venerdì 10 agosto 2007

Professione etica?


Nel sito SCRIVERE CON LA LUCE Michele Trecate prende spunto dal post two-exclamation-point limit pubblicato da Alec Soth nel suo blog per porsi alcune domande sul fotogiornalismo nei nostri giorni. Pur rimandando alla lettura del post originale di Soth, riassumo per comodità il senso dell'intervento da cui è partito Michele Trecate per le sue riflessioni. Soth racconta che era a passeggio con suo figlio quando un passante gli ha riferito del crollo de River Bridge. Il suo primo pensiero è stato quello di chiamare la moglie, il secondo immediatamente dopo è stato relativo alla possibilità di scattare delle immagini. Poi la riflessione sul fatto che le televisioni avevano già fatto alzare i propri elicotteri, i fotografi di cronaca erano già senz'altro sul luogo del disastro e se non fosse bastato centinaia o migliaia di telefonini di comuni cittadini erano già impazziti intorno ai resti del ponte. Da cui una domanda fondamentale: che contributo avrebbe potuto dare? Cosa avrebbe potuto aggiungere oltre a camuffarsi da fotografo serio e far guadagnare denaro a Magnum? A questo segue la citazione di un articolo del Photo District News dedicato all'efficienza dell'agenzia Zuma Press.

Tornando al post di Michele Trecate, questi si chiede se Robert Capa avrebbe fatto la stessa scelta di Alec Soth di non andare a fotografare, concludendo che i tempi sono cambiati e lasciano chiaramente intendere che il progresso della tecnologia ha trasformato il mercato e l'utenza per i fotografi. Se ai tempi di Capa l'intervento del fotografo costituiva una testimonianza insuperabile per la sua vividezza, oggi come oggi ci sono molti modi per trarre informazioni più o meno filtrate od originali. Da cui si dovrebbe trarre la conclusione che il ruolo del fotografo professionista è come minimo cambiato, quantomeno con riferimento alla cronaca, che in qualche modo viene coperta da comuni cittadini.
Al di là del fatto che l'osservazione sia più o meno condivisibile, credo sia il caso di focalizzare la nostra attenzione non tanto sulla constatazione del dato di fatto, quanto sul significato e sulle conseguenze di tutto ciò. Il ruolo del fotogiornalista dovrebbe essere quello di farsi tramite di un processo informativo relativo ad un determinato evento. È chiaro che non si vuole discutere dell'impossibile oggettività del giornalista, ma del suo impegno professionale che costituisce il territorio di discriminazione tra l’informazione e il rumore informativo se mi si concede questa terminologia. Alla base del fare informazione ci sono infatti una serie di regole di natura tecnica ed etica che sono state concepite per assicurare il maggior controllo possibile alla qualità dell'informazione stessa. Regole che non si può pretendere vengano rispettate dal comune cittadino. Certo il giornalista che decide di fare uso del lavoro di questo tipo di corrispondenti estemporanei dovrebbe farsi carico di tutta quella serie di procedure, a partire dall'indispensabile controllo delle fonti, che trasformano un contributo in contenuto giornalistico. Ma quanto grande è il rischio che ciò non avvenga? E come è possibile pensare di tenere sotto controllo la veicolazione di contenuti informativi attraverso strumenti di diffusione come ad esempio questo blog? Il problema non è davvero di facile e forse nemmeno possibile risoluzione. E a mio avviso dovrebbe sgomentare la dimensione etica che dietro ad esso si pone. Una dimensione etica che la logica del lavoro porta spesso ad annullare. Per il giornalista una tragedia come quella citata da Soth, non è altro che una possibile occasione per esercitare la propria professione. Che poi questo significhi in qualche modo speculare sulla sofferenza altrui, è cosa di cui pochi tengono conto. Nessuno pretende che i fotogiornalisti siano dei santi votati al martirio. Il loro lavoro prevede che siano presenti per documentare quello che accade qualsiasi cosa sia. E non penso certo di criticarli per questo. Mi pare però che a volte i fatti della vita e della cronaca dovrebbero portare a scegliere se essere professionisti o esseri umani. La domanda di Soth, cosa posso aggiungere io? mi fa sperare che esista questa linea di discrimine da qualche parte nella coscienza di questi professionisti e di chi ne valuta e utilizza il lavoro. Di fatto molte testimonianze non depongono in questa direzione. Lo stile letterario secco di Soth, non dà certezze in questo senso, al massimo speranze alimentate dalla citazione di un trafiletto di PDN sul lancio di Zuma Press relativo alla tragedia del ponte di Minneapolis. Questo lancio val bene una citazione: «EXCLUSIVE IMAGE! Freeway bridge collapses into Mississippi River during rush hour in Minneapolis, with at least six people are dead, dozens more are injured, some critically. The Interstate 35 bridge, under repair between St. Paul and Minneapolis, breaks into several huge sections and falls into the water with vehicles. An estimated 50 vehicles plunged into the water and onto the land below. RESTRICTIONS: USA Tabloid RIGHTS OUT! Mags and TV Call 949.481.3747 For Price !!» e non credo si possa risolvere con una sia pur amara considerazione del redattore di PDN sul numero di punti esclamativi da utilizzare per mantenere un minimo di decoro. Se per vendere delle fotografie si devono utilizzare il numero di morti alla stregua delle candidature all'oscar nel trailer di un film, allora vuol dire che l'informazione ha davvero perso il senso dell'etica. Del resto una semplice occhiata ai giornali non mi pare che smentisca quest'impressione.



Un'immagine delle conseguenze del crollo del ponte di Minneapolis dalla home page del sito di Zuma Press. Foto di Jerry Holt/Minneapolis Star/Zuma Press.





5 commenti:

diego ha detto...

é veramente possibile oggi, scegliere di "essere umani" decidendo di non fotogarfare un fatto quando si lavora per agenzie o giornali?
forse questo è un lusso che si possono permettere solo pochi fotografi,magari quelli che già si sono fatti un nome nel fotogiornalismo!Non è forse un problema di che richiede e decide di pubblicare certe foto a rendere "affamato" il fotografo?

sandroiovine ha detto...

Con la benedizione delle divinità minori dell'Olimpio keynesiano, possiamo affermare in modo ragionevolmente certo che l'equilibrio del mercato è dato dal punto di incontro della curva della domanda con quella dell'offerta. Il che evidentemente responsabilizza i fruitori delle immagini, ma non per questo deresponsabilizza chi le immagini le produce e, ovviamente, chi le utilizza. Rimango convinto che la differenza tra un ottuso esecutore inconsapevole delle proprie azioni e un essere umano che compie la stessa attività, passi proprio attraverso la capacità di sviluppare scelte etiche essendo disposto a pagarne le conseguenze ancorché queste risultino onerose. Senza contare che esiste una terza e ben più pericolosa categoria di soggetti che, perfettamente coscienti del valore etico di ciò che fanno, speculano con piena lucidità sulla sofferenza altrui giustificandosi con le esigenze del mercato. Scegliere di essere umani è possibile oggi come lo era ieri e il prezzo da pagare è elevato oggi come lo era ieri.

Anonimo ha detto...

Diego… di cosa stiamo parlando? Quando ho letto il nuovo posto di Iovine mi sono detta: affascinante questione, ma ha senso porsela, è ovvio che un fotografo debba essere un testimone al servizio poi ho letto il tuo post e la mia prima reazione è stata che fosse una provocazione retorica, un esercizio di stile, ma non è così vero? Tu peni che un fotografo “affamato” debba saziarsi a qualsiasi costo, tanto più che a pagare non sarà lui? Di cosa stiamo parlando? Di soldi, di fama, del diventare riconoscibili? Sulla vita e il dolore dell’altro? Ma ti sei fermato a pensare che se questo è il pensiero che anima coloro che iniziano questa professione allora tutto è perduto, gli altri non sono mezzi per vedere il tuo nome sul giornale, ma fini, scopi verso cui muoversi. Non penso ai fotografi e ai giornalisti professionisti come sanguisughe, ma come testimoni e soggetti “etici” per rubare un termine a Iovine. Chi produce e diffonde informazione “deve” sentirsi investito anche di un ruolo educativo, perché ciò che mostra e il modo in cui lo mostra fa la differenza e imprime una direzione nel pensiero di chi lo guarda… se qualcuno con una fotocamera in mano desidera solo emergere, solo soldi e fama preferisco pensare che se la punti addosso e decida di vendere se stesso senza veli piuttosto che la diriga verso “il dolore degli altri”… scommetto che in tv avrebbe comunque più fortuna.

Anonimo ha detto...

Il problema, secondo me, è il confine: di quanto è stato "spostato" il significato di eticità in questo ambito lavorativo? Quanti in questa professione, nelle interviste, nelle introduzioni dei libri o nelle mostre, si vantano tra le righe di avere avuto un comportamento sempre rispettoso delle sofferenze altrui, di svolgere comunque un compito doloroso ma fondamentale per l'umanità, e poi guardi le immagini che divulgano e ti viene la pelle d'oca?? Questo contrasto è sicuramente il male peggiore, confonde le persone che guardano distrattamente, ma abituano ad un "collegamento", diseducando molto più della foto del disastro "urlata" e corredata dal prezzo, che, proprio perché così spudorata , può a volte urtare i più sensibili. In questo modo il campo semantico di ciò che è etico si allarga e anche cose decisamente meschine, a furia di etichettarle come etiche passano come tali...e noi, seguendo l'illusione di trovarci di fronte a degli "educatori" perdiamo qualcosa in più del reale valore di una foto "necessaria"...

rjieka.

:: haku :: ha detto...

W. E. Smith:
«Il giornalismo fotografico, per via del pubblico enorme raggiunto dalle pubblicazioni che lo usano, ha più influenza sul modo di ragionare e sull'opinione pubblica, di ogni altro settore della fotografia. Per queste ragioni è importante che il foto-giornalista abbia (oltre alla padronanza indispensabile dei suoi strumenti) un forte senso dell'integrità e l'intelligenza per capire, e quindi presentare [in questo caso potremmo aggiungere: o non presentare], il suo soggetto.» 1948.
[tra parentesi quadre una mia aggiunta]

Robert Frank:
«C'è una sola cosa che una fotografia deve contenere: l'umanità della situazione.» 1961.
«La produzione di massa di fotogiornalismo senza ispirazione e fotografia senza idee diviene mercanzia anonima. L'aria diviene infetta di un puzzo di fotografia.» 1958.

N.B.
Le citazioni sono tratte da Fotografi sulla fotografia, libro citato da Sandro Iovine in questo blog, nel post Usate la verità come pregiudizio a cui rimando non solo per gli estremi ma anche per il brano di W. E. Smith che vi era riportato.