giovedì 24 aprile 2008

Io non fotografo i morti!


«Sono ancora il più giovane!» è stata la replica pronta di Bruce Davidson, mentre gli occhi si illuminavano manifestando la soddisfazione per la battuta appena fatta, quando l’ho incontrato poco fa al Palais des Festivals et des Congrès di Cannes in occasione del Sony World Photography Awards. Gli avevo chiesto che effetto gli avesse fatto essere stato il più giovane fotografo ad entrare in Magnum. Mr. Davidson, non è tanto alto, cappellino beige in tinta con un gilet che farebbe la gioia di un fotoamatore d’assalto, occhiali da vista e un bicchiere d’acqua in mano. Parla con calma e manifesta quell’attitudine all’ascolto attento e partecipe che mi piace attribuire ai pochi che definisco, con termine desueto, gentiluomini. Delle poche parole che abbiamo potuto scambiare negli scarni minuti messi a disposizione dall’organizzazione Sony World Photography Awards, condivisi per altro con altri tre colleghi della stampa internazionale, sul suo modo di intendere la fotografia curando ancora personalmente il lavoro di camera oscura e non abbandonando la fotografia analogica «perché l’immagine richiede il suo tempo», mi hanno colpito alcune riflessioni suscitate da una mia domanda sull’opportunità di offrire nelle gallerie d’arte le fotografie nate per scopi fotogiornalistici «Non sono contrario, le fotografie son fatte per essere viste -mi ha detto Bruce Davidson- io stesso ho una splendida galleria che cura la vendita delle mia stampe e questo mi rende molto felice». Ma cosa pensa di chi vende in galleria immagini che, oltre a nascere per fini giornalistici, raffigurano cadaveri o parti di esso? Gli ho chiesto allora. «Questo non va bene, non ci si avvicina alla morte per metterla in vendita. Il fotogiornalismo deve cambiare cambiare, è già cambiato sotto la spinta dell’informazione offerta dalla televisione o da Internet. Ma questa è una altra storia e non va bene. Io poi non fotografo persone morte».
Forse chi fotografa cadaveri fa bene a farlo per documentare e raccontare al mondo cosa accade. Ognuno la veda come vuole. Ma credo che che si assume un onere del genere dovrebbe assumersi il carico di sentirsi responsabile del potenziale rischio, denunciato da Susan Sontag, che con il passare del tempo il senso delle immagini subisca un revisione di senso anche totale, ma in assoluto mi fa piacere che almeno qualcuno della vecchia guardia di Magnum dichiari implicitamente l’esistenza di un’etica della professione. E ovviamente il discorso non vale solo a proposito dei cadaveri.
Grazie Mr. Davidson e... à bientôt.





Il fotografo di Magnm Bruce Davidson alla mostra del Sony World Photography Awards a Cannes. © Sandro Iovine.



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3 commenti:

Anonimo ha detto...

Ogni volta che si affronta questo tema mi assale un dubbio.
Mi chiedo perché.
Perché un fatto in egual misura intimo e universale debba essere considerato tabù. Al punto di non poter essere descritto, raccontato.
La morte di un uomo ucciso dalla repressione, dall’ingiustizia, dall’indifferenza, dalla guerra è un fatto definitivo e irrimediabile.Un danno assoluto. I morti parlano, purché si dia loro questa opportunità. Perché negare loro la possibilità di raccontare ai vivi ciò che è capitato ?
Grandi fotografi hanno raccontato la miseria, la malattia, il dolore, la tossicodipendenza. Hanno raccontato il sesso, quello scabroso ed esplicito e mercenario dei bassifondi marsigliesi. Ogni devianza e sofferenza è stata documentata, raccontata. Pubblicata.
Ma la morte, no. Non è etico. Perché poi la gente si abitua.( Si abitua???!!!!) Non ci bada più.
Ho fotografato il volto di un ragazzo al Medina hospital di Mogadiscio. Stava morendo. Ferito a morte da un raid di poliziotti somali a Bakara Market, per rappresaglia. Non ce l’avevano con lui. Lui vendeva zucchero. Cercava di campare. Hanno sparato sulla folla con una mitragliatrice pesante. A chi tocca, tocca.
Non ho mai venduto o pubblicato quella fotografia. Non per pudore. In ogni caso, nessuno l’avrebbe pubblicata: etica editoriale ( pubblicità etc). L’ho fatto per me. Guardo spesso il volto di quel ragazzo ucciso per caso. Perché ho condiviso in quei momenti, con lui, il terrore di morire di una morte ingiusta perché inutile, casuale eppure conseguenza di un atto premeditato, possibile eppure inaccettabile. Perché è a lui che mi sono sentito vicino, in quei momenti, e non ad altri.
Non ho mai sospettato, nemmeno per un attimo, di aver violato il labile confine dell’etica professionale. Perché quello che i vivi in certe situazioni ripetono, fino all’ossessione, è : raccontate. Fate vedere quello che succede. Non servirà a niente, ma a loro, che non potranno mai crederci, serve almeno a nutrire la speranza che il mondo non li dimentichi.
L’etica riguarda il perché, non il cosa o il chi fotografiamo.

Tisbe ha detto...

Mi ricorda il fotografo di morti nel film "Era mio padre": orribile... Io credo che la morte debba essere sempre dignitosa. Gli animali si nascondono quando stanno per morire... anche io vorrei morire senza spettatori e francamente non vorrei che si violassi il mio corpo, in alcun modo, anche quando sarò morta (a meno che non si possano utilizzare degli organi per donare vita ad altri).

Andrea il "Fuso" ha detto...

sono una ragazza delicata e anche se la morte non mi spaventa, non è forse una tappa precisa della nostra vita?, mi spaventa di più chi con la morte ci campa, uccidendo, usandola, vendendola.......fotografandola.
E davvero necessario essere splatter per raccontare dolore ?
E vero i morti parlano devono parlare e noi dobbiamo dare voce ai morti perchè altri non muoiano nello stesso atroce modo (e visto, lo dicevo sopra è una tappa invitabile che almeno avvenga nel modo più umano possibile) ma se tutto ciò è vero non trovo necessario che i morti siano spettacolo crudo e crudele , via avevo avvertito che sono una ragazza delicata.