 4 ecc. puo' essere di facile lettura per un giapponese colto, ma non per gli europei. Che so io se quegli ideogrammi di cui uno in rosso siano il nome dell'autore!
Infine troppo poco spazio alle immagini della installazione, critico il fatto che bisogna integrare l'articolo con l'editoriale per cavare un ragno dal buco. E si, vedendo le immagini nel loro contesto, presentate su questo blog, la cosa e'ben diversa.
Ma siccome so che la rivista propone stimoli e provocazioni, allora una navigazione su google mi ha fatto conoscere meglio il mondo di Sugimoto, e ho trovato un commento di Augusto Pieroni che e' molto bello e intelligentemente delucidatorio.

Poi non parliamo di HAKU, di cui sono ormai follemente innamorato : incredibile e felicissimo resoconto di una visita all'installazione , in cui haku riesce mirabilmente a fare una cosa difficilissima : farci sentire presenti in quelle sale, e sopratutto spiegarci con appropriatezza linguistica le sensazioni vissute.
Nell' articolo la paginetta di haku ci stava a pennello, ma perche' non la assumete al giornale?
sicuramente una sua pagina siffatta vale tantoquanto ( in realta' io credo molto ma molto di piu' ) le 3 o 4 invece dedicate alle coscione di quelle troione blu a mollo all'acqua, degne commari delle burrose acquose e straviste troione tanto care a Vidor.
Alla fine pero' c'e' da dire che vinci sempre tu Sandro, perche' anche stavolta sei riuscito a stimolare qualcosa di interessante

Viviana ha detto...

Non sono stata a visitare la mostra perchè è troppo lontana dal mio nido, ma in base a quello che ho visto sul blog e sulla rivista Sugimoto non mi piace. Non mi piace perchè non è il genere che prediligo, non amo le cose concettuali, simboliche, filosofiche, sul cui significato si può scrivere tutto e il contrario di tutto. Ma è solo il mio gusto. Tuttavia ho letto con interesse l'editoriale di Sandro e devo ammettere che in fondo l'idea del concentrare in un solo fotogramma tutto un film è interessante... sebbene rimanga fuori dalle mie preferenze.
Mi interessa invece molto di più sapere perchè si sceglie di pubblicare un articolo invece di un altro, perchè si sceglie un certo layout invece di un altro... insomma le motivazioni che guidano le scelte di un direttore, e in questo senso l'editoriale è stato illuminante.
Concordo con l'anonimo sulla presenza poco significativa delle foto di nudo in blu, ma gradirei evitasse volgarità gratuite che, in quanto donna, mi disturbano sempre un po', oltre a essere non pertinenti.

Anonimo ha detto...

ad offendermi e sentirmi disturbato sono io maschietto, che non considero la donna come oggetto voyeristico, e a te donna dovrebbe appunto disturbare questo.
ma ognuno il suo giornale se lo fa come crede, ci mancherebbe, se il fine e' nobile come quello di accostare nello stesso numero, a dimostrazione di apertura di orizzonti mentali, foto concettuali con altre terraterra.
tutti abbiamo fatto foto di nudo, il problema e' tenersele nel cassetto ovvero aspirare ad averle pubblicate come prodotto artistico.

Prendendo atto delle personali ma legittime e tutto sommato fondate osservazioni di viviana, vorrei aggiungere che quelle di sugimoto non vanno prese per fotografie sicetsimpliciter ( se un fotodilettante anche bravissimo tecnicamente presentasse una serie di foto di statue di cera sarebbe preso a fischi e pernacchie, le fa sugimoto e si schiudono i cuori sopraffatti dall'ARTE ) : quello che conta nel lavoro di sugimoto e' l'installazione, operazione complessa nel cui alveo i singoli elementi trasfigurano e costruiscono un tutt'uno interessante; allora si' che si puo' parlare di arte.

Viviana ha detto...

Vorrei raccontare una cosa che mi è capitata e che mi ha messo un po' in difficoltà: mentre stavo leggendo Il fotografo mio figlio di 3 anni, che saltava sul letto di fianco a me, mi ha chiesto
:" Cosa fa quella lì blu?" indicando una delle foto di nudo della cover story. Sono rimasta un attimo in silenzio, nel dubbio se fargliele vedere o nasconderle, perchè il mio primo istinto è considerare le foto di nudo di quel tipo proprio come le ha descritte l'anonimo (ma un nome ce l'hai?).
Ma i bambini ragionano in modo molto diverso dal nostro, e la nudità del corpo umano è in realtà del tutto naturale, quindi gli ho fatto vedere le foto e gli ho spiegato che quella ragazza stava facendo il bagno in un fiume.
Quello che mi sconvolge è come spesso il nostro modo di vedere le cose sia influenzato del tutto inconsciamente dalla sovrastrutture culturali in cui siamo cresciuti.

Anonimo ha detto...

giustissimo. condivido.
ma le sovrastrutture su base socioculturale, nel divenire del genere umano, ci permettono per esempio di capire ( e naturalmente non per forza amare ) l'operazione di sugimoto, i suoi moventi intellettuali ed emotivi, oppure l'architettura moderna quando realizza una simbiosi tra spazio e vita umana. ma di fronte a immagini di nudo, almeno nei maschietti, predomina in fondoinfondo il paleoencefalo, nascosta sede dell'istinto alla procreazione ai fini della conservazione della specie ; negli animali come negli umani.

Anonimo ha detto...

non volevo nascondermi, ho sbagliato a cliccare per 2 volte, ora ci staro' attento : l'anonimo dei 2 ultimi commenti anonimi sono io

sandroiovine ha detto...

In genere cerco di non intervenire in questi dibattiti e di ascoltare in silenzio per imparare qualcosa e capire meglio. Mi sento però in dovere di precisare che a mio avviso la differenza tra l’appassionato e il Sugimoto della situazione, entrambi intenti a fotografare statue di cera, non sta certo nella realizzazione delle immagini o nella fama di cui sono rispettivamente in possesso, ma nella progettualità che c’è dietro. Il giorno in cui un… amatore, sconosciuto al mondo dell’arte e della cultura proporrà il proprio lavoro supportandolo con debite e credibili affermazioni che sostengano le ragioni della sua opera, sarò, e spero saremo tutti, ben lieti di accorglielo e interessarci al suo lavoro.
Il lavoro mi porta per necessità a vivere il mondo della fotografia amatoriale italiana e devo dire che purtroppo la progettualità continua ad apparire una parola dal significato poco conosciuto. Parlo ovviamente in generale e con le debite e nobili eccezioni del caso. Proprio per questo il mirino dell’editoriale si è spostato su Sugimoto e sul modo, opinabilissimo come qualunque altro ovviamente, con il quale ho deciso di presentarlo. Era un tentativo di dare un senso proprio al concetto di progettualità. Del resto se non avessi ritenuto che ci fosse la necessità di fornire spiegazioni circa i ragionamenti alla base delle scelte, non avrei dedicato a questo argomento l’editoriale. 
Mi piacerebbe che il giornale non venisse vissuto da chi lo acquista a compartimenti stagni. Vorrei che all’interno vi fossero molti più rimandi di quanti non ce ne siano al momento, in modo da accrescere il senso del tutto. 
Vorrei che passasse il concetto che tutto questo era solo un modo per stimolare la proposizione di idee e alternative da parte di chi ci e mi personalmente onora con l'attenzione della sua lettura. E sono convinto che per cercare di ottenere una cosa del genere sia necessario venire qualche volta a compromessi. In tutta sincerità sono enormemente più interessato alle foto di Sugimoto che non a quelle di Warkentin, ma basta fare un giro con la copertina del giornale in mano o leggere i commenti presenti nei forum di fotografia e vedere come il lettore medio sia molto più interessato alle ragazze spogliate e virate al blu. E se un complimento arriva, fuori di qui, non è certo per il bianconero di Sugimoto… Ma se pubblicare le immagini di un onestissimo fotografo come Warkentin è il mezzo che mi permette di far avvicinare qualcuno a una concezione dell’espressione fotografica più elevata, beh, allora non ho dubbi sul fatto che questo prezzo sono disposto a pagarlo.

Ezio Turus ha detto...

Si, lo so ... dovrei vergognarmi, per varie ragioni. La prima per il fatto di non essere ancora andato a vedere la mostra pur abitando vicino a Villa Manin, ma proprio per il fatto di "averla vicino a casa" si rimanda, a volte rischiando di perdere cose importanti (ma ovviamente, soprattutto dopo questo splendido articolo, diventa un dovere morale, oltre che piacere personale, andare a conoscere personalmente le opere di Sugimoto). La seconda per essere affascinato dalla copertina di questo ultimo numero de Il Fotografo. Si, lo ammetto, ho un debole per il BLU. Differentemente da Viviana, però, il concettuale, il simbolico, il filosofico mi affascinano e sono proprio questi concetti che mi vengono alla mente, sia guardando le opere di Sugumoto, sia quelle di Polushkin, sia quelle di Warkentin. Sarà oramai una deformazione la mia, ma ritengo che ogni espressione intellettiva debba passare prima per un'analisi concettuale. In questi giorni sto scrivendo un articolo su Fluxus e mi sono trovato a sguazzare con il concettuale, mi sono visto la mezz'ora di "Zen for Film" di Paik, mi sono ascoltato "4,33" di Cage e mi sono pure piaciuti (terza ragione per cui dovrei vergognarmi). Se va avanti così mi vedrò la versione integrale di "Empire" di Warhol (nel qual caso vi autorizzo a rinchiudermi). Ironia a parte, credo sia imprescindibile "capire", conoscere le motivazioni (di un autore, di un movimento artistico, di un editore); solo così si può ottenere la giusta chiave di lettura di un'opera. Altrimenti rischiamo di soffermarci solo sul "buono - nobuono" di "Luottiana" memoria, magari rimanendo stupiti dalla freschezza e profondità con cui i bambini sanno leggere certi segnali che molti di noi hanno dimenticato.
Ezio Turus

Anonimo ha detto...

certo che sei vecchietto anzicheno' se ti ricordi ancora di andi luotto

Anonimo ha detto...

Cito Sandro:" Il giorno in cui un… amatore, sconosciuto al mondo dell’arte e della cultura, proporrà il proprio lavoro supportandolo con debite e credibili affermazioni che sostengano le ragioni della sua opera, sarò ben lieto di accoglierlo e interessarmi al suo lavoro".

Domando io: Un lavoro fotografico ha davvero bisogno di essere supportato con credibili affermazioni delle ragioni dell'opera? Il valore della foto non è dato soprattutto dalla sua capacità di comunicare con precisione? Le parole non sono talvolta stampelle o strumenti abili per attribuire significati laddove ce ne sono pochi o sono fortemente discutibili? ... ecc...

Ezio Turus ha detto...

tt ha detto...
Il valore della foto non è dato soprattutto dalla sua capacità di comunicare con precisione?

Spesso il problema non è in "chi" crea la foto ma in chi la legge. Siamo proprio sicuri di saper leggere bene le foto (a parte le proprie, si capisce). Sappiamo con certezza scovare le motivazioni consce o inconsce che stanno dietro uno scatto? Frequentare le pedane di lettura portfolio mi ha fatto capire quanto divario ci sia tra quello che viene scritto e quello che viene letto. Spesso le "istruzioni all'uso" servono proprio a questo. Come le parole di Sandro in questo editoriale.
Ezio Turus

:: haku :: ha detto...

Ho l'impressione che stiamo discutendo di alcuni aspetti differenti sovrapponendoli e rendendoli equivalenti, rischiando così di fraintenderci.
Personalmente trovo disorientante accostare quasi in elenco termini come concettuale-simbolico-filosofico e poi attribuirli indistintamente a immagini e intenzioni molto distanti tra loro. E... nonostante la mia diffidenza per "certa parola" di tendenza sofistica, credo che tutte le parole se usate con pertinenza non siano così ambigue, ma semmai insufficienti.
Per tornare a Sugimoto... come prevedibile è scivolato quasi in secondo piano rispetto a Warkentin, nonostante questo editoriale fosse dedicato al primo dei due: e questo potrebbe darci materia su cui riflettere.
Essendo io portata (con irritante pertinacia, forse) a voler salvare quanto amo, cioè quanto mi dà modo di pensare e di lasciarmi pensare, voglio leggere questo parziale dirottamento su Warkentin come una prova della potenza di Sugimoto nel produrre in noi Silenzio. Un silenzio riflessivo, perché è difficile scriverne e parlarne senza inanellare banalità e il fenomeno significativo è che qualcosa in noi, osservando i suoi lavori, diventa consapevole di questo, sicché restiamo in silenzio, in un silenzio che per alcuni sarà di domande per altri di rispetto, ma comunque di attesa. È come se sapessimo, in qualche modo, che questo autore ci tornerà alla memoria facendoci capire qualcosa di nuovo magari in un momento totalmente inatteso.
Questa caratteristica del suo modo di arrivarci, del suo linguaggio, del suo "sistema di comunicazione", mi fa riconsiderare le parole dei vari post circa l'installazione, la progettualità, le parole circa le parole.
Se pensiamo ad alcune affermazioni * che Sugimoto associa alle sue serie, ci si fa inequivocabilmente chiaro che esse non sono «istruzioni per l'uso» [eturus] bensì racconti (de «le ragioni della sua opera» [Iovine]), quasi confidenze, sul processo estetico ed intellettuale che lo ha portato ad approfondire qualcosa di cui si è accorto. Le sue parole hanno sempre una relazione con lo stupore di fronte ad una particolare osservazione, una relazione con una scoperta su cui lavorare. Le sue affermazioni possono aiutarci a capire la genesi del suo lavoro e ad approfondirne la conoscenza, ma non sono spiegazioni che distorcano la percezione immediata avuta aggirandoci tra le sue opere. A mio parere le sue parole possono solo corroborare quella percezione, a riprova della sua non comune capacità di adeguare il mezzo comunicativo al messaggio che sta trasmettendo, costruendolo in noi.
Dunque anche circa l'installazione curata fino alla distanza millimetrica tra i Portraits posti a emiciclo nella sala fotografata da Iovine (installazione che in particolare in questa sala crea un sottile dialogo tra i ritratti stessi e due grandi quadri allegorici, parte della sala stessa), l'installazione certamente aggiunge una dimensione che incrementa l'elemento suggestivo con un'esibizione di sapienza nell'utilizzo degli spazi, ma la potenza di queste immagini non fa che attribuire nuovo senso agli spazi stessi in cui sono collocate, più che assumere senso da essi.
Infine, il problema della capacità di leggere le immagini trovo non sia da appiattire sull'esplicazione del progetto che le genera, trovo sia invece una possibilità che ognuno di noi si costruisce individualmente attraverso la consultazione e soprattutto la frequentazione di persone, testi, libri, giornali, film, mostre e della rete. La possibilità di «saper leggere bene le foto» ce la dobbiamo costruire noi prima, come dovrebbe farlo chi voglia sostenere un progetto legato alle immagini. Dal mio punto di vista, il problema di comunicazione tra chi fa e chi legge, non sta nella dichiarazione delle istruzioni per l'uso bensì dalla possibilità di condividere un substrato organico e ben posseduto che non si può che definire culturale.

*
Conceptual Forms: «L'arte risiede anche in cose senza intenzione artistica.»
Dioramas: «... dando un'occhiata veloce con un occhio chiuso, tutta la prospettiva svanisce e immediatamente [gli animali imbalsamati nei diorama] sembrano molto reali. Avevo trovato un modo per vedere il mondo come lo fa vedere una fotocamera.»

Anonimo ha detto...

tt, perché ritieni che l'avere un progetto e saperlo comunicare sia in contraddizione con la realizzazione di un'immagine efficace? Le fotografie di Sugimoto non sono il risultato di uno scatto casuale al museo delle cere, ne' di una fugace ispirazione, ma di una lunga ricerca, di ore di studio e le parole che accompagnao le sue immagini (quelle dell'autore, quelle dei critici e quelle di noi fruitori) raccontano questo travaglio, questo viaggio.
Un fotoamatore è certo in grado di produrre uno o più scatti pregevoli, ma laddove questi siano frutto di una "congiunzione casuale" e non "causale" non possono essere accostate alla progettualità di Sugimoto. Credo che Iovine volesse dire che pubblica Sugimoto e non un "fotoamatore qualsiasi" per il pensiero che sottende la sua opera. Basterebbe vedere le centinaia di studi di Picasso per ogni figura, dal cavallo al toro, che precedono "Guernica" per comprendere quanto grande possa essere la differenza tra un lavoro casuale e uno fortemente animato da un'idea.

Anonimo ha detto...

Claudia, il discorso della progettualità è davvero molto importante e lo condivido in pieno.

I miei dubbi, marginali a questa discussione e che non sono certo critici verso Sandro e le sue scelte, fanno parte di riflessioni che mi frullano in testa da un po' e che questo articolo ha richiamato alla mia attenzione. Cerco sempre di essere concisa nell'esprimermi e così spesso non mi spiego bene, o risulto asciutta e secca, è una pessima attitudine in rete, scusatemi.

Il fatto è che da tempo mi chiedo che ruolo abbiano i testi vicino alle immmagini. E mi chiedo se una foto (o un set, un progetto, quel che preferite) non debba arrivare in qualche modo direttamente allo spettatore. Mi chiedo in particolare se c'è un limite oltre il quale la parola non è più congruo accompagnamento delle immagini ma strumento di avvaloramento di qualcosa che di per sé non è significativo. Perché talvolta la narrazione è meglio dell'immagine, assurge letteratura o a poesia, e forse diventa autonoma e l'immagine superflua, in quanto non sufficiente a tradurre nel suo proprio linguaggio l'idea originaria.
Ci sono idee intraducibili in immagini?
E' un dubbio questo su cui rifletto, un tarlo. Non ho però certezze o presunzioni di conoscenza, per carità...

Anonimo ha detto...

certo dinanzi alle foto scattate nei cinematografi chiunque arriva a capire che c'e' stata una lunga posa che e' riuscita ad impressionare la pellicola ,ritraendo la sala buia con le poltrone e il tetto e il palcoscenico ecc. ma qualcuno deve pur dirmelo se era intenzione dell'autore proiettare sullo schermo luce bianca oppure lasciare aperto l'otturatore per tutta la durata di un film .la cosa concettualmente e' diversa.
e allora perche' fare tutta una serie di foto di cinematografi e non una sola. perche' riprendere mare e cielo in posti diversi creando un'altra serie, e perche' fotografare tutte le statue di cera e non solo ladi diana.
il discorso si fa completo nell'installazione, compimento personale dell'autore, chiusura del cerchio suo mentale ed emotivo, ma allo stesso tempo comunicativo.
forse il procedere di sugimoto non e' banale e teso soltanto alle mostre ed installazioni per mettersi in mostra :
le serie forse per lui acquistano senso, come espressione dei suoi percorsi interiori, a conclusione di un "errare" (nel senso di girovagare) alla ricerca puntuale di quello che e' stato il suo sentire. La quadratura del cerchio avviene allorche' sugimoto si trova davanti tutto il lavoro svolto e ne riordina i tasselli anche grazie ad una installazione.
Bisognerebbe parlare a lungo con una persona del suo stampo per acquisirne in pieno la sensibilita' e capire meglio. Proprio per permettere alla sua opera di costruire in noi ( belle parole di haku), di penetrarci appieno.

per claudia : a dimostrazione che le informazioni servono e che spesso se ne hanno di fuorvianti :
mi riferisco al fatto dei disegni preparatori per guernica : non e' andata cosi'!!! come anch'io nsapevo e credevo.
se leggete l'autobiografia di MAN RAY edita da SE vi rendete conto che la testimonianza di manray ci dice tutto l'opposto.
Picasso appena saputo della strage si infurio' e dipinse nel corso di piu' giorni Guernica, poi nella settimana successiva, non essendosi ancora sfogato, dipinse ogni tipo di supporto che gli capitasse a tiro, lasciandoci i tori e i cavalli che menziona Claudia. Guernica fu un'opera di getto, senza studi preparatori. e d'altro canto cio' concorda pienamente con il carattere di Picasso e con la sua maniera di operare.
La favola dei disegni preparatori e' stata propalata dai soliti critici e storici dell'arte, la maggior parte dei quali conosce le opere d'arte solo dalle foto sui libri di studio, critici che cretinescamente come sono cretini di solito ricostruiscono il passato secondo l'idea che solo loro se ne fanno.
oratore

Anonimo ha detto...

e poi : siamo tutti fuori tema, anche se la cosa, come tempo addietro fu scritto su questo blog, non e' deleteria bensi' foriera di approfondimenti e di conoscenza e di scambi di idee.
perche' dico fuori tema, perche' tutto e' nato dalla spiegazione da parte di Iovine di come egli intenda la costruzione di una cover story. Il soggetto non e' sugimoto, ma la cover story.
per rientrare in tema, la mia personalissima, polemica, costruttivamente provocatoria ma non ostile ne'denigratoria opinione e' che quella cover story sia scarna, che le sue motivazioni non rendono palesemente giustizia all'importanza della mostra, e in ogni caso che dalle immagini presentate e dal breve commento non possa evincersi tutto il significato della mostra stessa.
Bisogna integrare l'informazione con l'editoriale, con la sua estensione su questo blog, e infine andare a cercare altri commenti e informazioni sul lavoro di sugimoto.

sandroiovine ha detto...

Giusto Oratore!
Mi fa molto piacere che tu faccia questo tipo di osservazioni, perché uno degli obiettivi personali e non dichiarati era quello di arrivare ad ottenere integrazioni del genere, anche se certo non speravo di arrivarci così presto.
Quello che sto per dire non vuole essere una difesa ad oltranza del mio operato, però mi pare anche un po' improbabile che un articolo sveli tutto lo scibile su Sugimoto o su chiunque altro. Non eri soddisfatto e ti sei dovuto sobbrcare la lettura dell'editoriale e poi le ulteriori informazioni sul blog? Non ti è ancora bastato? Hai voluto andare a caccia su Internet? Bene!!! Mi rendi felice in questo modo! Spero che tu non sia stato l'unico, spero che tu possa trovare il tempo e il modo di andare a Villa Manin, spero che tu investa un po' di soldi in libri su Sugimoto. E, ripeto, spero che tu non il solo a fare tutto questo o parte di questo.
Io posso solo provare gettare qualche sasso nello stagno sperando che a qualcuno la piccola onda che si crea faccia venir voglia di qualcosa in più. Io sono abbastanza stanco della pappa scodellata che ricevo tuti i giorni dai vari strumenti di informazione. Caspita alziamoci un po' dalla sedia e andiamo a vedere il mondo con i nostri occhi.
Tutto questo per dire che non rifiuto la tuacritica solo che non riesco a considerarla tale, semmai l'avverto come un immeritato complimento. E perdonami se non riesco a sentrmi in colpa se spero di aver fatto venir voglia a qualcuno di imitarti.
:-)

Anonimo ha detto...

ma l'avevo detto sin dal mio primo commento da "anonimo". Non lasciarsi fuorviare dall'apparenza ma andare a cercare se vale la pena approfondire.
Il fatto e', forse, che c'e' una profonda differenza tra un commento che posso fare io, o meglio di me haku che ha visitato la mostra,e che ha una sensibilita' spiccata, e quello che deve fare il direttore di un giornale, che costruisce un servizio secondo scopi precisi: nel tuo caso rifuitando gli scodellamenti ma istigando a delinquere ( fotograficamente parlando).
e ti diro' che mentre pensavo di rispondere al tuo ultimo itervento, le tue parole relative al sasso nell'acqua mi hanno fatto ripensare alla risacca, quieta o turbolenta che torna e ritorna, sempre diversa e sempre la stessa, ma sempre in movimento. e mi chiedo a questo punto se ogni serie del nostro musettogiallo che pare che non ci colpa ma e' un bel figlio di sua mamma non sia come l'onda di risacca, l'immobilita' nel divenire, l'universale nel particolare, il macrocosmo nel microcosmo.
Comunque io la risposta che desideravo avere in questo ambito del blog l'ho avuta : esplicitamente Ezio, ma un po' tutti, a quanto pare, concordano che non e' importante chiedere come hai fatto una foto, ma perche' l'hai fatta.

Ultime notizie dall'ANSA : a Sugimoto fischiano le orecchie da un po' di giorni, si sente come osservato, comincia ad avere incubi notturni e diurni, dicono che sia fuggito in Tibet a meditare.....

Ezio Turus ha detto...

non e' importante chiedere come hai fatto una foto, ma perche' l'hai fatta.

mi pare anche un po' improbabile che un articolo sveli tutto lo scibile su Sugimoto o su chiunque altro.

Riprendo solo queste due frasi, che ritenevo scontate ma, evidentemente, non lo sono poi tanto.
Credo che un articolo debba essere solo l'aperitivo, debba lasciare curiosità, debba dare l'impressione che dietro ci sia ancora tanto da scoprire. Questo mi sono detto quando ho avuto l'onore di partecipare con i miei contributi alla redazione di Fotoit (tranquillo, Sandro, non siamo in concorrenza). Dovendomi documentare molto bene prima di affrontare qualunque argomento, mi rendo conto di quante cose NON si scrivono ma si vorrebbe condividere con i lettori. Questo blog permette anche questo ed è una base di partenza per sterminate ricerche personali, trasversali e controcorrente rispetto quanto ci viene propinato; è proprio la curiosità che stimola la voglia di conoscenza.
La curiosità dovrebbe stimolare sempre anche la prima domanda: Perchè?
Perchè sto scrivendo qui ora? Perchè fotografo il bidone delle immondizie e non la bella vicina di casa? Perchè faccio le foto tutte mosse e sfocate? Mi sono imposto già da anni di non (pre)occuparmi dei giudizi superficiali, delle giurie di concorso, delle mode e il tempo continua a darmi ragione.
Rispetto a questa mia visione egoistica, un direttore di giornale deve anche occuparsi dei gusti dei lettori, deve informare, ma molto spesso deve anche "formare", semprechè i lettori abbiano voglia autonoma di farlo, ovviamente.
Ezio Turus

Anonimo ha detto...

Allora:
Titolo (Come nasce una cover story)
Svolgimento, anzi dubbio...cosa è esattamente una cover story?
mhhhh....lo storico feticcio di linus?
nooooo!
Un modo di dire tipo: insabiare determinati argomenti inerenti un determinato periodo storico culturale ?
nooooooo!
allora mi tocca prendere tutti o almeno un pò di numeri della rivista Il fotografo, per comprendere cosa sia una cover story, allora, analisi primaria, Rivista Il Fotografo, si deduce sia inerente alla Fotografia percio gli elementi arricchiscono il mio sapere Cover, Story, Fotografia...detesto le inglesizzazioni, ma un pò anche gli italianismi, cosi decido di non tradurre cover story ed andò a tentoni, allora cover, magari......storia di copertina, percio la storia dell'immagine di copertina, ma da una veloce indagine la copertina e una e le storie sono molteplici, perciò diciamo storie di copertina, anche se la foto di copertina può coprire una sola storia,.
Partendo dall'analisi fatta fino ad ora, credo si possa con certezza dubitare delle mie facolta psichiche, ma sono io stesso a dubitarne, percò se a qualcuno fosse venuto un dubio, bhe...perdete ogni speranza o voi che mi leggete.
Allora tornando all'analisi, Il capo...ops... il direttore Iovine stimola cosi (come nasce una cover story?)
Ho letto, anche se non sembra, ed ho analizzato un po di coverstory degli ultimi anni, allora, credo che non si possa dire che le coverstory nascano in un solo modo, ho letto cover che nascopno da spunti formali e cover che invece partono da spunti filosofici, per non parlare delle cover che nascono da spunti mitologici o religiosi, nell'ultimo numero per esempio ci sono ben tre cover che non hanno nulla in comune se non la nobiltà o la sventurra di esser tutte archiviate e pubblicate sotto il titoletto di Coverstory, nessuna ha nulla in comune con l'altra, dalla presentazione fisica (Impaginazione) naturalmente ai contenuti, e non sembra vi siano link di alcuna sorta, tre realtà differenti, tre nazionalità differenti e tre modi di raccontarsi differenti.
Tra l'altro le tre cover sono raccontate da tre firme differenti, con tre stili differenti.
Allora, analizzo velocemente le tre storie in keywords (Sugimoto Hiroshi - Bianconero, teatro chiaroscuro, ritratti, reali, cera luci morbide classiche, fondo nero se dovessi dire la mia pose stereotipe, luce stereotipa, esseri umani stereotipi, paesaggio cielo-mare ne feci una simile una 20ina di anni fa, e sapevo già che qualcuno ne aveva fatta una simile una 20na di anni prima.)
Buona la composizione poca la fantasia, minimo il potere evocativo tutto sommato se lavorasse un pò di più su quello che non vede magari riuscirebbe a far passare qualcosa di più.
(Karl H. Warkentin - Il nome e un po lungo difficile da pronunciare, ama il blu e le donne, molti amano il blu e le donne poi meglio se igniude, effetto acqua mossa sul corpo, pose pseudoprovocanti e labbra della modella molto evidenti un po troppo (le labbra della bocca naturalmente) oserei dire che a casa avro una dozina di riviste con foto altrettanto banali ed ancora una volta stereotipe, la ricerca non sta certamente nel presentare pose viste e riviste in blu, se è cosi.....siamo messi bene a creatività)
Il ragazzo si farà, o forse per migliorare, si dovebbe fare.....satira a buon mercato a parte.
non è particolarmente nuovo come lavoro, un pò stantio ed il blu, e veramente blu, non che io abbia qualcosa verso il blu, ma se basta una mano di blu per cambiare, potremmo dare una mano di blu a buona parte dei nostri Politici, cosi' avremmo almeno l'impressione che siano diversi da quelli di 20 o di 30 anni fa.
(Andrew Polushkin anche lui con il nome poteva far qualcosa cavolo nell'era dei nik name poteva chiamarsi...che so... black panther o red devil, comunque il suo lavoro e palesemente intriso di se stesso, cosa che non è male un pò falsato e falso causa manipolazione estrema e violenta, ma almeno a provato a raccontare qualcosa, a mio avviso riuscendoci solo con l'immagine del gattone nero, probabilmente la più banale, ma certamente la meno responsabile di violenza argentea, comunque l'uomo venuto dal grande freddo ha sprazzi di novità e merita un'altra chance se mai qualcuno gliela darà (la chance naturalmente).
Per lui posso parlare di una buona organizzazione di un progetto a monte forse un po più arduo da scalare delle sue effettive possibilità, ma posso dire che se provasse ad essere un po più onesto con le sue immagini, magari riuscirebbe ad essere un pò più comunicativo.
credo di aver criticato un pò troppo, ma il guest mi diverte e molto stimolante scrivono tutte persone che parlano bene, ed io non posso che imparare.
Ps. scusate gli errori eventuali, ma ho scritto troppo e non rileggerò ,mai le cavolate che ho detto di getto.