lunedì 25 febbraio 2008

Dalla memoria all’oblio


La fotografia è davvero memoria? Sarebbe forse più giusto chiedersi se si tratta di una memoria collettiva o personale. Nella fruizione più comune si tratta di qualcosa che attinge profondamente alla storia dei singoli individui e assolve alla funzione di regalare loro la possibilità illudersi di bloccare il tempo. È il tipico caso delle foto ricordo che consentono di vincere la corsa contro il tempo, arrestandolo e riportandolo indietro ogni volta che che lo si desideri semplicemente con uno sguardo su una fotografia. Si tratta di una condizione individuale, condivisa da un numero limitato di persone che siano in possesso della stessa esperienza relativamente all’oggetto-soggetto dell’immagine fotografica. Il discorso però si allarga quando dalla fruizione personale si passa a una di massa, dove l’immagine fotografica può in effetti riuscire a trasmettere dei valori che esulano dal personale. In questi casi però l’immagine fotografica o meno che sia deve riuscire a comprendere in sé una serie di valenze che ne permettano una condivisione che vada al di là dell’appartenenza ad un gruppo ristretto. È il caso di alcune immagini che si sono trasformate in icone in quanto riuscivano a raccogliere al loro interno una serie di valori che potevano essere considerati comuni da una platea vasta. Di fatto nella pratica quotidiana dell’utilizzo della fotografia, i valori universali, quelli che ogni essere umano si porta dentro indipendentemente dalla propria formazione culturale, sono quelli dei sentimenti profondi, primo fra tutti la sofferenza spesso connessa all’angoscia per la morte. Non a caso le immagini fotografiche che più spesso vediamo nella vita di tutti i giorni, quelle connesse alla documentazione fotogiornalistica, sono fin troppo spesso legate proprio a questo tipo di tematiche. L’abuso di queste ha poi prodotto una, spesso politicamente strumentale, anestetizzazione della sensibilità individuale e collettiva nei confronti proprio di immagini che rappresentano i momenti più vivi e intensi dell’esistere umano. Si assiste così sempre più spesso al paradosso di fotografie che, nate per affondare nell’essenza stessa dell’uomo finiscono per produrre il distacco dell’individuo da quanto più profondamente lo esprime e descrive. E da un gesto di memoria finisce per generarsi oblio. Ma non è una responsabilità delle immagini, è una responsabilità di chi ne fa uso condizionandone sia la fruizione sia la produzione.
n.191 - marzo 2008




Compatibilmente con i tempi redazionali, i commenti più interessanti a questo post potranno essere pubblicati all'interno della rubrica FOTOGRAFIA: PARLIAMONE! nel numero di aprile de IL FOTOGRAFO.



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26 commenti:

Unknown ha detto...

Prendo spunto dall'ultima frase per ricordare come la fotografia possa cambiare quando il soggetto è il fotografo, non ciò che si riprende. Questo è fondamentale per cominciare ad imparare a vedere fotograficamente e ad usare in modo accorto il mezzo fotografico, sintonizzare finemente il canale comunicativo.
Troppo spesso ci si accorge che c'è una strumentalizzazione della fotografia, soprattutto quando sottende a necessità commerciali o politiche (che è poi la stessa cosa).
Nel processo evolutivo di un fotografo c'è un momento di passaggio che gli permette di divenire oltreché imparare, un attimo ispirativo che porta al salto di qualità. A questo comunque deve precedere, al di là della preparazione tecnica, un percorso di formazione e di crescita culturale, supportato principalmente da una forza di volontà e determinazione a riuscire, non solo a tentare.
Ecco così che tutto prende una Luce diversa... e si ritorna sul discorso dell'Energia, che bello!

Marco

Anonimo ha detto...

Credo si debbano distinguere due punti:
1) Certamente c'è il rischio reale che certe foto da memoria diventino oblio, e pur tuttavia è nostro dovere (di fotografi) scattare quello che vediamo, possibilmente senza preconcetti, bensì solo per alzare una bandierina: "Qui c'è qualcosa che merita di essere visto, quindi CONOSCIUTO"; alla fine credo che oblio o memoria dipendano molto anche da chi riceve (vede) la foto una volta pubblicata. Conosco personalmente molte persone che si emozionano tantissimo davanti a un bambino appena nato, uno dei LORO, ma se questo bambino è per es. di colore o in qualche paese africano / asiatico e magari sta morendo, la foto resta davvero lettera morta. "E' problema di altri, io ne ho già altri qui" è la filosofia di fondo. Lì più che la foto che diventa oblio c'è una coscienza molto piccola, ritagliata sul proprio paese e nulla più, incapace di vedere di più lontano, foto o filmato che sia.
2) Non sono certo che si riferisse a questo, tuttavia foto come quella dell'uomo di fronte al carro armato in Piazza Tien An Men sono certamente più significative di fronte a quelle personali di ognuno di noi, però nel tempo, l'insieme di molte foto di molte individualità danno uno spaccato molto preciso del tempo in cui si vive. Recentemente, la mia azienda ha chiesto ai propri dipendenti di contribuire per i primi 80 anni di servizio in Italia. Ognuno ha mandato quello che aveva in proposito: foto e scritti che hanno poco di "epico", molto spesso è la classica "foto ricordo" fatta con i colleghi dopo una giornata di lavoro. Ma anche la montagna più grande è fatta di rocce, e ogni roccia è, in sintesi, un'infinità di granelli di sabbia. Perdendo quelli, non si arriva a fare nè la roccia nè la montagna. Inoltre, quanti paesi, compreso il mio, ha fatto una raccolta anche sugli anziani e sulle radici del paese.. Cinquanta o cent'anni fa,a mio avviso, si facevano assai meno foto, e perlopiù erano foto di famiglia fatte dal fotografo di turno o di reportage (ma sempre di vita vissuta, semplice) però attraverso quelle foto noi abbiamo la possibilità di riscoprire radici profonde o meno; la stessa cosa accadrà con quelle scattate ora tra cinquant'anni. Non sarà la singola foto, ma le tante singole foto che ricostruiranno un'epoca attraverso le piccole cose.

Anonimo ha detto...

Credo sinceramente che le immagini ricordo, quelle tipo album di famiglia, non esistano più.
Fagocitate da una produzione nevrotica e bestiale, riversate su cd e dvd,immagazzinate in hard disk obesi non solo nelle intenzioni, ma anche nella forma.
In una sorta di eterogenesi dei fini,l'era digitale ha finito per trasformare una macchina in grado di fermare il tempo in una sua appendice elettronica,in grado di registrarlo attraverso milioni di pixel gratuiti come una radiosveglia attraverso i cristalli liquidi.Depredando il valore di una immagine ,costituito dall'unicità di un'istante fermato per sempre, spalmando un'emozione in centinaia di scatti e quindi diluendone la forza e il significato, fino a cancellarlo.
Come fa il tempo.
Solo un vero nemico,oggi, ci inviterebbe a guardare le fotografie di famiglia.Dopo le prime 5000 immagini,la faccina del piccolo Paolino ancora lattante ci costringerebbe a simulare-ma nemmeno tanto-una colica renale.
Poche illusioni:l'overdose di immagini-buone o cattive-non può che togliere respiro alla fotografia. Che pure sopravviverà, o almeno si spera,in virtù di una sua capacità di costituire a volte, molto più che ricordo, testimonianza di un evento, di una condizione,esattamente come la letteratura sopravvive a tonnellate di spazzatura e il giornalismo a milioni di giornali e giornalisti.

Anonimo ha detto...

Un'altra cosa, ben più pressante, mi è venuta in mente.. Il digitale spinge CHIUNQUE a fotografare, senza avere il minimo senso di quello che fa, ancor prima di un senso estetico. L'ultimo commento mi ha proprio richiamato alla mente un vicino di casa che mi avrà fatto scaricare dalla sua compattina circa 1200 foto nel giro di due mesi scarsi del suo pupo appena nato. La cosa tragica è (era, fortunatamente, visto che è tornato nella natìa Sicilia) che ogni volta mi chiedeva di metterci anche quelle delle volte prima.. Il problema è proprio questo, se da una parte, per il professionista, il digitale è certamente un grandissimo aiuto, per il neofita/padre di famiglia diventa un'arma impropria.. Lì sì che la memoria diventa oblìo, nel momento in cui si scatta senza una ragione ben precisa. Se ha senso prendere una o più foto di una certa situazione (es. compleanno o festa in famiglia), come si è sempre fatto, la cosa perde ogni suo valore nel momento in cui da 1, 5, 10 foto, il "fotografo" ne scatta 50, 100, 200 tutte uguali o quasi, manco se fosse a una parata militare o a una grossa manifestazione pubblica..

Unknown ha detto...

Mi associo ai due post precedenti per sottolineare come si stia interpretando ormai solo quantitativamente il discorso fotografico. L'utente medio, chiamiamolo così, non ha - e non aveva già prima - una cultura fotografica volta alla qualità, al significato autentico dello scatto-ricordo.
Credo che ormai l'equivoco sia irrimediabilmente ed irrevocabilmente assimilato dai più, ahimè, ignoranti premitori di pulsanti di scatto i quali, un tempo, portavano a casa un mezzo rullino da 24 pose e forse lo finivano nelle ferie dell'anno dopo.
Oggi invece tornano a casa con una memory card da 2 Gb piena e scaricano sul pc roba che non avranno neppure voglia di vedere. Il problema oggi è più che mai urgente e discusso ovunque, ci stiamo trasformando in produttori di spazzatura, anche quella fotografica, non c'è più la mentalità di fare poche cose ben fatte, la quantità e l'opulenza in genere sono spersonalizzanti e distruttive.
Personalmente continuo a fotografare come sempre ho fatto, cerco di portare a casa qualche scatto che abbia qualcosa da dire, ma faccio una gran fatica a sopportare i luoghi comuni e l'ignoranza dilagante.

Unknown ha detto...

Per me la fotografia non è solo memoria, collettiva o individuale del passato, ma spesso è memoria del futuro. Certe immagini evocano qualcosa che non ho vissuto, ma che vorrei vivere nel prosieguo della mia vita, come sogni che speriamo di fare. Lo stimolo visivo coglie il passato come esperienza e confronto tra ciò che è stato per me e ciò che rappresenta la foto, però la mia mente non si ferma a questo, mi porta spesso a voler essere lì dove la foto si è fatta e ancora si fa, per vivere quella situazione e prevederne altre.

Andrea

Anonimo ha detto...

Stiamo travisando il problema di fondo, stiamo andando fuori tema.
Non dobbiamo ragionare solo come fotografi, dilettanti o impegnati, commercialmente introdotti e operanti o meno. Non dobbiamo distinguere tra il vicino di casa che spara moltissime immagini e noi che cerchiamo di scattare solo dopo aver riflettuto ecc ecc.
Il problema non e’ solo far capire al vicino di casa che sta producendo spazzatura dentro il suo computer, non vedo perche’ a tutti i costi dobbiamo spiegargli che si scatta dopo aver riflettuto ecc ecc
Sia il vicino di casa che noi tutti subiamo il bombardamento di immagini, forse noi siamo coscienti delle conseguenze e gli altri no. Se l’esposizione continua alle foto che testimoniano una bruttura sociale e morale causano oblio, se ci anestetizzano e ci procurano assuefazione, non per questo il solo saperlo risolve i problemi del mondo.
Per evitare questa anestetizzazione possiamo pretendere una legge che permetta di vedere i morti ammazzati , sui giornali e alla tv, solo una volta ogni due mesi : saremmo allora piu’ sensibili, e faremmo qualcosa per fermare le guerre e sfamare i morti di fame? Non credo.
Ancora : se io mi metto un laccio emostatico, sciolgo nel cucchiaino la pillolina, aspiro in siringa e mi buco : la colpa e’ dello spacciatore e dei trafficanti? Solo colpa loro?
E’ facile dare colpa al mercato delle immagini. Il fatto e’ che ce ne freghiamo del mondo, tuttalpiu’ chi puo’ fa un reportage e lo sbandiera come manifestazione politicamente corretta di fotografia sociale.
Ma di costruttivo non si fa nulla.
Perche’ dovrebbe essere la sensibilita’ individuale a non tollerare l’anestesia. Una o mille immagini di bambini emaciati hanno lo stesso peso nel determinare la nostra indignazione, perche’ visto il primo bambino l’indignazione deve partire subito, e poi la protesta civile, l’attivismo, l’impegno e cosi’ via. Non prendiamo come alibi l’assuefazione alle immagini. Ognuno la mattina va a lavorare per fare la spesa e pagare benzina e bollette, e al massimo spera che associazioni umanitarie si occupino dei problemi del mondo.
In un mondo oltre lo specchio di Alice sarebbe diverso.

Per qunto riguarda poi l’ambito strettamente fotografico, dobbiamo riconoscere che l’abitudine di scattare tante foto non e’ solo una conseguenza del digitale con la sua facilita’ di immagazzinarle a poco prezzo.
In proporzioni decisamente diverse, anche ai primordi della fotografia i clienti degli atelier richiedevano piu’ di una posa, la consuetudine prese piede col passaggio dalle copie uniche ( dagherrotipo ambrotipo e ferrotipo ) al metodo della riproduzione meccanica ( collodio secco, albumina), e molti si facevano ritrarre in varie pose. Questo perche’ la fotografia ha fornito all’umanita’ la possibilita’ di catalogare, inventariare tutto il possibile, per averlo sottomano, gestirlo, quasi un atto di possesso, quindi anche l’immagine di se stessi e dei propri figli, oltre alle opere d’arte, i monumenti.
Chi ha nel pc migliaiua di scatti dei figlioletti o nipotini non e’ un cretino, tiene potenzialmente sottomano un periodo piu’ o meno esteso della sua esistenza, vuole essere sicuro di tenere il tempo e le cose sotto controllo : perche’ oggi tutto viene a galla, come i cadaveri putrefatti dei due bambini trovati in fondo al pozzo. Da questo punto di vista solo i cadaveri sciolti nell’acido dalla mafia siciliana non lasciavano traccia, e il paragone non e’ peregrino o ad effetto : nel senso che si cancella cio’ che si vuole fare scomparire per sempre,senza lasciare traccia. come nelle nostre menti rifiutiamo la consistenza della realta’ nascondendoci dietro l’assuefazione alle immagini di guerra, di morte, di fame.
Quel vicino di casa non fotografa a fini espressivi, fotografa e basta e non vedo perche’ glielo dobbiamo impedire o dobbiamo denigrarlo.
Chi invece usa la fotografia come tecnica preceduta da una Idea, agisce diversamente, ma mi pare difficile che con una fotografia piu’ consapevole possa cambiare le cose, se per veicolare le sue idee deve fare sempre i conti con i sistemi di diffusione delle immagini.
Certo fotografie come quelle che fa Andrew Lichtenstein parlano una lingua facile, quella dei “sentimenti profondi” come dice Iovine; ma non possiamo prendere il vicino di casa e quelli come lui per la collottola e costringerli a capire.
Le cose si cambiano nella testa, e’ il modo di sentire la vita e il mondo che comanda, non l’imitazione di uno stile.

Anonimo ha detto...

La fotografia è tutta memoria, e tutta collettiva. Anche quelle classificate come foto ricordo, dopo un lasso di tempo ragionevole diventano specchio del tempo e si trasformano da soggetto personale a collettivo. Nei primi anni Novanta, insiemi ad alcuni amici organizzammo una mostra fotografica dal titolo: "Album di famiglia, ritratto di un'epoca attraverso le foto di un atelier fotografico di provincia". Esponemmo le foto realizzate in studio dai primi anni Cinquanta alla prima metà dei Sessanta. Tutte rigorosamente in bianconero e tutte stampate in quel periodo. Si poteva vedere l'evoluzione della tecnica fotografica (tipo di carta, cornici a rilievo o taglio particolare) ma soprattutto si vedeva l'evoluzione sociale e dei costumi. Queste foto, realizzate durante i giorni di festa da "private" diventarono memoria collettiva, coinvolgendo sia gli addetti ai lavori che persone comuni di tutte le età.

:: haku :: ha detto...

È il tipico caso delle foto ricordo che consentono di vincere la corsa contro il tempo, arrestandolo e riportandolo indietro ogni volta che lo si desideri semplicemente con uno sguardo su una fotografia. Si tratta di una condizione individuale, condivisa da un numero limitato di persone che siano in possesso della stessa esperienza relativamente all’oggetto-soggetto dell’immagine fotografica.

«Quando ero ragazzo la mia famiglia dava grande importanza alle nostre foto ricordo. Le pianificavamo, ne facevamo la regia. Ci vestivamo bene, posavamo davanti a macchine costose, a case che non ci appartenevano, prendevamo in prestito cani. Di recente ho contato undici cani diversi presi in prestito per le fotografie di un solo anno nel nostro album di famiglia. Ed eravamo, invariabilmente sorridenti. Tutte le nostre foto di famiglia erano costruite in qualche modo come un'enorme bugia su ciò che eravamo. Ma rivelavano la verità su ciò che avremmo voluto essere.» Richard Avedon
citato da Ferdinando Scianna, Obiettivo ambiguo, libro già segnalato da Sandro Iovine in un altro post.

Mi chiedo di cosa sia memoria una fotografia...
di una finzione o di una realtà?, ma soprattutto mi chiedo cosa accada quando la memoria della finzione (e dell'esperienza dell'oggetto-soggetto fotografato) venga smarrita...

Anonimo ha detto...

L’analisi dei commenti finora registrati evidenzia come ognuno segua linee di pensiero differenti, proprio perche’ l’articolo di Iovine pone interrogativi diversi, e ruotando attorno al concetto di memoria , tortuosamente traccia le diverse sfumature di cui puo’ tingersi il lemma : memoria.
Alla fine non si capisce, non capisco io, a cosa vuole che si dia risposta o commento.
Sandro lo fa spesso questo scherzetto, quando non si riferisce a immagini precise ma fa un discorso concettuale: finiremo per dar ragione a ingSalvati, che ci vede come torri di babele.
Tornando a noi, le linee di pensiero scelte sono le seguenti :
1- Fotografia come memoria personale e familiare : c’e’gente che usa la fotocamera per produrre grandi quantita’ di immagini, che avra’ difficolta’ a selezionare non imparando quindi mai a essere bravo fotografo o fotografo bravino. D’altro canto questo genere di persone non si azzarda a cestinare, e siccome o scarrafone e’ bello ecc ecc si tiene tutte le riprese che riguardano il figlioletto, il nipotino, la fidanzata e cosi’ via. Al contrario per essere bravi o bravini fotografi bisogna scattare a ragion veduta ecc ecc.
2- Fotografia come memoria collettiva, sociale e storica : la massa di immagini che subiamo ci provoca anestetizzazione, e cosi’ quelle immagini che potrebbero valere da denuncia cadono nell’oblio e non ottengono il risultato dovuto; cio’ anche a causa di fotoreporter cinici che sbattono il cadavere in prima pagina per fare scalpore, vincere premi ecc. Invece il fotoreporter etico cerca di evitare tutto cio’, producendo immagini che non siano raccapriccianti, fine a se stesse, ecc ecc.
3- Fotografia come memoria ad usufrutto dei posteri, con valenza civile, e degli storici con valebza sociale : la fotografia e’ sempre prodotta per la memoria, perche’ si eserciti questa memoria non solo verso il passato ma anche verso il presente e quindi il futuro.
4- Corollario del primo punto : l’ambiguita’ della fotografia, perche’ il referente reale, cioe’ la situazione o il personaggio fotografati non ci dicono piu’ niente quando non esistano piu’ tracce ( verbali, orali o scritte, o mnemoniche ) a loro relative.

chi e’ il bambino accanto alla trisavola zzi Pippina, figlio o nipote ? ma lei si sposo’ mai? – non c’e’ piu’ nessuno degli anziani di famiglia a cui domandare, l’album di famiglia diventa solo una memoria della moda, delle acconciature, degli arredamenti di un tempo. Non solo questo : una immagine non da albumdifamiglia, ma per es. relativa ai lavori di scavo per una grande opera architettonica o di ingegneria urbana, se non e’ corredata dai dati relativi resta lettera morta per i posteri e pure per gli alieni che verranno sulla Terra, c’e’ poco da fare.

5- secondo corollario riferentesi all’esperienza raccontata da Avedon e riportata da Scianna : la fotografia in posa era una finzione, il fotografo dell’atelier cercava di indovinare quale fosse l’immagine di se’ che il committente, il cliente, volesse vedere rappresentata. Quindi la memoria e' memoria di una finzione e non di una realta'.

Pero’ tale finzione, che oggi possiamo intravvedere in una o piu’ cartes de visite dell’800, quasi sempre si smaschera, perche’ e’ evidente, e’ tutto un teatro, e in questo senso vince sempre la memoria perche’ riusciamo ad appurare almeno quale immagine di se’ ognuno volesse fermare nel tempo.
Diverso il caso della fotografia adoperata dagli storici come strumento della loro ricerca : la memoria in questo caso non si ferma al referente dell’immagine, ma va a scovare negli archivi, all’anagrafe, nelle biblioteche, tutti quei riferimenti ai personaggi che spiegano la loro collocazione in quel fotogramma rispetto avvenimenti precisi.

Rispondo all’ acuto quesito di haku dicendo che secondo me la memoria a breve o lungo termine non e’ importante, e che non mi interessa nulla dei posteri, nel senso che non ho alcuna presunzione di saper lasciare alcunche’ per i posteri. L’’importante e’ conservare memoria, cioe’ avere prima chiaro in testa e poi non dimenticarlo, perche’ si e’ voluto fotografare questo o quello, il tramonto o la fidanzata, un’immagine concettuale o simbolica : una memoria solo nostra, ricordare sempre cio’ che si ha in mente, scattare in ossequio a queste certezze. Si fotografera’ bene o male, si verra’ capiti o no, puo’ essere che siamo nel giusto o nell’errore, ma e’ importante ricordare la nostra linea guida di pensiero e azione, memoria essenziale per poter eventualmente cambiare nella testa.

Anonimo ha detto...

Era necessario disporre di una scaletta,che chiarisse finalmente di che stiamo parlando.

Anonimo ha detto...

Hai ragione Ugo, serviva proprio qualcuno come Oratore che mettesse ordine nei pensieri degli altri, oltre che a sproloquiare con post lunghissimi le proprie idee incomprensibili.

Anonimo ha detto...

L'uomo non diviene insensibile,l'uomo nasce insensibile.
In pace, così come in guerra, egli tende a occuparsi delle bollette e della benzina,di fatto riservando al quotidiano,benchè costituito di
povere incombenze,gran parte delle sue energie psichiche.Per fortuna:diversamente un omicidio metterebbe in ginocchio un paese.
E' molto più complicato sensibilizzare l'uomo:creare una sorta di transfert tra lui e il prossimo, un aggancio emotivo,un'immagine intimamente
devastante che lo costringa a superare l'indifferenza di cui è stato, opportunamente, dotato.
In questo sono d'accordo con molti di voi:un corpo smembrato può indurre disgusto, terrore,o indifferenza.Tutte emozioni che tendiamo a rimuovere.Esistono però dei simboli, dei temi che possono agire da ponte tra gli individui, per quanto lontani e diversi:l'abbandono, la miseria,la vecchiaia,la solitudine,il lutto.Così come, ovviamente,la felicità etc.
Penso che il fotogiornalismo sia fatto di tanti aspetti.Della testimonianza, e allora è giusto mostrare i cadaveri:io informo tutti voi, che siete lontani,che qui si stanno massacrando.Comportatevi come preferite:non potrete dire che non lo sapevate.
Oppure dell'informazione tesa alla costruzione di un'opinione:in questo caso i morti non servono, serve un transfert:il dolore del figlio con in mano la scarpa del padre, saltato su una mina.
Dal momento che la nostra memoria è selettiva, e tende a rimuovere tutto ciò che non considera "necessario", credo che l'informazione tesa alla creazione di un'opinione sia meno corretta
ma più efficace, in quanto capace di agire a un livello più intimo.
Insomma:per non cadere nell'indifferenza o nell'oblio, un'immagine deve agire sulla "coscienza"delle masse,
che le atrtribuiranno il compito di diventare l'icona di un tempo,di un dramma,di una conquista.

Anonimo ha detto...

Incomprensibile per chi non ha voglia di leggere, farsi domande, andare a verificare, per comprendere.
Sopratutto incomprensibile per chi parla di fotografia senza possibilmente aver preso in mano un libro di storia della fotografia: perche' la storia della fotografia non e' solo la storia dell'evoluzione tecnica del mezzo, di cui puo' non fregarcene nulla perche' col digitale possiamo fare tutto e di piu', schiacciare il tasto e via, ci pensa fotosciop. e' la storia dei fotografi e della loro societa', quindi storia dell'umanita' e della societa'. E se parliamo di societa' non si possono dimenticare i fatti .
E poi, non mi va di essere sintetico e dire solo : "bravo Sandro, ma che belle foto hai presentato!!!"
oppure : "grazie Sandro, mi hai fatto conoscere belle foto!!! " oppure " sono d'accordo con te!!!! "
Vedo che il cattivo esempio fornito dalla societa', dagli altri blog, dalla televisione , plagia le menti: lo vedete come fanno in tv i giornalisti da strapazzo? hanno 4-5 ospiti, fanno una domanda a uno e appena quello comincia a parlare e dice + di 12 parole, si intromettono perche' devono seguire la loro scaletta del cavolo e interrompono il discorso dell'ospite, e si passa a un'altra cosa.
E purtroppo si scatta come si ragiona.
E si agisce sempre cercando la sintesi come veicolo per il consenso.

Anonimo ha detto...

Per Oratore
mi dispiace immensamente che tu te la sia presa tanto per quel post, come se lo avessi messo io. Sono stata fuori per un certo periodo e proprio quel giorno ed a quell'ora ci stavamo mettendo a tavola a casa di mia nuora e di mio figlio...volevano festeggiare il mio compleanno, 25 Km lontano dal computer. Ho sbagliato una volta nel non firmarmi, ho chiesto scusa a chi me lo aveva segnalato, non sono abituata a tirare sassi nascondendo la mano...sono civile e bene educata e mai e poi mai lo avrei fatto con te che hai sempre avuto parole di apprezzamento nei miei confronti, anche quando non valevo una cicca.
E' successo già con SpeEr, un post anonimo, ma non mio certamente, ora di nuovo con te. Sicuramente l'amministratore del blog è in grado di chiarire la situazione e di non permettere che il blog sia sabotato da chicchessia !
Ero rimasta al primo post di Dino, quello in cui cita Piazza Tien An Men ed ora ho letto Rawnef ma non mi sento di commentarli, forse domani, più tranquilla.
Ho portato con me solo la rivista ed ho apprezzato la presentazione della gattina di Mari.Orecchie diritte, musetto inclinato, aria interrogativa,manca il fumetto " Ma io aspetto il gatto con gli stivali...questo che vuole? Chi lo conosce?"
E' forte anche Gualtiero fai-da-te...mi avete tenuta allegra.
Sto studiando, Oratore e mai avrei pensato che a monte della macchina ci fosse tanta letteratura fotografica. Sfrutto tutti i suggerimenti che emergono dal blog, è un lavoro un po' caotico ma comincia a farsi luce qualche concetto. Il più difficile è stato andare a rispolverare Platone..a me era molto più simpatico Socrate. Non ha scritto di fotografia? E filosofia non mi piaceva!
Ciao Oratore, non sono io, quello.

Anonimo ha detto...

Gabri

Anonimo ha detto...

X gabri : ma perche' sei convinta che io mi fossi convinto che si trattasse di un tuo commento? non vedo perche', spiegamelo quando ti va. Tu hai un modo di esprimerti che uno si sgama subito anche se non firmi, quindi era chiaro che quelle scemenze le avesse dette ....

Anonimo ha detto...

ops : auguri a gabri anche se il compleanno e' passato. mi pare d'obbligo.

Antonino Condorelli ha detto...

Auguri Gabri.
Beh, senza spingersi troppo oltre con Platone e Socrate, si potrebbe leggere pure Barthes, o meglio ancora Susan Sontag, "davanti al dolore degli altri".

Per quanto riguarda le foto e gli uomini che perdono di sensibilità davanti ad esse, credo che ci siano state e ci siano ancora, foto che hanno cambiato e cambiano il mondo. Mi riferisco per esempio alle foto dei soldati americani morti durante la guerra del Vietnam, quelle foto contribuirono a far capire all'America intera che quella guerra, ed a mio avviso tutte, era sbagliata. Più di recente mi vengono in mente le foto scattate durante la repressione dei monaci Birmani, oppure quelle del sequestro dei bambini nella scuola di Beslan, l'11 settembre. Non so quanti siano rimasti insensibili a quelle immagini. Ancora, le foto della guerra in Iraq o peggio in Afghanistan, non so voi, ma a me colpiscono prima dal punto di vista emotivo, poi professionale. Mi vengono spesso in mente le foto di Eugene Smith, quelle scattate a Hiroshima per documentare le conseguenze del bombardamento atomico, mi vengono in mente le foto di Livio Senigalliesi per documentare gli effetti dell'agente arancio. Insomma di foto che colpiscono la sensibilità delle persone, o almeno la mia, ce ne sono a montagne. Poi se uno è de fero, è de fero e basta. (fero cco du ere... come direbbero a Roma)
Non ho dubbi sulla necessità di essere cinici. A volte per affrontare certe situazioni, e le conseguenze che certe scene reali ci consegnano è importante avere un po' di distacco, il giusto distacco che ti dia la possibilità di fare una bella foto. In America, ci sono dei corsi, o meglio sedute psicologiche, per i giornalisti (intendo tutto l'universo giornalistico) che ritornano dalla copertura di eventi tragici, perchè a lungo andare collezionare scene drammatiche porta alla depressione. E quando dico eventi tragici non mi riferisco solo alle guerre, ma anche agli omicidi, e cose di questo genere, segno che poi, esser cinici non è proprio una gran soluzione e che la sensibilità in tutti noi (esseri umani) è un a caratteristica abbastanza sviluppata.

Antonino Condorelli ha detto...

O forse foto come questa http://www.atlaspressphoto.com/_ATLASPRESS_/ga_multi_view.asp?ga_id=confirm&adSearch=&ga_category=0&ga_category2=0&cType=1&ga_country=&within=0&fDate=1900-01-01&tDate=2008-02-27&orient=0&color=0&photographer=&imageNo=&ds=&orderDir=desc&ssSearchType=4&searchtype=1&searchText=&slbNo=49&smNo=0&smKey=&page=3
per quanto, non mi piace dal punto di vista fotografico, possono lasciare insensibili e disinformati su quanto sta accadendo a Gaza?

Anonimo ha detto...

Non capisco, come altre volte mi e' capitato, il ragionamento di condorelli. Ripeto, una cosa e' l'affastellamento concettuale che questa volta Iovine ha gettato sul tappeto, un'altra e' il suo preciso riferimento all'insensibilita' o anestetizzazione ovvero oblio. Il suo discorso penso proprio che non sia relativo soltanto alle qualita' umane necessarie al fotogiornalista per mostrare certe atrocita' ecc., penso che sottintenda ben altre riflessioni sociologiche sulla fotografia piuttosto che banali ovvieta' da ripetere a pappagallo.

Antonino Condorelli ha detto...

Iovine
...L’abuso di queste ha poi prodotto una, spesso politicamente strumentale, anestetizzazione della sensibilità individuale e collettiva nei confronti proprio di immagini che rappresentano i momenti più vivi e intensi dell’esistere umano. Si assiste così sempre più spesso al paradosso di fotografie che, nate per affondare nell’essenza stessa dell’uomo finiscono per produrre il distacco dell’individuo da quanto più profondamente lo esprime e descrive. E da un gesto di memoria finisce per generarsi oblio. Ma non è una responsabilità delle immagini, è una responsabilità di chi ne fa uso condizionandone sia la fruizione sia la produzione.

Caro Oratore,
Nelle risposte di tutti gli altri utenti di questo blog, ci sono pensieri su come la pubblicazione frequente di immagini "drammatiche" possano anestetizzare le menti della gente. La mia risposta era finalizzata solo a quella, parte del discorso, che pur mi sembra molto importante visto il momento che sta vivendo il fotogiornalismo oggi. Ho solo portato degli esempi di come, SECONDO ME, non sia poi tanto vero che le menti sono anestetizzate dalle frequenti immagini drammatiche. E banalità o no quelle immagini hanno cambiato il corso delle cose.
Da quello che dici, hai già letto cose scritte da me, e mi piacerebbe, anche se non ho la stessa autorevolezza dell'autore di questo blog, spiegarti i passaggi che non hai ben capito, magari portando esempi concreti delle poche cose che scrivo e che non capisci, che probabilmente, ad uno dotto come sei tu, potrebbero risultare banali e ovvie, ma sono anche concretezza e attualità.

Anonimo ha detto...

Devo anzitutto un chiarimento ad Oratore: le frasi virgolettate e l'insieme dei tuoi pensieri mi ha fatto scattare la reazione, ma soprattutto il rifiuto di passare per anonima. Detesto chi non ha il coraggio delle sue azioni e non mi sarebbe piaciuto essere considerata alla stregua.Ho capito male. Pace?
Mi ha incuriosita la caverna di Platone che ho collegato immediatamente al mio gioco "infantile".In fondo alla caverna le figurine rimandate dalla luce del sole erano diritte, le mie auto sul soffitto viaggiavano capovolte...anello mancante fra Platone e la camera oscura? Mi piace pensarlo.
Mi domandavo perchè Dino avesse citato pz. Tien An Men e lo studente che si oppone ad una fila di carri armati( di più forte impatto il filmato, il carro che sterza e il ragazzo che si sposta velocemente per essere sulla nuova traiettoria). A Dino è rimasta impressa nella mente quella foto, io di generazione diversa ed antecedente forse avrei citato l'assassinio di JF Kennedy o di ML King. Le foto della memoria collettiva hanno forse una valenza anche generazionale? La memoria collettiva dura, ma quanto?
Ammiro le immagini prese dai fotoreporters, ma mai mi fermerei a fotografare quando tutti scappano davanti ad un evento catastrofico! Penso che per realizzare quelle foto ci voglia un coraggio ed una freddezza non indifferenti anche in chi lo fa per professione. Non mi meraviglio che chi copre degli eventi, di guerra od altro, abbia poi bisogno dell'opera degli strizzacervelli. Mi pare di ricordare che anche gli astronauti al ritorno dall'allunaggio si siano sottoposti a psicoterapia.
Meglio, molto meglio per il mio temperamento, le fotoricordo, non fa niente che le condivida con me stessa o con poche persone, almeno quando le guardo (sarebbe bello che bloccassero il tempo e lo riportassero indietro..pia illusione!) mi restituiscono ricordi, sentimenti ed emozioni positivi e sono d'accordo con Rawnef e con Dino, tanti piccoli sassi formano una montagna che diventa patrimonio di tutti.
Condorelli ci ha fatto vedere la foto della bimba stesa nel fossato, meno importante, all'attenzione della presunta madre, della capretta e si è chiesto che fine avesse fatto quella bimba dell'età di sua figlia. E gli chiederei,al di là della cronaca che ho letto, che cosa abbia provato nel campo della discarica in Romania. E' giovane,'sto ragazzo, ma non gli manca il coraggio!
gabri

Anonimo ha detto...

con te pace come c'era prima d'altro canto

Unknown ha detto...

Dici "Ma non è una responsabilità delle immagini, è una responsabilità di chi ne fa uso condizionandone sia la fruizione sia la produzione."

Io credo di no, c'è un modo di fare immagini che condiziona chi ne fa uso; l'atto compositivo non è neutrale, anzi. Credo che tanto sia vero quanto dico che è nata una comunita http://visualpeacemakers.org/blog
che appunto tratta di questo nel suo manifesto.

sandroiovine ha detto...

Nessuno mette in dubbio la funzione dell'atto compositivo all'interno del gesto fotografico. Ma una cosa e un tempo sono la creazione dell'immagine e un'altra è il suo utilizzo e le testimonianze in questo senso non mancano certo nella storia della fotografia anche semplicemente riferendosi agli esempi più celebri. Il vero problema a mio avviso è che spesso non ci rendiamo nemmeno conto di quanto siano strumentalizzate e strumentalizzabili le immagini che ci circondano. Per questo il buon Eugene Smith predicava la responsabilità del fotografico non solo nell'atto generativo dell'immagine, ma anche in quello della diffusione della stessa attraverso l'esercizio di un funzione di controllo. Ma tutto questo presuppone quantomeno una coscienza a parte dell'autore perché detto controllo possa sussistere. Purtroppo nella maggioranza dei casi, complice anche una situazione di mercato tutt'altro che favorevole, le considerazioni di tipo commerciale finiscono per prevalere su quelle di tipo etico, non foss'altro perché più immediatamente percepibili in relazione alle tematiche della sussistenza.